A FOGGIA LA DOPPIA PROTESTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO

A FOGGIA LA DOPPIA PROTESTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO
Neri di rabbia. Le due manifestazioni dopo la strage dei braccianti stranieri. I campi chiusi per sciopero
di Gianmario Leone, il Manifesto 09.08.18

Una giornata di protesta e di lotta come non si vedeva da tempo. Uno sciopero che ha avuto un’adesione totale da parte dei braccianti stagionali e due grandi manifestazioni che hanno riempito le strade di Foggia e della sua provincia. Per dimostrare che nonostante l’indifferenza e un sistema difficile da debellare, fatto di caporalato, di sfruttamento dei migranti in molte aziende agricole, dell’ombra della mafia e degli interessi enormi della filiera della grande distribuzione, c’è ancora voglia di lottare e non arrendersi.

LA GIORNATA è iniziata molto presto. Alle 8 è infatti partita dal ghetto di Rignano, nel comune di San Severo, cuore della protesta, la marcia dei berretti rossi organizzata dall’ Usb e Rete Iside alla quale ha partecipato anche il governatore Michele Emiliano. «È stata totale l’adesione dei lavoratori allo sciopero. Nessuno è al lavoro nei campi intorno al ghetto di Rignano» hanno assicurato dall’Usb. Centinaia di lavoratori hanno sfilato con i cappellini indossati dalle vittime, distribuiti da Usb e Rete Iside «per aiutare i braccianti a proteggersi dal solleone e idealmente dallo sfruttamento e dalla mancanza di diritti». Le rivendicazioni della marcia sono state le stesse esposte un mese fa al ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, «che aveva accolto le richieste – sottolinea il sindacato – promettendo un tavolo che non c’è mai stato. Chiediamo sicurezza, diritti e dignità per tutti i lavoratori agricoli».

«BASTA MORTI sul lavoro», «schiavi mai» alcuni degli slogan che hanno accompagnato la manifestazione mattutina, giunta davanti alla prefettura di Foggia dove centinaia di migranti, sostenuti da cittadini e associazioni, si sono radunati durante l’incontro che la delegazione ha avuto con il prefetto. All’arrivo è stato osservato un minuto di silenzio per ricordare i 16 morti nei due incidenti stradali avvenuti negli ultimi giorni sulle strade foggiane e tutti i caduti sul lavoro, compresi gli italiani morti nella miniera di Marcinelle l’8 agosto del 1956.

ABOUBAKAR SOUMAHORO, sindacalista italo-ivoriano dell’Usb, al termine della riunione ha raccontato di «risposte immediate» ricevute da prefetto e questura. Aggiungendo che il prefetto si è impegnato a «convocare dopo ferragosto una conferenza sul lavoro», mentre sul rinnovo dei permessi di soggiorno, che in tanti aspettano da mesi, «la questura ha dato la disponibilità a ricevere un elenco che l’Usb presenterà ogni due settimane per affrontare i casi di rinnovo».

IN PIÙ DI DUEMILA hanno invece sfilato per le strade del capoluogo dauno nella seconda manifestazione organizzata da Cgil, Cisl, Uil, con l’adesione di Arci, Libera e altre associazioni. In marcia, accanto a sindacalisti e migranti, ancora il governatore Emiliano e poi l’europarlamentare pugliese Elena Gentile, il deputato Roberto Speranza e l’attore Michele Placido. «Un senso di sconfitta è quello che si avverte quando accadono queste tragedie immani» hanno sottolineato i sindacalisti, per i quali «questa manifestazione è il momento del cambiamento, per dire basta a morti ammazzati di lavoro».

IL MOMENTO PIÙ TOCCANTE c’è stato quando sul palco ha preso la parola Mohamed, lavoratore migrante: «Non è una pacchia lavorare tutto il giorno per pochi euro o pagare 5 euro per salire sui furgoni della morte – ha gridato -. Come siamo giunti a questo punto? Come siamo passati dall’accoglienza diffusa al degrado diffuso? Chiediamo diritti, non l’impossibile. Vogliamo pari diritti per pari doveri».

UN ALTRO LAVORATORE ha ricordato il dramma vissuto da ogni singolo migrante: «Le famiglie di quelle 16 persone in Africa soffrono per i loro cari che avevano lasciato tutto per venire in Italia a lavorare. Prima sono stati trattati come animali e poi sono morti». Sul palco si sono poi alternati gli interventi dei segretari di Cgil, Cisl, Uil, le cui delegazioni sono giunte da tutta Italia, e dei presidenti delle associazioni che hanno aderito alla manifestazione. «Non sono incidenti, sono omicidi. Siamo stanchi – le ultime parole dal palco – di chi incita all’odio e ci accusa di buonismo».

Fonte:

https://ilmanifesto.it/a-foggia-la-doppia-protesta-contro-…/

Da Mauro Biani :

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“Il Cara e la Misericordia erano bancomat della ‘ndrangheta”

caracrotone“Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia”. Così il comandante del Ros Giuseppe Governale ha sintetizzato l’operazione Jonny che ha portato in carcere il governatore della Misericordia di Isola Leonardo Sacco ed il parroco don Edoardo Scordio, sottoposti a fermo insieme ad altre 66 persone, perché accusate di avere collaborato con la cosca Arena a lucrare sui finanziamenti destinati all’assistenza dei migranti. “La ‘ndrangheta – ha detto Governale – presceglie i suoi uomini e li fa lavorare per i proprie interessi. E tra questi c’erano Sacco e Scordio. Quest’ultimo ha infangato la Misericordia che fa tanto bene. Sacco, a cui lo Stato affida la tutela di persone in difficoltà, nel 2020 denunciò un reddito di 800 euro al fisco. Stamani, nel corso della perquisizione a lui ed a persone a lui vicine, abbiamo trovato 200 mila euro”. “Edoardo Scordio – ha aggiunto il comandante del Ros – è un parroco di provincia antitesi di quello che il Santo Padre descrive come uno dei più grandi pericoli della Chiesa. La Chiesa, ha detto il Papa, ha bisogno di persone con una sola vita, di servire il prossimo e le persone in difficoltà. In questo caso questo parroco ha dato indicazione di una doppia vita, di una vita al servizio di chi per tanti anni, per troppo tempo, ha messo sotto i propri piedi la gente di questa terra”. Un sacerdote, ha spiegato Governale, che nel 2007 risulta avere preso 650 mila euro dalla Misericordia di Isola Capo Rizzuto. Il comandante del Ros ha anche spiegato il nome dato all’operazione, Jonny: “Era in nome di battaglia di un maresciallo del reparto morto per una grave malattia mentre stava indagando sul Cara di Isola”.

“In Calabria è mancato il controllo dello Stato sul gioco online. Un business milionario su cui la cosca Arena ha sbaragliato la concorrenza con una rete gestita da una società maltese”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto nel corso della conferenza stampa tenutasi questa mattina per illustrare i particolari dell’operazione Jonny. “Grazie alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia – ha aggiunto – abbiamo scoperto come la cosca potesse contare su un software neanche tanto sofisticato che consentiva di eludere il prelievo fiscale”. In un anno e mezzo, ha reso noto il colonnello Pantaleo Cozzoli comandante provinciale della Guardia di finanza di Crotone, il clan, grazie al gioco online, avrebbe “incamerato circa un milione e 300mila euro. Oggi abbiamo sequestrato beni per 12 milioni di euro e durante le perquisizioni abbiamo rinvenuto migliaia di euro in contanti”. Gli uomini del clan Arena avevano anche il monopolio sul traffico di reperti archeologici. “La cosca – ha spiegato il capo della Mobile di Crotone Nicola Lelario – aveva la prelazione sugli oggetti che se non interessavano agli uomini della ‘ndrina venivano venduti sul mercato nero grazie anche all’intermediazioni di consulenti ed esperti, anche molto conosciuti, del settore”. Ma, come spiegato dal direttore dello Sco Alessandro Giuliano, “la cosca aveva un alto grado di pervasività in ogni settore della vita economica della provincia di Crotone e Catanzaro”. Le indagini hanno svelato la penetrazione della cosca Arena nel capoluogo calabrese: “Catanzaro – ha sottolineato Luberto – non è una isola felice. Le cosche sono radicate e si impongono con intimidazioni violenti e drammaticamente simbolici”. Il questore di Catanzaro Amalia Di Ruocco e il comandante provinciale dei carabinieri Marco Pecci hanno rivolto un accorato appello ai cittadini affinché denuncino i loro aguzzini e facciano “squadra con le forze dell’ordine”.

Forse allertati da qualche articolo di giornale, alcuni degli indagati finiti nella rete tesa dalla Dda di Catanzaro con l’operazione “Jonny” sulla gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto temevano di essere intercettati. Lo ha rivelato il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto, riferendo il contenuto di alcune riprese video effettuate dagli inquirenti. “L’aspetto piu’ inquietante del centro di accoglienza – ha detto – e’ che abbiamo notato articoli che praticamente avvisavano gli interessati delle indagini. Ho visto Poerio e Sacco (due dei fermati), ndr mettere i cellulari su una siepe e allontanarsi e li’ ho capito che tutti sapevano e temevo che non saremmo riusciti a carpire i segreti piu’ intimi della cosca, come invece accaduto con fotogrammi della consegna del denaro”.

Creato Lunedì, 15 Maggio 2017 15:28

 

Fonte:

http://ildispaccio.it/crotone/144610-il-cara-e-la-misericordia-erano-bancomat-della-ndrangheta

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JONNY | Poerio, recordman di voti e uomo del clan

Il ruolo del consigliere comunale di Isola nel meccanismo che allontanava i soldi dai servizi del Cara per portarli nelle casse della ‘ndrangheta Lunedì, 15 Maggio 2017 14:58 Pubblicato in Cronaca

CATANZARO Consigliere comunale, recordman di preferenze, sempre in prima fila nelle manifestazioni antindrangheta. In realtà, secondo le Dda, cosciente prestanome di uno dei principali ingranaggi societari che hanno permesso ai feroci clan di Isola Capo Rizzuto di mettere le mani sull’accoglienza. Un business per la ‘ndrangheta, un quotidiano inferno per gli ospiti del Cara, le cui condizioni sono finite più volte sotto i riflettori. È per questo che il consigliere comunale Pasquale Poerio è finito in carcere con la pesante accusa di essere uno dei partecipi all’associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetistico, con il compito precipuo di collaborare nella «distrazione dei capitali serventi la gestione del catering per il Cara, apprestando all’uopo falsi documenti contabili e utilizzando, quali soggetti contabili emittenti, le imprese commerciali dalle stesse gerite», ma anche di «acquisire quote sociali di imprese appositamente costituite per veicolare il danaro provento delle illecite condotte di distrazione, sì da ripulire lo stesso per essere destinato in parte ad incrementare la c.d. bacinella della cosca». Traduzione, il politico era uno degli ingranaggi del sistema di scatole cinesi che ha permesso al clan di rubare i soldi dell’accoglienza per finanziare nuove imprese criminali. Rubava ai poveri (e senza diritti) per dare ai ricchi (e presunti ‘ndranghetisti). E al parroco, don Scordio, che grazie al business dell’accoglienza ha incamerato milioni. Poerio – spiegano gli investigatori –  «non conduce alcuna strategia aziendale, sia essa di natura meramente amministrativa sia di natura organizzativa, che invece risulta condotta, per il tramite di Poerio Antonio, da quest’ultimo, da Poerio Fernando e da Sacco Leonardo». Lo conferma la segretaria della società, che interrogata dai finanzieri assicura di aver avuto a che fare con Pasquale Poerio, ma di essere stata assunta e di aver sempre trattato con Leonardo Sacco e Antonio Poerio. Ma lo ammette – intercettato – anche quest’ultimo, che a Salvatore De Furia raccomanda: «Tu evita di farti vedere, io qua manco li faccio entrare». E a maggior chiarezza spiega: «Io non mi trovo il nome mio qua, che è a nome di altri perché apposta, perché mi vedono con quello, mi vedono con quell’altro … non va bene!». “Qua” è la società Quadrifoglio. Ma di fortuna oggi sembra avergliene portata poca.

Alessia Candito

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/cronaca/item/57822-jonny-poerio,-recordman-di-voti-e-uomo-del-clan

La mano nera dietro la manifestazione di Archi

di Alessia Candito

Lunedì, 10 Ottobre 2016 11:18

C’è una doppia tragedia nella squallida manifestazione che un centinaio di abitanti di Archi hanno inscenato ieri nei pressi dell’ex facoltà di Giurisprudenza, oggi mal riconvertita in un centro di accoglienza. Non si tratta solo di una manifestazione razzista. Non si tratta solo dell’ennesimo sconcertante episodio di una stupida e fratricida guerra fra poveri. Quella manifestazione è soprattutto la conferma di un giogo da cui il quartiere non si sa e non si vuole emancipare.

Schiavo di silenzio ed omertà, per decenni durante i quali nelle sue strade senza nome si è consumata una guerra da ottocento morti ammazzati, schiavo di un degrado tutto uguale a se stesso, voluto e ricercato come condizione ideale per creare un esercito che ogni giorno necessita di carne da cannone, oggi il quartiere porge il collo a un nuovo giogo. E sempre schiavo rimane.

Quella di domenica ad Archi non è stata una manifestazione spontanea. C’è una mano nera dietro il gruppetto di leoni, riuniti per ore nei pressi del centro di accoglienza, per insultare trecento ragazzini sopravvissuti a stento al viaggio devastante che li ha portati in Italia. A svelarlo, è il simbolo che con arrogante noncuranza è stato tracciato a mo’ di firma sotto gli striscioni esposti nel corso della manifestazione. Si tratta di una Odal ed è da sempre uno dei più noti segni distintivi di Avanguardia Nazionale, di cui più di uno fra i manifestanti è un orgoglioso esponente.

 

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Sciolto più volte come movimento eversivo, Avanguardia si è ripresentato più volte sotto molti nomi e molte forme. Ma non ha mai cambiato natura. È lo stesso movimento che negli anni Settanta vedeva fra i propri entusiasti sostenitori Paolo e Giorgio De Stefano e quel Paolo Romeo, che oggi per missiva giura e spergiura la propria fede democratica, nonostante decine di pentiti, neri e di ‘ndrangheta, raccontino la sua storica vicinanza a Stefano “Er caccola” Delle Chiaie.
È lo stesso movimento che reclutava carne da cannone nelle periferie grazie ai danari versati da fin troppi nomi noti della grande borghesia reggina, che orfani di un golpe abortito, hanno giocato la propria partita tessendo le fila dei Moti di Reggio. È lo stesso movimento, che ha portato per mano la ‘ndrangheta nei grandi giochi della strategia della tensione, accompagnandola a fare il lavoro sporco nelle strade e nelle piazze, fra omicidi politici e bombe “dimenticate” nei cestini.

Oggi Avanguardia Nazionale si ripresenta ad Archi, con i propri simboli e i propri militanti. Ancora una volta, gioca con gli istinti più sordidi e malpancisti di un quartiere che alla propria condanna non si è mai saputo ribellare. Come negli anni Settanta, ancora una volta indica un nemico facile – e inerme – come responsabile del degrado cui i veri padroni di Archi hanno condannato il quartiere. Ancora una volta la rabbia sociale è stata convogliata contro un bersaglio facile, prima che si dirigesse contro il reale nemico. E se oggi come quarant’anni fa, ci fossero i clan dietro chi si veste di nero e urla “prima gli italiani”? Né Archi, né il resto della città si possono permettere il lusso di attendere di scoprirlo.

Per l’ennesima volta, il quartiere si è dimostrato uno schiavo, sciocco e felice. Per l’ennesima volta, si è fatto abbindolare da chi gli ha raccontato che le sue strade senza nome, i suoi servizi inesistenti, i suoi palazzoni dimenticati siano colpa di chi è arrivato per ultimo e solo per chiedere aiuto. Per l’ennesima volta, proprio quando i clan sono in ginocchio, quando le loro storiche menti sono confinate dietro le sbarre, qualcuno gioca a innescare una bomba sociale che non c’è. Per l’ennesima volta, ha avuto gioco facile, grazie ad amministrazioni che hanno cambiato nome e volto, ma allo stesso modo hanno continuato a servire il culto di una città che nasconde il degrado in periferia come polvere sotto il tappeto.
Per l’ennesima volta, Archi ha reso omaggio al culto dell’omertà che diventa connivenza, dell’indifferenza che diventa giustificazione. Ma in questo modo non ha perso solo Archi. Ieri, per l’ennesima volta, è stata sconfitta tutta la città.

 

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/l-altro-corriere/il-blog-della-redazione/item/50513-la-mano-nera-dietro-la-manifestazione-di-archi

Antimafia, una manifestazione in ricordo di Rita Atria e di tutti i testimoni di giustizia

Antimafia, una manifestazione in ricordo di Rita Atria e di tutti i testimoni di giustizia
 
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Regista teatro civile e addetta stampa M5S
Martedì 26 luglio è una giornata importante: a Roma (dalle ore 19.30 alle ore 21 in viale Amelia 23) verrà ricordata la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria a ventiquattro anni dalla sua prematura scomparsa. La storia di Rita è una di quelle storie che deve essere conosciuta e raccontata, è una di quelle storie che arriva dritta al cuore. Figlia del boss di Partanna a soli 17 anni decise di seguire le orme della cognata Piera Aiello e di raccontare alla magistratura tutto ciò che sapeva. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu il giudice Paolo Borsellino a cui si legò come a un padre. Quando la mafia, dopo la strage di Capaci mise di nuovo in ginocchio Palermo il 19 luglio 1992, Rita si suicidò lanciandosi dal settimo piano di un palazzo: non ce la faceva a vivere senza il suo caro Borsellino.

Troppo giovane, ripudiata dalla famiglia e dagli amici era, proprio come tutti gli adolescenti, fragile. Rita Atria in nome della giustizia, rinunciò a tutto, anche all’affetto di quella madre che, poco dopo, avrebbe distrutto la sua lapide a suon di martellate. La piccola Rita è stata una testimone di giustizia, non una pentita: non commise mai nessun reato di stampo mafioso. In un Paese come l’Italia, così duramente colpito da un profondo radicamento della criminalità organizzata, i testimoni di giustizia rappresentano una linfa vitale e vanno assolutamente protetti. I cittadini devono essere incoraggiati a denunciare e devono sentirsi al contempo tutelati dallo Stato.

Ma qual è la situazione dei testimoni di giustizia in Italia e quali le proposte in Parlamento? La proposta di legge di riforma del sistema tutorio per i testimoni di giustizia è stata assegnata alla Commissione giustizia della Camera, anche se non è ancora iniziato l’iter legislativo. La proposta, a prima firma della presidente dem della Commissione antimafia Rosy Bindi, è stata sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari ed è il frutto del lavoro del V Comitato della Commissione coordinato dal deputato Pd Davide Mattiello, con un sostanziale contributo del deputato M5s Francesco D’Uva.

Quali le novità salienti della proposta?

– se fosse approvata, sarebbe la prima legge dedicata ai testimoni di giustizia: infatti ad oggi le norme che li riguardano sono state inserite nella normativa sui collaboratori di giustizia – che invece risale al 1991 – e questo contribuisce alla confusione grave e dolorosa tra testimoni e collaboratori;

– viene superata la dualità tra le misure di sostegno previste per le speciali misure di protezione e lo speciale programma di protezione in modo da adoperarle tutte con maggior flessibilità e aderenza ai casi particolari;

– è prevista la figura del “referente” che deve accompagnare il protetto e la sua famiglia dall’inizio alla fine del percorso garantendo continuità, affidabilità e capacità di interfacciarsi con le parti dell’amministrazione pubblica;

– è prevista per la prima volta la protezione di coloro, soprattutto donne con minori, che pur non avendo informazioni rilevanti da offrire all’autorità giudiziaria – essendo inserite in contesti familiari criminali e non essendo in alcun modo coinvolte nella commissione dei delitti – decidano di rompere il proprio legame familiare, scegliendo di ricominciare una vita altrove, con nuove generalità.

Segnali forti e importanti, di cui necessita il nostro Paese. E’ fondamentale che la proposta di legge sui testimoni di giustizia venga calendarizzata quanto prima. La relazione sui testimoni, non è un caso, è stata dedicata proprio alla preziosa figura di Rita Atria. Sì, perché Rita è l’emblema della libertà: Rita che voleva essere libera dai codici mafiosi della sua famiglia. Rita che, secondo l’associazione antimafie Rita Atria “comprese molto presto che, per essere veramente liberi e per lottare contro la mafia, si deve intraprendere un percorso continuo, travagliato, nel quale si deve combattere quotidianamente dentro di noi quel pensiero mafioso diffuso che rende accettabili arretramenti morali e che degrada come favore ciò che spetta come diritto”.

“Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi”.

L’appuntamento dunque è nella giornata di martedì 26 luglio dalle ore 19:30 alle ore 21:00 in Viale Amelia 23 per ripercorrerne la storia e la lotta, attraverso la lettura di passi del suo diario e di testi di denuncia sulle mafie. Quest’evento, dal titolo L’unica speranza è non arrendersi mai, è stato organizzato dal presidio romano dell’associazione antimafie “Rita Atria”.

Dal diario di Rita:

“Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/25/antimafia-una-manifestazione-in-ricordo-di-rita-atria-e-di-tutti-i-testimoni-di-giustizia/2932163/

«A mio padre vogliono far fare la fine di Provenzano»

 di Damiano Aliprandi 22 lug 2016 12:37

La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, da 24 anni al 41 bis e in cella a L’Aquila

Ha un tumore alla faringe e i 24 anni di 41 bis gli anno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio scorso, ma restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila.

Parliamo di Vincenzo Stranieri. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. “Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano”.

La sua denuncia è stata raccolta dalla radicale e presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Subito si è attivata chiedendo al capo del Dap, Santi Consolo, di intervenire sulla vicenda. Rita Bernardini conosce bene la situazione perché aveva già segnalato il grave problema del carcere di L’Aquila: durante la visita di Pasqua aveva ritrovato reclusi cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e ottenuto la risposta che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno. Uno che faceva il porta-vitto, le chiese “Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso? ”. Un altro ancora le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. “Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare? ”.
Rita Bernardini fa quindi presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, sarà riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. A questo si aggiunge che a causa della sua malattia ha bisogno della chemioterapia: il carcere di L’Aquila sarà in grado di riservargli questo trattamento sanitario assolutamente indispensabile?

Alla trasmissione Radio carcere,  condotta da Riccardo Arena, la Bernardini ha posto in diretta la questione a Santi Consolo. Il capo del Dap le ha risposto che purtroppo tutto rientra nella legge, dove è espressamente previsto che le persone ritenute ancora pericolose possono essere sottoposte a misura di sicurezza. Tuttavia ha segnalato il problema al magistrato di sorveglianza il quale ha ritenuto che Vincenzo Stranieri, nonostante i suoi gravi problemi di salute fisica e mentale, sia compatibile con la misura di sicurezza in 41 bis. Consolo ha comunque espresso il parere personale – in sintonia con quello della Bernardini – che tale regime in 41 bis non è compatibile nemmeno con la finalità del lavoro, per questo ha allertato il Provveditore regionale per chiedere chiarimenti. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante abbia scontato tutti gli anni inflitti e il sopraggiungere di questa grave malattia?

Ma come denuncia efficacemente Rita Bernardini, è giusto che la figlia Anna, oggi che il padre si trova nella cosiddetta “casa di lavoro” dell’Aquila, si sia sentita umiliata quando con arroganza qualcuno, alla sua garbata domanda “come sta mio padre? ”, ha risposto “è in cella! ”. La Bernardini conclude amaramente: “Anna Stranieri lo sa bene che suo padre è in cella e che ci rimarrà contro ogni principio di legalità e di umanità per altri due anni, ma era proprio necessario calpestare i suoi sentimenti? ”
Nel carcere di L”Aquila, in realtà, è stata creata una casa di lavoro per internati sottoposti al regime previsto dall’art 41 bis op. Attualmente sono presenti, oltre a Stranieri, Filippo Guttadauro, Salvatore Corrao, Salvatore Nobis e Pasquale Scarpa. Sono stati collocati nella dismessa area riservata del carcere e sono trattati come detenuti particolarmente pericolosi, La loro gestione è affidata al Gom, lo speciale reparto operativo mobile.
Salvatore Corrao è internato da due anni e mezzo, gli altri da circa 7 mesi. Sono in gruppi da due persone, non hanno un programma trattamentale, non sono seguiti da educatori e criminologi. Il magistrato di sorveglianza non è mai andato in carcere a verificare le condizioni in cui si trovano questi internati nonostante le molteplici richieste avanzate.
Da qualche mese gli hanno consentito di lavorare, solo dopo le ripetute richieste avanzate dal difensore, ma solo con mansioni di scopino o porta vitto, A distanza di oltre due anni di reclami e ricorsi rigettati, anche il loro comune difensore, Piera Farina, ha perso la speranza.

Scarpa e Nobis nel mese di febbraio hanno presentato una licenza per gravi motivi di famiglia ma non hanno avuto riscontro dal magistrato. Corrao si trova nella peggiore delle condizioni: dopo 9 anni di detenzione (di cui 7 in regime di alta sorveglianza e 2 in 41 bis op) ha visto rigettarsi licenza premio, riesame anticipato della pericolosità e revoca anticipata del 41 bis. A febbraio scorso scadevano i due anni di casa lavoro ma il magistrato si è determinato a prorogarla di 6 mesi e il tribunale di sorveglianza de L’Aquila cui è stato proposto appello non ha ancora depositato l’ordinanza. Il ministro della Giustizia gli ha prorogato il regime speciale a maggio e si è in attesa dell’udienza. Anche Scarpa ha avuto la proroga del regime speciale a gennaio e il tribunale di sorveglianza di Roma investito del reclamo ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata, ritenendola infondata.
Appare evidente che sia stato creato un nuovo e mascherato “fine pena mai” e magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di Roma giocano a palla avvelenata.

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/carcere/28545_a_mio_padre_vogliono_far_fare_la_fine_di_provenzano/

TERZO VALICO: ‘NDRANGHETA AD ALTA VELOCITA’

Fonte:

Paolo Borsellino

Paolo Borsellino Paolo Borsellino

Nato a Palermo nel quartiere della Kalsa, dove vivono tra gli altri Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta, Paolo Borsellino si laurea in Giurisprudenza il 27 giugno 1962 all’età di 22 anni.  Nel 1963 supera il concorso per entrare in magistratura,nel 1967 diventa pretore a Mazara del Vallo,nel 1969 pretore a Monreale, dove lavora insieme ad Emanuele Basile. Nel 1975 viene trasferito a Palermo e a luglio entra nell’ufficio istruzione affari penali sotto la guida del giudice istruttore Rocco Chinnici.

Il 1980 vede l’arresto dei primi sei mafiosi grazie all’indagine condotta da Basile e Borsellino, ma nello stesso anno arriva la morte di Emanuele Basile e la scorta per la famiglia Borsellino. In quell’anno viene costituito il pool antimafia sotto la guida di Chinnici, Il 29 luglio 1983 viene ucciso Rocco Chinnici nell’esplosione di un’autobomba e pochi giorni dopo arriva da Firenze Antonino Caponnetto. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Tommaso Buscetta. “Don Masino” come viene chiamato nell’ambiente mafioso viene arrestato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia.

Buscetta descrive una mafia di cui fino ad allora si sapeva poco o nulla e la descrive in maniera molto dettagliata. Nel 1985  vengono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l’uno dall’altro, i commissari Beppe Montana e Ninni Cassara’. Falcone e Borsellino vengono trasferiti nella foresteria del carcere dell’Asinara, dove iniziano a scrivere l’istruttoria per il maxiprocesso. Il 19 dicembre 1986 Borsellino viene trasferito alla Procura di Marsala. Nel 1987 Caponnetto lascia il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si aspettano la nomina di Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) non la vede nella stessa maniera e nasce la paura di vedere il pool sciolto. Il 14 settembre Antonino Meli diventa (per anzianità) il capo del pool; Borsellino torna a Marsala, dove riprende a lavorare alacremente e insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Inizia in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porne a capo. Falcone va a Roma per prendere il comando della direzione affari penali e preme per l’istituzione della Superprocura.

Con Falcone a Roma, Borsellino chiede il trasferimento alla Procura di Palermo e l’11 dicembre 1991 Paolo Borsellino, insieme al sostituto Antonio Ingroia, torna operativo alla Procura di Palermo.

La strage di via D’Amelio La strage di via D’Amelio

 

Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si reca insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove vive sua madre.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa 100 kg di tritolo a bordo esplode, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traia. L’unico sopravvissuto è Antonino Vullo.

Per la strage di via D’Amelio, il 3 luglio 2003, la Cassazione ha confermato le condanne all’ ergastolo inflitte ai mandanti dell’eccidio. In particolare, i giudici della V sezione penale hanno reso definitive le condanne per Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Natale e Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Scotto, Gaetano Murano e Gaetano Urso.

 

 

Fonte:

http://www.ansa.it/legalita/static/bio/borsellino.shtml

8 gennaio 2010 Rosarno (Reggio Calabria)

Uomini delle n’drine sparano contro i raccoglitori d’arance africani che non hanno pagato il pizzo di 5 euro preteso sul guadagno giornaliero: 20 euro in tutto per un lavoro massacrante e per terminare la giornata in capannoni dismessi e senza servizi. In duecento si ribellano alla schiavitù compiendo blocchi stradali ed appiccando fuoco ad auto e cassonetti, ma le n’drine mobilitano il popolino razzista in una caccia all’uomo e nell’assedio al municipio: “O li cacciate o ne ammazziamo uno per sera”. Il bilancio del pogrom è di 70 feriti, dei quali uno con la testa rotta, 3 gambizzati, altri feriti da colpi d’arma da fuoco o di ascia. La magistratura spicca 8 ordini di arresto, 3 di italiani, fra i quali Antonio Bellocco – nipote del boss Carmelo Bellocco- gli altri africani. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ordina 1.100 trasferimenti coatti in strutture per stranieri, premessa per l’espulsione: tranne “i feriti che non hanno reagito” al pestaggio, una decina in tutto. Diversi riescono a fuggire, senza avere un luogo dove andare.

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/8-gennaio-2010-rosarno-reggio-calabria/

 

 

5 gennaio nel ricordo di Fava e Impastato

5 gennaio nel  ricordo di Fava e Impastato
gennaio 05 2015
10:51
 

Fiore di campo nasce

dal grembo della terra nera

Fiore di campo cresce

odoroso di fresca rugiada

Fiore di campo muore

sciogliendo sulla terra gli umori segreti.

(Peppino Impastato)

5 gennaio: una data per due coincidenze: la nascita di Peppino Impastato e la morte di Giuseppe Fava. Due persone con una diversa storia alle spalle, ma con molti punti in comune: entrambi vengono ricordati come “giornalisti” uccisi dalla mafia: per la verità Fava era un “professionista” del giornalismo, Peppino, malgrado qualche rara corrispondenza a “Lotta Continua” aveva dedicato la sua attenzione all’informazione orale attraverso Radio Aut. Solo nel 1996 gli sarà concessa., alla memoria, l’iscrizione all’albo dei giornalisti.

Entrambi avevano identificato nei grandi mafiosi della loro zona, da una parte Nitto Santapaola, dall’altra Tano Badalamenti, i nemici della Sicilia e del suo decollo economico e sociale. Entrambi amavano l’arte, il teatro, anche se Peppino non scrisse mai nulla, mentre i lavori teatrali di Fava ancora oggi suscitano ammirazione . Entrambi, subito dopo la loro morte vennero diffamati, secondo le regole  e le strategie mafiose, affinchè di loro si perdesse la memoria: Fava un “femminaro”, Peppino un “terrorista”. Fortunatamente, almeno in questi due casi, il tempo e le indagini hanno fatto giustizia e i colpevoli sono stati individuati e condannati. L’esempio di Peppino e di Fava ripropone l’importanza e la delicatezza dell’informazione, dove oggi il monopolio che alcuni gangsters e piduisti esercitano su questo campo, consente di creare consenso politico ed economico ai soliti gruppi di potere che continuano, con la violenza a solidificare la propria ricchezza sulle spalle dei  più deboli.

 

Per Giuseppe Fava

 

Dai cadaveri viventi il solito:

“Cu ci u faceva fari?”,

e continueremo a morire,

a vederci rubare

i momenti migliori della nostra vita

perché non abbiamo accettato

le regole della sopraffazione,

perché abbiamo voluto salvare

la dignità degli altri.

Continueremo in solitudine

la nostra fragile lotta

contro i corvi del potere

senza rinunciare alla certezza del giusto.

Sulla resa di pochi è la sconfitta di tutti.

Possiamo ancora farcela.

Se  questo venir fuori,

candidarsi a bersaglio,

servisse come seme per la rivolta dei vinti,

moriremmo con meno angoscia.

 

 

 

Fonte:

http://www.telejato.it/home/cronaca/5-gennaio-nel-ricordo-di-fava-e-impastato/

 

23 dicembre 1984: La strage del rapido 904

Martedì 23 Dicembre 2014 07:21

altIl 23 Dicembre 1984 viene ricordato per la “Strage del rapido 904”, anche detta “Strage di Natale”.

Il rapido 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano, quel giorno era pieno di viaggiatori, dal momento che era il periodo pre-natalizio.

Il treno non giunse mai a destinazione: nella galleria di S. Benedetto Val di Sambro venne colpito da un attentato dinamitardo.

Verso le 19 di sera ci fu una violentissima esplosione. L’ordigno, collocato sul treno durante la sosta alla Stazione di Firenze Santa Maria Novella, era stato posto su una griglia portabagagli, pressapoco al centro del convoglio. La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata.

Al contrario del caso dell’Italicus, però, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel, in modo da massimizzare l’effetto della detonazione.

L’esplosione causò 15 morti e 267 feriti. I soccorsi però arrivarono con difficoltà, dato che l’esplosione aveva danneggiato la linea elettrica e parte della tratta era isolata. Inoltre il fumo bloccava l’accesso dall’ingresso sud dove si erano concentrati inizialmente i soccorsi. Ci volle più di un’ora e mezza perchè i primi aiuti riuscissero a raggiungere il luogo dell’esplosione. Nel conto finale delle vittime, i morti furono 17.

Tutto fu predisposto per provocare il maggior numero possibile di vittime: l’occasione del Natale, la potenza dell’esplosivo, il “timer” regolato per fare esplodere la bomba sotto la galleria in coincidenza del transito, sul binario opposto, di un altro convoglio.

Dal momento che l’esplosione avvenne pressapoco nei pressi del punto in cui dieci anni prima era avvenuta la strage dell’Italicus e che fu utilizzato lo stesso esplosivo usato per l’agguato di via Amelio, l’attentato fu immediatamente ricondotto alla Mafia e Riina fu indicato come mandante della strage. L’obiettivo, secondo il Pm che si occupò inizialmente dell’indagine, era quello di distogliere l’attenzione di polizia e magistratura dalla mafia e rilanciare il terrorismo come unico reale nemico contro cui lo Stato doveva combattere.

Fin dall’inizio però emersero altre responsabilità: dall’ambiente dell’estrema destra ai serivizi segreti. Un deputato missino fu condannato per aver consegnato l’esplosivo nelle mani di Misso, boss camorrista e neofascista del rione Sanità. La stessa commissione parlamentare ha segnalato la “distrazione” di Sismi e Sisde nel segnalare attività di tipo terroristico. Secondo l’associazione dei familiari delle vittime, i mafiosi non sono i soli responsabili dell’attentato e la commissione parlamentare “[…] ha evidenziato la possibilità e l’attualità della reiterazione di atti criminali alla scopo di turbare e condizionare lo svolgimento della vita democratica del Paese, mettendo in luce come nel caso dei più recenti attentati del 1993, vi sia stata un’opera sistematica di disinformazione della “falange armata” che si è avvalsa di un supporto informativo e logistico non disponibile sul semplice mercato criminale”.

 

 

Fonte:

https://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3574-23-dicembre-1984-la-strage-del-rapido-904