Agitu e il prezzo dell’essere donna

Si rincorrono in queste ore le immagini di un sogno infranto e di un sorriso spezzato dall’ennesimo femminicidio. Agitu Ideo Gudeta, pastora di origine etiope era emigrata nel Trentino dove, recuperando  terreni abbandonati e razze rustiche autoctone, aveva dato vita all’Azienda Agricola Biologica ‘La Capra Felice’. Ieri è stata trovata uccisa nel suo appartamento. Reo confesso un suo dipendente, Adams Suleimani, ghanese, il quale ha raccontato di aver ucciso la donna a martellate per il mancato pagamento di una mensilità. Agitu è stata anche violentata mentre era agonizzante (fonte: https://www.huffingtonpost.it/entry/omicidio-di-agitu-ideo-gudeta-arrestato-un-dipendente-ghanese-ha-confessato_it_5fec2d4dc5b66809cb356f15 ).

Agitu Ideo

(Immagine tratta dall’articolo sopra)

Non possiamo parlare di un omicidio qualsiasi. L’uccisione di Agitu è un femminicidio. Agitu era una donna nera migrante che c’è l’aveva fatta: aveva coronato il suo sogno di diventare un’imprenditrice. Era sfuggita a diversi mostri: la guerra, la povertà, il razzismo. Ma non aveva fatto i conti con un altro mostro atavico che è il patriarcato. Perché se è vero che la fame può portare un uomo ad uccidere, per arrivare a commettere un delitto in modo così violento, il movente economico non può essere tutto. E poco importa se non è stato razzismo perché sia la vittima che il carnefice erano migranti stranieri. In realtà il razzismo ha diverse forme e non riguarda solo le etnie. Esistono il patriarcato e il sessismo secondo i quali una donna non può avere più successo o fortuna di un uomo, neanche a pari condizioni di partenza. Agitu Ideo Gudeta era una donna nera migrante ed Adams Suleimani è un uomo nero migrante. Ma la prima era un’imprenditrice e il secondo un dipendente. E’ questo il vero prezzo di questo delitto ed è questo ad aver fatto sì che la vita di questa donna, agli occhi dell’uomo, valesse quanto il suo stipendio, ovvero quanto la percepita distanza fra i due. Distanza che l’uomo ha voluto cancellare a suo modo, accanendosi contro la donna e violentandola nell’essenza stessa della sua femminilità mentre era ancora in vita. Non più una datrice di lavoro e un dipendente, non più quindi due esseri umani in una legittima relazione economica, ma solo una donna ed un uomo con l’illegittimo potere di quest’ultimo di disporre del corpo e della vita della prima. Agitu ha pagato con la sua vita il prezzo dell’essere una donna. Spero che la sua tragica e violenta morte faccia riflettere chi dice che non ha senso parlare di femminicidio, di violenza di genere, di patriarcato, di femminismo.

 

D. Q. 

 

PIACENZA, SEX WORKER TRANS RACCONTA: «MINACCE E BOTTE DAI CARABINIERI»

Ulteriori dettagli emergono dalla vicenda dei carabinieri arrestati a Piacenza. Francesca, una sex worker transgender, racconta di essere stata obbligata a collaborare e a soddisfare le richieste dei militari. «Se non collabori, se non mi dai lavoro, in un modo o nell’altro ti frego e ti rimando in Brasile»: sarebbero queste le minacce che le sarebbero state rivolte dal maresciallo Orlando, secondo quanto dichiarato dalla stessa Francesca all’ANSA.

Racconta, poi, di come i carabinieri organizzassero nella caserma Levante dei festini, aiutati da un’altra donna trans chiamata Nikita, in cui vi sarebbe stata moltissima droga e le due donne sarebbero state costrette ad avere rapporti sessuali, venendo pagate in cocaina. In un’altra occasione, un carabiniere si sarebbe presentato a casa sua, con il suo fascicolo in mano, pretendendo sesso gratis.

Infine, come riporta La Stampa, un evento di certo angosciante che racconta Francesca: «Una sera – dice – mi hanno beccato in strada, volevano rompermi le scatole. Mi hanno portato ore in giro per i campi a cercare gli spacciatori e poi siamo finiti in caserma dove mi hanno chiusa dentro. Io ad un certo punto ho risposto in maniera aggressiva perché non avevo fatto nulla e mi tenevano là. Allora uno di loro mi ha dato una spinta e mi ha fatto cadere per terra». Botte che anche altre avrebbero subito. «C’è un’altra donna trans, una mia amica che ora è a Roma, si chiama Flavia, anche lei è stata picchiata dai carabinieri. Molte donne trans sono state minacciate se non facevano quel che dicevano loro».

Francesca spera che i Pm possano ascoltarla per poter raccontare quello che accadeva in quella che è stata ribattezzata dai media la “caserma degli orrori” e poter dare voce alle donne che, come lei, sono state vittime di violenza e abusi in un luogo che doveva tutelarle, ma che invece è diventato una succursale dell’inferno.

 

Fonte:

https://www.neg.zone/2020/07/27/piacenza-carabinieri/?fbclid=IwAR2y2jfuNwMP738TapKgfI0ehNtOXOoOlQ2A8o0jdbJ8VPCzCbuQ3cVlfwQ

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Egitto, si suicida l’attivista Sarah Hegazi: arrestata per una bandiera arcobaleno

Rifugiata in Canada dopo il carcere, non è riuscita a superare il trauma delle torture e degli abusi subiti.
ROMA – Non ce l’ha fatta Sarah Hegazi, rifugiata di origine egiziana che tre anni fa ha dovuto lasciare il suo Paese e trasferirsi in Canada dopo essere stata incarcerata per il fatto di essere lesbica. Dietro le sbarre la donna aveva denunciato violenze e torture, poi una volta fuori si erano aggiunte pressioni e stigma sociale. Due giorni fa la 30enne si e’ tolta la vita, e come riferisce il quotidiano ‘Egypt today’, prima di morire ha lasciato un biglietto con su scritto: “Ho cercato di sopravvivere, ma non ce l’ho fatta”.

La donna era un’attivista per i diritti umani e della comunita’ Lgbt. Le difficolta’ per lei avevano avuto inizio nel 2017, quando era stata arrestata con l’accusa di aver esposto una bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo. A incriminare lei e un suo amico, una foto che la ritraeva sorridente mentre sventolava il simbolo della comunita’ Lgbt. La procura del Cairo accuso’ entrambi di far parte di un movimento che intendeva diffondere l’ideologia omosessuale nel Paese.

In Egitto non esiste una legge che criminalizza esplicitamente gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma queste persone possono incorrere in denunce e arresti per aver tenuto “comportamenti immorali”, giudicati come “attacchi” alla cultura tradizionale.

In carcere, Hegazi ha raccontato di aver subito torture, anche dalle altre detenute, con accuse di violenze sessuali.
Nel 2018 l’attivista era stata rilasciata ma qualche tempo dopo aveva chiesto l’asilo politico in Canada, poiche’ temeva nuovi procedimenti penali e soprattutto stava ricevendo pressioni da parte della societa’ egiziana, prevalentemente conservatrice. In Canada, pero’, la donna sarebbe caduta in uno stato depressivo.

Qualche giorno prima di togliersi la vita, Hegazi ha pubblicato una foto su Instagram accompagnata dal commento: “Il cielo e’ meglio della terra, e io voglio il cielo, non la terra”.

“I segni e il ricordo della tortura non ti lasciano in pace neanche in esilio” ha dichiarato all’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. Secondo Noury, questa e’ “un’altra storia che chiama in causa le autorita’ egiziane”.

 

Fonte:

https://www.dire.it/15-06-2020/473930-egitto-si-suicida-lattivista-sarah-hegazi-arrestata-per-una-bandiera-arcobaleno/?fbclid=IwAR3S1bdiulYBctLwJ0PF3_PYXgBvFF-gXxnY3a6_rENBl7sxct5WiGlUK4Q

I bambini abusati nel coro di Ratisbona furono almeno 547. Il legale: «Georg Ratzinger sapeva»

La denuncia nel rapporto finale presentato dall’avvocato Ulrich Weber, e divulgato dai media tedeschi. Cinquecento bambini subirono violenze corporali; 67 anche violenze sessuali. «All’ex direttore del coro va rinfacciato di non aver fatto nulla nonostante sapesse»

Sono almeno 547 i bambini che, tra il 1945 e il 1992, hanno subito violenze nel coro del Duomo di Ratisbona. Ad affermarlo è il rapporto finale di una inchiesta avviata nel 2015 presentato dall’avvocato Ulrich Weber, presentato oggi in una conferenza stampa in Germania. Stando al documento, c’è «un’altissima probabilità» che 500 bambini abbiano subito violenze corporali, e 67 anche violenze sessuali. Secondo Weber 49 colpevoli sono stati identificati. «Nella scuola del coro», si legge nel report», «dominavano paura e senso di impotenza», e «la violenza era un metodo applicato quotidianamente» per ottenere «massimi risultati» e «assoluta disciplina».

Il coro venne diretto, dal 1964 al 1994, dal fratello del Papa emerito Benedetto XVI, Georg Ratzinger (qui l’intervista di Danilo Taino con lui nel 2010: «Io mi occupavo di musica, mai avuto notizia di casi del genere»). Nel suo rapporto Weber attribuisce a Georg Ratzinger delle «corresponsabilità»: nella conferenza stampa di oggi, il legale, secondo la Dpa (riportata dall’agenzia Ansa), ha affermato che all’ex direttore del coro va «rinfacciato di aver fatto finta di non vedere, e di non essere intervenuto nonostante sapesse».

Nel 2010, quando il caso era emerso per la prima volta, Ratzinger aveva detto che alcuni ragazzi gli avevano raccontato come andavano le cose nella scuola di preparazione, ma che le loro storie non lo avevano indotto a pensare di «dover intervenire in qualche modo». Ratzinger ha sempre ammesso di aver saputo delle violenze fisiche, ma di non sapere nulla di abusi sessuali. Secondo quanto riportato nel 2010 dalla Passauer Neuen Presse, lo stesso fratello maggiore del Papa ha ammesso di aver dato qualche schiaffo ai ragazzi fino agli anni ‘70 e di essere stato «sollevato» quando le punizioni fisiche vennero vietate dalla legge all’inizio degli anni ‘80.

Nel 2010 l’allora vescovo di Ratisbona ed ex prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina delle Fede, Gerhard Ludwig Muller, ha ammesso gli abusi nel coro, precisando però che gli episodi di pedofilia «non coincidono con il periodo dell’incarico del maestro professor Ratzinger». Anche Muller viene accusato nel rapporto finale sul caso per la debolezza «strategica, organizzativa e comunicativa» con cui lo scandalo venne affrontato.

Muller divenne capo dell’ex sant’Uffizio nel 2012, dall’allora papa Joseph Ratzinger. Papa Francesco lo ha da pochi giorni sollevato dall’incarico. L’attuale vescovo di Ratisbona, Rudolf Voderholzer, ha già annunciato di voler offrire alle vittime compensazioni finanziarie tra i 5 e i 20 mila euro a testa entro la fine dell’anno.

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Fonte:
http://www.corriere.it/esteri/17_luglio_18/i-bambini-abusati-coro-ratisbona-furono-almeno-547-79dfc3f6-6ba6-11e7-9094-d21d151198e9.shtml

Pedofilia, premiato il docufilm italiano che inguaia papa Bergoglio

«Una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza; divieto di qualsiasi contatto con i minori; assidua sorveglianza da parte di responsabili individuati dal vescovo di Verona». È la pena più pesante inflitta ai sacerdoti pedofili protagonisti di una delle più agghiaccianti vicende di violenza su minori compiuti in ambito ecclesiastico mai emerse in Italia: gli stupri di decine di ospiti dell’Istituto per bambini sordomuti A. Provolo di Verona, perpetrati lungo tutta la seconda metà del secolo scorso. Uno dei destinatari di questo «precetto penale» comminato dalla Santa Sede è don Eligio Piccoli, come si legge nella lettera (di cui Left è in possesso) che fu inviata il 24 novembre 2012 dal presidente del Tribunale ecclesiastico di Verona, monsignor Giampietro Mazzoni, all’avvocato delle vittime riunite nell’associazione sordi Provolo. Per le violenze compiute nell’istituto, nel quale era educatore, Piccoli era stato riconosciuto colpevole al termine di una inchiesta indipendente affidata dalla Santa Sede a un magistrato “laico”, Mario Sannite. Si trattava in quel momento, nel 2012, dell’unica inchiesta mai avvenuta sul Provolo. A causa della prescrizione la magistratura italiana non era potuta intervenire. Come i nostri lettori sanno, all’epoca raccontammo questa storia su Left (aggiornandola successivamente diverse volte). Era l’ennesima puntata di una vicenda iniziata nel 2009 quando alcune delle vittime ormai adulte resero pubbliche le violenze subite, dopo aver preso coraggio sulla scia di situazioni analoghe accadute in tutta Europa (Irlanda, Olanda, Belgio, Inghilterra, Germania etc).Oggi si torna a parlare nuovamente di don Eligio Piccoli in occasione dei “DIG Awards 2017”, i premi internazionali per le migliori inchieste e reportage video della scorsa stagione. È lui infatti il protagonista de Il caso Provolo, l’inchiesta realizzata da Sacha Biazzo per Fanpage.it che ha vinto il primo premio della sezione “Short”. Il docufilm di Biazzo dura circa 15 minuti e don Piccoli da un letto di ospedale conferma al bravo giornalista quanto emerse dall’inchiesta di Sannite parlando di almeno 10 preti coinvolti e confessando di aver abusato. Come è noto, molti preti della lista presentata dall’associazione Sordi Provolo al magistrato incaricato dalla Santa Sede oggi sono morti, alcuni sono stati trasferiti in Argentina e altri – come don Piccoli e don Pernigotti per citarne un paio – sono ancora in vita.

Riassumiamo in breve la storia. Le accuse formulate da 67 giovani ospiti dell’Istituto sin dalla metà degli anni 80 e inascoltate per quasi 30 anni, riguardavano 25 persone tra sacerdoti e fratelli laici. Al termine dell’indagine nel 2012 Sannite ravvisò elementi di colpevolezza solo per tre di loro: don Piccoli, don Danilo Corradi e frate Lino Gugole. Per Corradi le accuse «non risultano provate», ma «stante il dubbio», la Santa Sede formulò nei suoi confronti un’ammonizione canonica, vale a dire «una stretta vigilanza da parte dei responsabili dei suoi comportamenti». Corradi (come del resto don Piccoli) è pertanto rimasto prete ed è finito sotto il controllo di chi per anni aveva ignorato le accuse nei suoi confronti. Ancor più sconcertante, se possibile, il paragrafo relativo al terzo uomo.

«Gugole – si legge nel testo della Santa sede – è affetto da una grave forma di alzheimer che lo rende del tutto incapace di intendere e di volere. È ricoverato in una casa di riposo presso l’ospedale di Negrar. Nessun provvedimento, stante la sua condizione, è stato preso nei suoi confronti». In realtà sarebbe stato difficile anche solo recapitargli di persona un telegramma, poiché, come mi raccontò nel 2013 il portavoce dell’associazione, Marco Lodi Rizzini, «Lino Gugole è morto nel 2011, con tanto di necrologi pubblicati sui giornali locali e i gazzettini parrocchiali». Cioè un anno prima della “sentenza”.

Riguardo gli altri accusati la Santa Sede liquidò la faccenda affermando che su alcuni di loro – quelli davvero rimasti in vita – avrebbero continuato a indagare. Ma, come vedremo, non risulta. Tra i “prosciolti” infatti figura il nome di don Nicola Corradi (che non è parente di don Danilo) finito in carcere nel novembre del 2016 a Mendoza in Argentina con l’accusa di aver abusato alcuni bambini nella più importante sede sudamericana del Provolo in cui fu trasferito a metà anni 80 dal Vaticano e di cui è stato direttore fino all’arresto. E c’è anche il nome dell’ex vescovo di Verona mons. Giuseppe Carraro, per il quale il 16 luglio 2015 papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto riguardante le sue «virtù eroiche», inserendolo tra i venerabili, primo passo verso la beatificazione. Il loro accusatore, Gianni Bisoli, nel 2012 era stato ritenuto inattendibile nonostante la minuziosa descrizione della stanza in cui era costretto a «masturbazioni, sodomizzazioni e rapporti orali».

In particolare, Bisoli ha sempre raccontato di essere stato violentato dal vescovo anche nel 1964, durante il suo ultimo anno di permanenza nell’istituto. Tuttavia, quando lo intervistai nel 2013 per uno dei miei libri su Chiesa e pedofilia, mi spiegò che il dottor Sannite gli fece vedere un documento firmato da don Danilo Corradi nel quale era apposta come data di sua dismissione dall’Istituto Provolo il 20 giugno 1963. La data quindi non coincideva con la ricostruzione fornita dalla presunta vittima. Ebbene, mi disse Bisoli, «sull’originale che mi fu mostrato la data ha un refuso, appare abrasa e modificata ed è scritta con una grafia diversa rispetto al resto del documento, ma soprattutto è antecedente a quella della mia ultima pagella a firma dell’insegnante don Eligio Piccoli, che ricordavo datata 27 giugno 1964». A nulla portarono le sue perplessità. Nonostante le evidenti manomissioni non fu creduto.

Ma proprio la grossolana manomissione potrebbe costar caro alla diocesi di Verona sotto la cui giurisdizione ricade l’istituto cattolico per sordomuti. A gennaio scorso è stata aperta un’inchiesta nei confronti dei responsabili del Provolo da parte della magistratura scaligera in seguito ad alcuni esposti presentati dall’associazione Rete L’Abuso. E in seguito, il 27 febbraio, anche l’associazione sordi Provolo e Bisoli – che nel frattempo ha ritrovato l’originale della pagella del 1964 – hanno depositato formale querela per la presunta manomissione del documento.

Inoltre, in riferimento all’arresto di don Nicola Corradi, il 29 marzo, la Rete L’Abuso e Bisoli, come riportano diverse testate locali e non, hanno chiesto tramite un esposto alla procura di Verona di accertare eventuali omissioni giuridicamente rilevanti «in capo ai soggetti preposti al controllo dell’operato dei sacerdoti pure in termini di insufficiente vigilanza o di negligenza nel mettere in atto le cautele necessarie ad impedire la reiterazione di gravi reati come quello di pedofilia». Vale a dire i responsabili dell’istituto di Verona. La sede legale dell’istituto Provolo argentino sito in Mendoza e diretto da Corradi fino all’arresto risulta infatti coincidere con quella italiana, in Stradone Provolo 20, a dieci minuti a piedi dalle più famose attrazione turistiche del capoluogo scaligero: l’Arena e la casa di Giulietta.

Nei confronti di don Nicola, oggi 80enne, la magistratura italiana non è mai potuta intervenire per via della prescrizione ma il presidente della Rete l’Abuso, Francesco Zanardi, mi ha spiegato che l’esposto serve ad appurare eventuali responsabilità della diocesi di Verona: «Abbiamo chiesto di verificare se ci sono state omissioni e negligenze, dal momento che Corradi era già stato denunciato dalle vittime italiane ben prima dei fatti di cui è accusato in Argentina, senza che venisse preso alcun provvedimento». L’obiettivo di Rete l’Abuso è far riaprire il caso anche in Italia. «Perché – si chiede Zanardi – don Corradi nonostante le accuse nei suoi confronti venne trasferito dalla Curia di Verona in un’altra sede, sempre a contatto con dei minori, invece di essere rimosso dai suoi incarichi?».

Questa domanda ci riporta a don Eligio Piccoli e al documentario di Sacha Biazzo. Ascoltando ciò che questo sacerdote afferma davanti alla cinepresa appare evidente che la condanna ecclesiastica a «una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza» non abbia sortito alcun effetto. Seppur affaticato dalla malattia fisica che lo costringe in ospedale, don Piccoli racconta di aver abusato con estrema naturalezza e che altri suoi “colleghi” preti lo hanno fatto (nel video esibisce un ghigno mostruoso).

Tipica dei pedofili è la totale assenza di emozioni. Come ho potuto riscontrare più volte, nel caso dei preti l’unica preoccupazione è di aver peccato. Questa idea distorta è figlia di una cultura secondo la quale in fin dei conti è il bambino, diavolo seduttore, a indurre in tentazione il sant’uomo. E questo cede, offendendo Dio.

La realtà però è un’altra e dice senza appello che la pedofilia non è un’offesa alla castità, non è un delitto contro la morale, non è il Male. Non è un atto di lussuria come peraltro scrivono certi giornalisti affermati citando il canone 2351 del Catechismo della Chiesa cattolica. L’abuso non è un rapporto sessuale tra due persone consenzienti che si lasciano andare ma è pura violenza agita da un adulto nei confronti di un bambino “scelto” con “cura” dal suo violentatore. Il pedofilo non prova alcun desiderio, è una persona anaffettiva. La vittima, in quanto in età prepuberale, non ha e non può mai avere né sessualità, né desiderio.

Chi abusa un bambino è un grave malato mentale ma non occorre essere psichiatri per comprendere che non può guarire invocando la madonna. Basta un minimo di buon senso. A meno che non si pensi – come fanno i religiosi cattolici, pedofili e non – che l’abuso è un “atto impuro” (VI Comandamento), cioè, appunto, un peccato. Seppur annoverato tra i delitti più gravi, secondo la visione degli appartenenti al clero si tratta di un crimine contro la morale. “Abuso morale” lo ha definito Benedetto XVI nel 2013 e di recente anche papa Francesco nella premessa all’autobiografia di una vittima di sacerdote pedofilo. Di conseguenza i responsabili devono risponderne a Dio, nella persona del suo rappresentante in terra, e non alle leggi della società civile di cui fanno parte. È sempre stato così ed è così anche oggi sotto il pontificato del presunto innovatore argentino.

Appena eletto, papa Francesco ha messo in cima alla agenda pontificia la lotta contro la pedofilia. Dedicando a questo tema almeno un annuncio a settimana, non mancando mai di farsi fotografare con atteggiamenti affettuosi – a volte ricambiati, a volte no – in mezzo a dei bambini, emanando una serie di decreti volti ad accentrare in Vaticano tutte le indagini e le decisioni sui casi più scabrosi e ad avvicinare le norme della Santa Sede alle indicazioni della Convezione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza siglata nel 1991 e ratificata nel 2014. Segnali forti, amplificati dalla parola d’ordine spesso pronunciata dal pontefice argentino e diligentemente rilanciata dai media italiani: «Tolleranza zero». Un passaggio epocale, sulla carta, è avvenuto il 5 settembre 2016, con l’emanazione del decreto Come una madre amorevole che prevede, oltre all’inasprimento delle misure anti-abusi, la rimozione dei vescovi responsabili di condotta negligente del proprio ufficio nei casi di violenza su minori o adulti vulnerabili. Vale a dire, di insabbiamento delle denunce relative a preti pedofili. Poco più di un anno prima, il 5 giugno 2015 al fine di rendere possibile l’individuazione e la punizione di vescovi negligenti, secondo quanto si legge sul sito della Santa Sede, al papa era stata sottoposta, da una commissione consultiva appositamente insediata, la proposta di creare un Tribunale apostolico all’interno della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) alla quale già spetta il compito di giudicare i sacerdoti accusati di pedofilia. Si trattava solo di un suggerimento ma la stampa italiana annunciò il tribunale dei vescovi come cosa fatta descrivendolo come l’ennesimo segnale di svolta rispetto al passato compiuto da Bergoglio. In realtà la stessa pena, ossia la rimozione del porporato insabbiatore, colmava un vuoto procedurale poiché era già disciplinata sin dal 1962 dalla legislazione canonica vigente per cause gravi (Crimen sollicitationis) e rinnovata nel 2001 da un provvedimento di Giovanni Paolo II (De delictis gravioribus). Ma senza essere mai applicata. E cosa ancor più interessante, il tribunale seppur annunciato e osannato non è mai entrato in funzione né mai accadrà perché il papa non lo ha mai creato. A dare la smentita – con quasi due anni di ritardo rispetto ai titoli a nove colonne dei media nostrani – è stato il 5 marzo scorso niente meno che il prefetto della Cdf, card. Gerard Müller, il quale intervistato dal Corriere della sera ha precisato che il tribunale per i vescovi «era solo un progetto».

Questi sono solo alcuni esempi di come la Chiesa di papa Francesco stia affrontando la questione delle violenze sui minori al proprio interno. La strategia è collaudata e vincente: cambiare tutto per non cambiare niente. Alle parole del papa, alle sue intenzioni, ai suoi desiderata raramente, per non dire mai, seguono dei fatti concreti. E su questo i media sono disposti a chiudere un occhio, molto spesso tutti e due (come abbiamo avuto modo di dimostrare su Left n. 20/2017).

In questa ottica il lavoro di Sacha Biazzo andrebbe doppiamente premiato, in quanto contribuisce a mantenere viva l’attenzione sull’inerzia e sulla tolleranza (verso i preti violentatori) del Vaticano che dunque, anche sotto Bergoglio, continua a combattere la pedofilia solo a parole. Al più, a colpi di avemaria.

 

Fonte:

https://left.it/2017/06/26/pedofilia-premiato-il-docufilm-italiano-che-inguaia-papa-bergoglio/

Argentina, libertà e assoluzione per Higui

ARGENTINA #LibertadYAbsolucionParaHigui
Oggi, 17 maggio, Giornata Nazionale di mobilitazione per la libertà immediata e per l’assoluzione di Eva Analia de Jesus, detta Higui,ingiustamente detenuta da sette mesi per essersi difesa dall’ attacco di una banda di dieci uomini che volevano infliggerle uno stupro correttivo perchè lesbica.

Aveva con sè un coltello, perchè minacciata più volte in altre occasioni e, mentre era a terra con dieci uomini che la picchiavano e la minacciavano di stupro, non ha esitato ad autodifendersi, ferendo a morte uno degli assalitori. Quando è arrivata la polizia Higui era ancora lì, sanguinante, ferita e con gli abiti strappati. Si è ritrovata in una cella, dove è agli arresti dall’ottobre 2016, accusata di omicidio. I suoi assalitori sono tutti a piede libero. Questa in breve la vicenda drammatica che sta mobilitando nel Paese numerose organizzazioni e associazioni femministe perchè Higui venga rilasciata e assolta per legittima difesa. A tutt’ oggi non è ancora stata definita la data del processo, sono stati negati gli arresti domiciliari e tutto il fascicolo che riguarda Higui è pieno di gravi irregolarità. Per tutte queste ragioni è stata indetta per oggi, giornata globale di lotta contro l’omolesbotransfobia, una mobilitazione nazionale per la libertà immediata di Higui.

In questi mesi la mobilitazione militante ha prodotto diversi video che raccontano la vicenda e la vita di Higui. La sua famiglia è molto attiva nell’ organizzare la mobilitazione per liberarla. Qui di seguito i link di video, articoli e la traduzione del comunicato del Coordinamento per la Libertà e l’Assoluzione di Higui postato dal collettivo Cagne Sciolte di Roma.
http://agenciapresentes.org/…/negaron-excarcelacion-a-higu…/
https://vimeo.com/216850987
https://www.facebook.com/notes/cagne-sciolte/siamo-tutt-per-limmediata-liberazione-e-assoluzione-per-higui/1552050808152903/

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Condannate tre suore Carmelitane per maltrattamenti su minori. Una per abusi sessuali

Docce gelate, a letto senza coperte per non farle sporcare di pipì, sono solo alcune delle torture inflitte ai piccoli ospiti delle case famiglia «Amicizia» e «Aurora» gestite dalle imputate

di Giulio De Santis

 

Bambini costretti a mangiare il loro vomito, a dormire senza coperte, a fare docce gelate. È il clima di terrore imposto per mesi tra le mura delle case famiglia “Amicizia” e “Aurora” riservate ai minorenni a Rocca di Papa da tre suore Carmelitane, condannate per maltrattamenti. Una di loro, Amparo Pena Guardaro, è stata anche ritenuta responsabile di aver intrattenuto rapporti intimi con uno dei ragazzi ospitati nella struttura, ed è infatti l’imputata per cui il tribunale ha pronunciato la sentenza più severa: cinque anni e due mesi di reclusione con l’accusa di violenza sessuale cui i giudici hanno anche aggiunto il divieto di lavorare per sempre con altri bambini.

Le suore sudamericane

Per le altre due suore il verdetto è stato circoscritto ai reati inerenti al regime di paura instaurato all’interno della struttura: Virginia Pena Guardado – gemella di Amparo – è stata condannata a due anni, mentre nei confronti di Lorena Mely Sorto Hendriquez è stata pronunciata una sentenza di colpevolezza a un anno di reclusione. Entrambe le sorelle godranno della sospensione della pena. Tutte le imputate sono di origine sudamericana. Il dramma vissuto tra le mura della casa famiglia in via Locatelli è emerso tre anni fa, quando alcuni genitori si accorsero che i figli avevano lividi, graffi, punti di sutura e soprattutto uno di loro si era rotto entrambi i polsi.

I bimbi puniti

Davanti alle pressanti domande delle mamme e dei papà su cosa fosse successo, i bambini confessarono di subire vessazioni continue dalle responsabili della struttura. Drammi che si sono ripetuti anno dopo anno a partire dal 2007 fino al 2011, come sostenuto dai giudici di Velletri. L’incubo dei ragazzi cominciava la mattina presto, quando le suore li obbligavano a riordinare le stanze ma soprattutto a fare le docce con acqua fredda per consumare meno energia possibile. Una sofferenza estrema se si considera che nelle notti invernali dormivano senza coperte, protetti solo dalle lenzuola e il pigiama. A motivare le angherie, la decisione delle suore di punire i bambini perché si facevano la pipì addosso e le imputate non avevano alcuna intenzione di pulire la biancheria sporca.

Il bimbo di sette anni con le scarpe numero 44

«Pur esprimendo soddisfazione per la condanna per quello che concerne i gravi e continuati maltrattamenti subiti dai figli minori della mia assistita, non posso che rammaricarmi per la dichiarata prescrizione relativamente al reato di abbandono di minore – dice l’avvocato Erika Iannucci, difensore di una delle parti civili- Per la mia cliente resta l’amarezza di aver denunciato, senza essere creduta, presso il Tribunale per i Minorenni gli abusi e le violenze che sono emersi con grande chiarezza nel dibattimento subiti dai propri figli.” Drammatico il racconto in aula di una delle mamme dei bambini maltratti: “Per i miei bambini è stata una tortura, per sette anni hanno vissuto all’inferno, erano terrorizzati». La signora, cui furono tolti i figli quando avevano 6 e 2 anni, riferì nel corso del processo che “I bambini negli orari di visita non mi lasciavano andare via e fu allora che notai su mio figlio dei lividi. La situazione peggiorava sempre: occhi neri, un polso rotto, graffi e una volta 40 punti di sutura perché qualcuno aveva spinto mio figlio contro un vetro. D’inverno capitava che avessero vestiti troppo leggeri per il clima e una volta mio figlio, avrà avuto sui 7 anni, aveva al piede scarpe di misura 44».

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Franca Viola, la ragazza che rifiutò il matrimonio riparatore e cambiò la storia d’Italia

Franca Viola venne rapita il giorno di Santo Stefano del 1965. Segregata in casa e stuprata per più di una settimana, una volta liberata rifiutò il matrimonio con il suo aguzzino e si batté per l’abrogazione dell’art. 544 del codice penale che concedeva a violentatori e stupratori la possibilità di scampare alla condanna semplicemente promettendo di sposare la vittima del reato.

26 dicembre 2016 15:27
di Charlotte Matteini

Franca-Viola-da-ragazza

Il giorno di Santo Stefano riporta alla mente una storia tutta italiana che sconvolse la società del tempo, arrivando a modificare irreparabilmente non solo, in seguito, il codice penale ma anche e soprattutto la mentalità del Belpaese. Correva l’anno 1965 e l’allora 17enne Franca Viola, giovane ragazza siciliana di Alcamo, venne rapita insieme al fratellino di 8 anni, segregata in casa e ripetutamente violentata per otto giorni consecutivi da Filippo Melodia, un ragazzo del posto. Il giorno di capodanno, il padre di Franca Viola fu contattato dai parenti di Melodia sostanzialmente allo scopo di costringere i genitori della ragazza ad accettare le nozze riparatrici tra i due giovani – la cosiddetta “paciata” – all’epoca pratica molto in voga. I genitori di Franca finsero di accettare, ma in accordo con la polizia, il 2 gennaio 1966 fecero intervenire gli agenti per liberare la ragazza, facendo arrestare Melodia e i suoi complici.

Per quale motivo la storia di Franca Viola cambiò per sempre l’Italia? Secondo la morale dell’epoca, una ragazza non più vergine a causa di uno stupro avrebbe dovuto necessariamente sposare il suo rapitore per salvare il suo onore e, soprattutto, quello della famiglia. All’articolo 544 del codice penale, infatti si leggeva: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Traducendo, dunque, all’epoca la legge permetteva di estinguere il reato di sequestro di persona e violenza carnale ai danni di una donna semplicemente accettando di sposarla, da lì l’espressione matrimonio riparatore, riparatore per la fedina penale del reo che in questa maniera riusciva dunque a uscire completamente pulito nonostante avesse commesso un’azione aberrante. All’epoca, però, lo stupro non era considerato un reato contro la persona come oggi, ma un reato contro la morale pubblica e le pene, quindi, erano di molto inferiori rispetto a quelle odierne.

La vicenda di Franca Viola, però, sollevò forti e inaspettate polemiche, che contribuirono a un netto cambio di passo. Melodia fu processato e condannato a 11 anni di carcere, i giudici non credettero alle accuse lanciate dall’uomo per screditare la ragazza sostenendo che lei fosse d’accordo alla “fuitina” per mettere i genitori davanti al fatto compiuto e obbligarli a concedere l’autorizzazione al matrimonio. Il caso di Franca Viola, quindi, portò a manifestazioni e prese di posizione da parte delle femministe e della società civile, che premettero affinché venisse abrogato l’articolo 544 del codice penale che concedeva questa scappatoia a violentatori e stupratori. Così, dopo anni di dibattiti, l’articolo venne successivamente abrogato i 5 agosto del 1981, mentre solo 20 anni fa, nel 1996, lo stupro venne definitivamente riconosciuto in Italia come un reato contro la persona e non più contro la morale pubblica, con conseguente aumento della gravità e delle pene previste. Grazie alla sua battaglia, la giovane Franca Viola divenne – e tuttora è – simbolo dell’emancipazione femminile in Italia, la donna che è riuscita a cambiare per sempre la mentalità di un Paese.

 

 

Fonte:

http://www.fanpage.it/franca-viola-la-ragazza-che-rifiuto-il-matrimonio-riparatore-e-cambio-la-storia-d-italia/

Femministe in piazza per la piccola Yuliana

Colombia. Proteste contro i femminicidi

Il logo delle donne contro i femminicidi

Femministe di nuovo in piazza, in Colombia, contro la violenza sulle donne. Centinaia di persone si sono raccolte nel parco di Lourdes, a Bogotà, intorno alla foto della piccola Yuliana Samboni, una bambina di 7 anni violentata, torturata e uccisa probabilmente da un uomo di 38 anni, che è stato arrestato. L’avvocata Monica Roa ha accusato la società colombiana di essere «il brodo di coltura per i violentatori che uccidono. Quello di Yuliana – ha ricordato – non è un caso isolato, 21 bambine tra i 10 e i 14 anni vengono violentate ogni giorno».

Il presunto assassino ha rapito la bambina dal quartiere povero in cui viveva per portarla nel lussuoso appartamento di proprietà della famiglia, nel Chapinero. La famiglia della piccola aveva lasciato il dipartimento del Cauca – dove i contadini sono spesso espulsi dalla violenza delle bande paramilitari -, in cerca di migliori condizioni nella capitale.
Il 6 novembre era stata violentata, torturata e impalata in Colombia, una donna di 44 anni, Dora Lilia Galvez, che morì dopo 22 giorni di agonia. Nel 2016, sono state uccise 125 donne. Secondo l’uffficio dell’Onu-Mujer, nel paese ogni giorno e mezzo una donna viene ammazzata dal compagno o dall’ex. Anche dal Cile, ieri le femministe hanno denunciato un femminicidio con stupro e torture a una giovane che sarebbe stata impalata e a cui avrebbero tagliato i seni.

In questi giorni, le donne che hanno partecipato all’incontro continentale dei Movimenti dell’Alba hanno ricordato le cifre dei femminicidi commessi in Colombia, e la violenza di cui sono state vittime le donne durante il conflitto armato ad opera di polizia e paramilitari; e hanno ribadito la necessità di arrivare a un processo di pace con giustizia sociale. Ma, mentre è iniziata la smobilitazione della guerriglia dopo la firma degli accordi, ratificata dal Parlamento, la Camera tarda ad avviare il percorso di amnistia per gli ex guerriglieri, che ne consentirebbe il rientro nella vita politica.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/femministe-in-piazza-per-la-piccola-yuliana/