Gabriele Del Grande fermato in Turchia telefona alla compagna: “Non rispettano miei diritti, comincio sciopero della fame”

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Oggi alle 14.30 ci ha chiamato Gabriele del Grande. È la prima telefonata concessa da domenica 9 quando è stato fermato dalle autorità turche al confine nella regione di Hatay. Era in Turchia dal giorno 7 Aprile. Dice Gabriele: “Sto parlando con quattro poliziotti che mi guardano e ascoltano. Mi hanno fermato al confine, e dopo avermi tenuto nel centro di identificazione e di espulsione di Hatay, sono stato trasferito a Mugla, sempre in un centro di identificazione ed espulsione, in isolamento. I miei documenti sono in regola, ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo. Sto bene, non mi è stato torto un capello ma non posso telefonare, hanno sequestrato il mio telefono e le mie cose, sebbene non mi venga contestato nessun reato. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito ripetuti interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta. Non mi è stato detto che le autorità italiane volevano mettersi in contatto con me. Da stasera entrerò in sciopero della fame e invito tutti a mobilitarsi per chiedere che vengano rispettati i miei diritti”. Ci siamo messi in macchina una volta, siamo pronti a tornare in strada per i diritti.

Da Il fatto quotidiano:

Gabriele Del Grande fermato in Turchia telefona alla compagna: “Non rispettano miei diritti, comincio sciopero della fame”
Mondo
Dopo sette giorni di silenzio i familiari del giornalista sono tornati a sentire la sua voce. “I miei documenti sono in regola, ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta”, ha detto nella telefonata
“Da stasera inizio lo sciopero della fame e invito tutti a mobilitarsi per chiedere che vengano rispettati i miei diritti”. Dopo sette giorni di silenzio i familiari di Gabriele Del Grande sono tornati a sentire la sua voce.  Fermato lunedì 10 aprile dalle forze di polizia turche nella regione dell’Hatay, il blogger e documentarista ha infatti telefonato  alla compagna e ad alcuni amici. “I miei documenti sono in regola, ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta”, ha detto nella telefonata.Del Grande è trattenuto da alcuni giorni in un centro di detenzione amministrativa, ed è riuscito a chiamare in Italia dal telefono della struttura dove è detenuto. Mentre telefonava ha raccontato di essere circondato da quattro poliziotti. “Sto bene, non mi è stato torto un capello ma non posso telefonare, hanno sequestrato il mio cellulare e le mie cose, sebbene non mi venga contestato nessun reato”.Oggi dalle pagine del Corriere della Sera era stato Massimo del Grande, padre di Gabriele a raccontare di non essere ancora riuscito a parlare con il figlio. “Siamo tutti in ansia – ha detto – Purtroppo, tra vacanze di Pasqua e referendum in Turchia, anche se è assurdo, è ancora tutto fermo”.  La Farnesina ha assicurato che le condizioni del giornalista sono buone, e che la sua espulsione dalla Turchia doveva essere “imminente”, già tre giorni dopo il fermo. All’alba dell’ottavo giorno Del Grande non è ancora rientrato ha potuto soltanto telefonare a casa.

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Spagna – Proteste, fughe e ora sciopero della fame nel CIE di Zona Franca a Barcellona

CIE BarcellonaIn questo mese di ottobre sono continue le proteste e le rivolte nei CIE spagnoli. Dopo la fuga in massa dal CIE di Sangonera a Murcia e la rivolta e lo sciopero della fame in quello di Aluche a Madrid, è la volta dei reclusi nel centro di detenzione ed espulsione della Zona Franca di Barcellona. Ieri 23 ottobre 68 persone, tutte algerine, tra le 182 recluse nel lager di Barcellona, hanno iniziato uno sciopero della fame, rinunciando al pranzo e alla cena e rimanendo in protesta nel cortile della struttura, rifiutandosi di tornare nelle celle. In vista della deportazione prevista nei prossimi giorni, i migranti hanno deciso di continuare la loro lotta esigendo la liberazione immediata. Lo sciopero della fame arriva infatti dopo ripetute proteste: dalla riapertura del CIE di Barcellona, avvenuta il 7 luglio dopo lavori di ristrutturazione durati alcuni mesi, si segnalano numerosi scontri e tentativi di fuga. Per citare solo quelli del mese in corso: il 7 ottobre c’è stata una rivolta e il 19 un tentativo di fuga fermato dall’intervento della polizia antisommossa. In più il 12 ottobre 40 migranti erano stati trasferiti, dopo la fuga di massa del 5 ottobre, dal CIE di Murcia in quello di Barcellona, e la polizia accusa proprio questi ultimi di aver organizzato le recenti proteste. Nel CIE di Barcellona l’ultimo sciopero della fame era stato portato avanti da 40 reclusi nel dicembre 2013 in seguito alla morte di Aramis Manukyan, un armeno di 32 anni, picchiato dalla polizia e posto in isolamento.
Nel 2015 nei 7 CIE spagnoli di Algeciras, Madrid, Las Palmas, Barcellona, Murcia, Valencia e Tenerife sono state recluse 6.930 persone, 455 donne e 6475 uomini, e 2.871 persone sono state deportate.
La maggior parte delle persone detenute nei CIE e deportate provengono da Algeria e Marocco. Gli/le adult* algerin*, in particolar modo, sono tra le persone che hanno la certezza di essere respinte o direttamente via mare o recluse nei CIE appena sbarcate in Spagna, e rapidamente deportate con voli aerei, in base agli accordi bilaterali vigenti tra i due paesi: per questo motivo le proteste di Murcia, Madrid e Barcellona hanno visto come protagoniste le persone provenienti da questo paese.
Un presidio di solidarietà con i migranti in lotta è stato convocato oggi alle 19, davanti al CIE, dal collettivo Te Kedas Donde Kieras.

Fonte:

https://hurriya.noblogs.org/post/2016/10/24/spagna-proteste-fughe-sciopero-della-fame-cie-barcellona/

MESSICO: UN ANNO SENZA I 43

Messico. Una settimana di mobilitazione per gli studenti scomparsi

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Grande allarme, in Mes­sico, tra i movi­menti e i fami­gliari dei 43 stu­denti scom­parsi il 26 set­tem­bre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repres­sione: annun­ciata dall’intervento vio­lento della poli­zia che mar­tedì ha attac­cato la caro­vana di madri che cer­cava di rag­giun­gere la capi­tale: «Siamo arri­vati al limite della pazienza — ha dichia­rato Roge­lio Ortega, gover­na­tore dello stato del Guer­rero -, da adesso in poi, chiun­que attac­chi le isti­tu­zioni dovrà rispon­derne di fronte alla legge». Si rife­riva alla pro­te­sta dei fami­gliari che hanno fatto irru­zione nei locali della Pro­cura gene­rale per gri­dare slo­gan con­tro l’impunità e il nar­co­stato. Quanto alla lega­lità vigente nel Guer­rero, spec­chio di tutto un paese, val­gono le cifre for­nite dallo stesso pre­si­dente neo­li­be­ri­sta Enri­que Peña Nieto: almeno 25.000 scom­parsi dal 2006, la mag­gio­ranza dei quali durante la sua gestione.

Il 26 set­tem­bre dell’anno scorso, un gruppo di stu­denti delle scuole rurali di Ayo­tzi­napa è stato vio­len­te­mente attac­cato da poli­zia locale e nar­co­traf­fi­canti. Il bilan­cio è stato di sei morti — due stu­denti, due gio­vani cal­cia­tori, un tas­si­sta e una pas­seg­gera -, nume­rosi feriti e 43 desaparecidos.

Gli stu­denti delle com­bat­tive scuole rurali pro­te­sta­vano con­tro le poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione del governo. Erano arri­vati a Iguala per rac­co­gliere fondi per cele­brare un altro mas­sa­cro, com­piuto dall’esercito il 2 otto­bre del 1968: la strage di Tla­te­lolco, una delle tante di cui è costel­lata la sto­ria del Mes­sico. Allora, i reparti spe­ciali dell’esercito e della poli­zia ucci­sero oltre 300 gio­vani, a pochi giorni dalle Olim­piadi di Città del Mes­sico. L’anno scorso, gli stu­denti ave­vano «preso in pre­stito» alcuni auto­bus, com’è loro con­sue­tu­dine durante le mobi­li­ta­zioni. Dopo un primo scon­tro con un gruppo di uomini armati accom­pa­gnati da agenti della poli­zia locale, gli stu­denti hanno cer­cato di rac­con­tare l’episodio ai gior­na­li­sti, ma i loro auto­bus sono stati presi di mira da altri indi­vi­dui armati di fucili mitra­glia­tori. In quel fran­gente è stato attac­cato anche un pull­man di cal­cia­tori che tor­nava da una par­tita. Chi non è riu­scito a fug­gire — all’inizio si è par­lato di 58 scom­parsi — è stato inghiot­tito nel buco nero del Messico.

Secondo la ver­sione uffi­ciale, la poli­zia ha con­se­gnato gli stu­denti ai nar­co­traf­fi­canti, che li hanno uccisi e bru­ciati in una disca­rica del cir­con­da­rio, a Cocula. Un’indagine basata sulle dichia­ra­zioni dei pen­titi, ma subito con­te­stata dalle con­tro­in­chie­ste gior­na­li­sti­che e dalle peri­zie indi­pen­denti. Di recente, il Gruppo Inter­di­sci­pli­nare di Esperti Indi­pen­denti (Giei), isti­tuito dalla Com­mis­sione Inte­ra­me­ri­cana per i Diritti Umani — organo dell’Organizzazione degli stati ame­ri­cani (Osa) -, ha pre­sen­tato un rap­porto di 500 pagine che con­futa i risul­tati uffi­ciali. Per lo stato, quella con­se­gnata ai media e alle fami­glie, è la verità «sto­rica». Così l’aveva defi­nita l’ex Pro­cu­ra­tore gene­rale Murillo Karam. La sua rispo­sta alle domande del pub­blico — «adesso mi sono stu­fato» — è diven­tata lo slo­gan capo­volto dei mani­fe­stanti in piazza, che hanno urlato: «Io mi sono stan­cato» delle false verità di stato.

Il Giei ha invece evi­den­ziato l’impossibilità di bru­ciare un così gran numero di corpi in quella disca­rica. Ha chia­mato in causa le com­pli­cità dell’esercito e della poli­zia fede­rale, ed ha anche avan­zato l’ipotesi che gli stu­denti quel giorno pos­sano aver messo le mani su un grosso carico di droga tra­spor­tata su uno dei pull­man. Finora, sono stati iden­ti­fi­cati i resti cal­ci­fi­cati di due stu­denti. Ma gli esperti indi­pen­denti avan­zano dubbi: intanto, i fram­menti di un dito e di un dente non cer­ti­fi­cano la morte; e poi, nes­suno ha visto il sacco nero con­te­nente i resti nella disca­rica di Cocula; e ancora: se gli stu­denti sono stati ince­ne­riti, dove può esi­stere un forno cre­ma­to­rio così grande? Nelle caserme mili­tari — rispon­dono i fami­gliari — dove si tor­tura e si uccide. Una pra­tica pro­vata in tutti quei paesi — come la Colom­bia e il Mes­sico — dove i para­mi­li­tari fanno scom­pa­rire le loro vit­time con la com­pli­cità dell’esercito.

In Mes­sico e in altre parti del mondo, è ini­ziata una set­ti­mana di mobi­li­ta­zioni. I fami­gliari degli scom­parsi hanno ini­ziato uno scio­pero della fame. Anche quelli dei gio­vani cal­cia­tori, il cui pull­man è stato attac­cato un anno fa, chie­dono giu­sti­zia e un incon­tro urgente con il pre­si­dente Nieto. Chie­dono anche che gli esperti Giei pos­sano inda­gare per altri sei mesi. Nieto ha pro­messo una com­mis­sione d’inchiesta indi­pen­dente a cui nes­suno crede: anche per­ché, al Senato, l’arco dei par­titi non ha tro­vato un accordo per for­marla. Cin­que madri degli scom­parsi hanno intanto rag­giunto gli Stati uniti, dove con­tano di incon­trare il papa e di espor­gli le ragioni dello scio­pero della fame. Hanno già par­te­ci­pato a una veglia per i diritti dei migranti e con­tano di recarsi al Con­gresso a Washing­ton per chie­dere a Obama che ritiri il soste­gno a Nieto e alle sue poli­ti­che narco-militari. Il 27, andranno poi a Fila­del­fia, dove si recherà Ber­go­glio per pre­sen­ziare all’Incontro mon­diale delle fami­glie. Spe­rano dica qual­cosa con­tro le spa­ri­zioni forzate.

Anche in Ita­lia sono annun­ciati dibat­titi e ini­zia­tive. E’ già attiva una cam­pa­gna per ricor­dare il gior­na­li­sta Ruben Espi­nosa, ucciso di recente. Si sono espresse asso­cia­zioni come Amne­sty inter­na­tio­nal, che ha dedi­cato ampio spa­zio al Mes­sico degli scom­parsi nel suo ultimo rap­porto. Sabato a Roma (Cen­tro sociale La Strada) si pro­iet­terà un video a par­tire dal libro-inchiesta di Fede­rico Mastro­gio­vanni, edito da Derive Approdi. Ieri, alla Camera, il gior­na­li­sta — che vive in Mes­sico — ha par­te­ci­pato a una con­fe­renza stampa indetta da Sel, che chie­derà al governo Renzi san­zioni con­tro Peña Nieto.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/un-anno-senza-i-43/

UN ALTRO GIORNO DI LOTTA AI CONFINI INTERNI DELLA FORTEZZA EUROPA

 

La repressione delle autorità europee contro i migranti si intensifica ovunque, e nello stesso tempo crescono le lotte per opporsi al regime dei controlli e delle frontiere.
Una breve panoramica sulle ultime 24 ore.

Ungheria

A Bicske, a 40 km da Budapest, la maggior parte migranti che erano stati fatti salire con l’inganno, facendogli credere di essere diretti in Germania, ma destinati ad un centro identificazione, hanno resistito alla deportazione e la protesta continua tuttora. Oltre alla segregazione nei centri, rifiutano anche acqua e cibo: tutto quel che vogliono è poter lasciare il paese.

Ungheria: i migranti in protesta a Bicske

Nel centro identificazione , sempre a Bicske, i migranti stamattina sono fuggiti.

Ungheria: i migranti in fuga dal centro identificazione di Bicske

A Budapest, mille persone migranti bloccate alla stazione di Keleti hanno intrapreso stamattina una marcia per raggiungere l’Austria a piedi.

#Ungheria La marcia dei migranti a Budapest, per lasciare il paese

Nel centro di detenzione di Roszke , al confine con la Serbia, stamattina centinaia di persone recluse sono riuscite a scappare. E’ intervenuta la polizia antisommossa con lacrimogeni e spray urticanti.

#Ungheria la fuga dal centro detenzione e la repressione a Röszke

Grecia

Nel centro di detenzione di Amygdaleza, vicino ad Atene, i migranti reclusi hanno cominciato ieri sera uno sciopero della fame. Le condizioni del centro, rimasto aperto malgrado le promesse governative, sono rimaste disastrose, il cibo è pessimo e manca l’assistenza sanitaria.

Nell’isola di Kos ieri sera i migranti sono stati attaccati e picchiati da un gruppo di fascisti, e ciò è avvenuto davanti alla stazione di polizia, senza che questa muovesse un dito. Ne è seguita una protesta e un blocco stradale dei migranti per lasciare l’isola, questa volta la polizia ha caricato e lanciato gas lacrimogeni sui migranti e i solidali.

Grecia: Cariche della polizia contro i migranti

Nell’isola di Lesbo un migliaio dei diecimila e più migranti presenti hanno protestato e provato a imbarcarsi su una nave diretta ad Atene: anche in questo caso la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni, sgomberando la zona del porto.

Francia

A Calais ieri sera presidio dei migranti, che hanno rifiutato di entrare nel ghetto di Jules Ferry, uno pseudo centro accoglienza creato dalle autorità . Rifiutano l’assistenza umanitaria, il cibo e l’acqua erogati dal centro di distribuzione Salaam e vogliono libertà di movimento.

Francia: la protesta dei migranti a Calais

Italia

Ieri protesta dei migranti dei centri accoglienza davanti al Municipio di Taranto, per chiedere documenti d’identità per tutti e l’elargizione dei pocket money.

Taranto, presidio davanti al municipio

Oggi a Foggia manifestazione dei lavoratori agricoli migranti e dei solidali per rivendicare permessi di soggiorno, residenza, rispetto dei minimi contrattuali, casa acqua e trasporto gratuiti per tutti.

Domani 5 settembre a Roma, presidio in solidarietà ai/alle reclusi nel CIE di Ponte Galeria.

5settembrePonteGaleria

Fonte:
http://hurriya.noblogs.org/post/2015/09/04/un-altro-giorno-di-lotta-ai-confini-interni-della-fortezza-europa/

Dichiarazione del prigioniero Nikos Romanòs

nicosDurante l’intervista al giornale online «Hit & Run», Nikos Romanòs ha definito «teatro dell’assurdo» la vicenda della negazione dei permessi di studio, al contrario di quanto previsto dall’emendamento votato dopo il suo lungo sciopero della fame, uno sciopero della fame che ha profondamente scosso tutta la società.

Nikos Romanòs ha attribuito al governo Syriza pesanti responsabilità, parlando di «strategie da campagna elettorale» e di «sfruttamento politico senza scrupoli delle persone che fanno parte del multiforme movimento di solidarietà».

Ecco come riassume la sua vicenda da gennaio, cioè da quando Syriza è salito al governo:

«Ho superato un terzo degli esami, come stabilito dalla normativa specifica, e ho fatto domanda per il permesso. Da quel momento in poi è iniziato il teatro dell’assurdo. Il consiglio del carcere non ha ritenuto valida la richiesta perché non è stato emanato nessun decreto ministeriale e ha così rimandato la domanda al giudice di corte d’appello Eftikis Nikòpoulos, sulla base della legge precedente. Nikòpoulos ha dato una risposta negativa perché non è stato pubblicato il decreto ministeriale e non può entrare nel merito dei contenuti della richiesta dal momento che, qualora approvata, la normativa abrogherebbe la legge precedente. Sulla base della decisione di Nikòpoulos, il consiglio del carcere ha rigettato la domanda e, di conseguenza, l’obiezione alla richiesta è ufficiale».

Per quanto riguarda Syriza, Nikos Romanòs annota:

«Ha avuto il ruolo di assorbire le tensioni sociali, di costruire capitale politico partecipando dall’interno alle lotte sociali e presentandosi come il loro braccio istituzionale, ma funzionando come forza anti insurrezionale, perché ha spostato il terreno di scontro dalle strade al parlamento. In poche parole, ha impersonato nel modo migliore possibile il ruolo politico del riformismo a livello centrale».

Di seguito l’intervista a Nikos Romanòs:

Raccontaci in poche parole la vicenda dei permessi di studio che ti spettano di diritto, dopo la normativa approvata in seguito al tuo sciopero della fame del novembre/dicembre 2014.

E’ andata così: ho superato un terzo degli esami, come stabilito dalla normativa in questione, e ho fatto domanda per il permesso. Da quel momento in poi è iniziato il teatro dell’assurdo. Il consiglio del carcere non ha ritenuto valida la richiesta perché non è stato emanato nessun decreto ministeriale e ha così rimandato la domanda al giudice di corte d’appello Eftikis Nikòpoulos, sulla base della legge precedente. Nikòpoulos ha dato una risposta negativa perché non è stato pubblicato il decreto ministeriale e non può entrare nel merito dei contenuti della richiesta dal momento che, qualora approvata, la normativa abrogherebbe la legge precedente. Sulla base della decisione di Nikòpoulos, il consiglio del carcere ha rigettato la domanda e, di conseguenza, l’obiezione alla richiesta è ufficiale.

Di fronte a queste misure Syriza, che durante lo sciopero della fame ha fatto campagna elettorale e ha sfruttato politicamente senza farsi scrupoli le persone del multiforme movimento di solidarietà, ha fatto come Ponzio Pilato, proprio come i suoi predecessori. Certamente non c’è da stupirci, dal momento che parliamo di politici, quindi di camaleontici ruffiani approfittatori, politicanti, opportunisti e ipocriti di professione, che hanno semplicemente vestito per un po’ di tempo i panni dei filantropi per perseguire scopi politici precisi. Chiaramente ci sono dei motivi anche più seri, ma di questo ne parlerò eventualmente nella prossima risposta. Rispetto agli sviluppi del mio caso, teoricamente dovrebbe essere approvata dal parlamento la delibera perché la normativa venga applicata, ma non mi pare ci siano molte possibilità che ciò avvenga.

Ritieni che dietro alle “dilazioni” rispetto alla questione del braccialetto ci siano degli scopi politici o un qualche tipo di rivalsa nei tuoi confronti?

Credo che nel caso specifico non esista alcun dispositivo elettronico (braccialetto), dal momento che, indipendentemente da ciò che il ministero della giustizia avvalla, noi che siamo in carcere sappiamo che non esiste neppure un detenuto in Grecia che sia stato scarcerato in questo modo. Ogni giorno molti detenuti vengono a chiedermi informazioni rispetto a questa questione e tutti si chiedono per quale ragione nessuno di quelli che ne hanno fatto richiesta abbia ricevuto risposta dal tribunale. I detenuti comunicano tra loro nelle carceri e scambiano informazioni sulle questioni che li riguardano, e posso dire con la massima certezza che non esiste neppure un detenuto che abbia messo piede fuori dal carcere in questo modo. Chiaramente, dal momento che una notizia del genere potrebbe paventare lo spettro di uno scandalo, vista la pubblicità sul caso, il mostro apparentemente senza volto della burocrazia dà la soluzione a questo problema.

La burocrazia in realtà non è un mostro senza volto, al contrario, è l’alibi dei volti che detengono le posizioni di potere, per scaricare le responsabilità su qualcosa di potenzialmente più grosso di loro: un alleato invisibile che si nasconde dietro comitati di legislatori, consiglieri tecnici, pile di incartamenti, interpretazioni molteplici e false speranze. Quello che sto dicendo, cioè che non esiste alcun dispositivo elettronico e che il ministero della giustizia sta solo prendendo deliberatamente in giro i detenuti per non destare scandalo, è un fatto che non lascia spazio ad alcun dubbio e che non può essere smentito da nessuno, dal momento che non esiste nessun detenuto che sia stato scarcerato o che abbia ottenuto licenze in questo modo.

Anche se non è necessaria ulteriore riprova, porterò un esempio dal carcere di Korydallòs, di cui conosco personalmente la situazione. Alcuni detenuti che studiano in diversi TEI (istituti tecnici universitari, n.d.t.), in base alla nuova normativa, hanno fatto richiesta al consiglio del carcere per i permessi di studio, ora che è periodo di esami. Visto che nessuno degli studenti era sotto processo, il consiglio del carcere non poteva nascondersi dietro la decisione di qualche magistrato, e ha respinto le richieste con bugie davvero ridicole, ad esempio che non erano riusciti in tempo a contattare le segreterie delle facoltà, invitando gli studenti a tornare a settembre. Questo fatto sta a significare che il consiglio del carcere ha ricevuto disposizioni precise dal ministero della giustizia affinché silenziasse la questione e non venissero alla luce le reali motivazioni di questi maneggiamenti.

Come giudichi la posizione del nuovo governo Syriza?

Per cominciare dal principio: Syriza ha assunto la forma del nemico molto prima di diventare governo. Ha avuto il ruolo di assorbire le tensioni sociali, di costruire capitale politico partecipando dall’interno alle lotte sociali e presentandosi come il loro braccio istituzionale, ma funzionando come forza anti insurrezionale, perché ha spostato il terreno di scontro dalle strade al parlamento. In poche parole, ha impersonato nel modo migliore possibile il ruolo politico del riformismo a livello centrale. Lo stesso Tsipras, prima di diventare primo ministro, aveva dichiarato che se non ci fosse stata Syriza ci sarebbero stati molti più scontri e molte più insurrezioni in Grecia durante gli anni delle manifestazioni contro il governo. Questo significa che l’elaborazione di un’agenda politica di sinistra come opposizione era tra le altre cose una scelta politica strategica per mettere in salvo la pace sociale e per ridisegnare ex novo e su nuove basi le istituzioni sociali distrutte.

La democrazia nasconde molti assi nella manica per rimanere al passo coi tempi, e una delle frecce al suo arco è la velocità di ricambio dei ruoli sulla scena politica, nel rimescolare le carte, nell’assimilare le spinte radicali che potrebbero ritorcerglisi contro. Arrivando ad oggi, e dunque all’ascesa al potere di Syriza, ci sono dei cambamenti strutturali nella sua retorica e delle enormi contraddizioni interne. Ovviamente, nonostante tutte le contraddizioni, la realtà dei fatti è Syriza mantiene in funzione le carceri di tipo “Gamma”, che esistono ancora dal momento che fuori dalla prigione di Domokos (località che ospita il carcere di massima sicurezza, n.d.t.) ci sono ancora mezzi speciali della polizia e i bracci di isolamento ospitano ancora compagni. Syriza permette che i migranti vengano marchiati con dei numeri prima di essere sbattuti dentro ai “campi di concentramento”, che gli spazi occupati vengono sgombrati, che i compagni in sciopero della fame vengono torturati e che i familiari dei compagni delle CCF siano tenuti in ostaggio. Syriza inaugura Salamina come primo luogo di confino dell’era democratica e firma accordi commerciali con gli assassini dei palestinesi; Syriza metetrà in atto tutte le politiche neoliberiste contro cui lottava quand’era all’opposizione.

In poche parole, Syriza mantiene tutti gli impegni geopolitici, economici e militari di uno stato che appartiene alla periferia del capitalismo mentre, contemporaneamente, per gettare fumo negli occhi dei suoi elettori di sinistra mantiene attivo un gruppo variegato di personaggi pittoreschi che contribuiscono a mantenere in piedi una retorica di sinistra e che, quando arriva il momento della trasformazione politica, vengono esclusi dai giochi.

Osservando le cose dalla nostra prospettiva, il fatto che siamo anarchici significa che, anche se quello di Syriza fosse stato davvero un governo con una politica radicale di sinistra, ci saremmo trovati lo stesso dall’altra parte della barricata, senza alcuna intenzione di firmare armistizi con gli apprendisti stregoni dell’inganno e dello sfruttamento organizzato. Tra l’altro, in contraddizione con la cancrena neocomunista che sta infettando le cerchie anarchiche, noi abbiamo tagliato già da molto tempo il cordone ombelicale che lega l’anarchia alla sinistra.

Bisogna però essere precisi nelle nostre caratterizzazioni per essere in grado di elaborare la realtà che abbiamo davanti: quello di Syriza è un governo socialdemocratico che utilizza una falsa retorica di sinistra radicale e che usa il suo profilo politico di sinistra per costruire controllo politico e per influenzare i movimenti e le formazioni sovversive che potrebbero andargli contro. E non dimentichiamo che storicamente la rappresentanza politica del capitalismo dal volto socialista ha messo in atto le politiche economiche e repressive più dure, sfruttando il sonno pacifico e complice del “governo dei molti”. La cosa più fastidiosa nelle nostre cerchie è che ci sono diversi imbecilli che fanno gli anarchici che hanno la smania di invitare i membri di Syriza nei loro “centri sociali” e di discorrere insieme a loro di profonde questioni ideologiche, promuovendo un’immagine “ripulita” di Syriza, mentre, nel momento in cui stiamo parlando, è il partito che gestisce lo stato. Un concetto tristemente simile a quello di chi vuole raddrizzare i fascisti di Alba Dorata, come se il problema coi fascisti o con i gestori della macchia statale fosse quello di discutere in cosa siamo in disaccordo, e non di colpirli dovunque li becchiamo. Tutto questo sarebbe una bella conversazione filologica per quelli che credono nella democrazia e nei suoi ideali, dormendo sulle nuvolette rosa e sognando una società post-capitalista. Peccato che gli anarchici siano in guerra con la democrazia e i suoi rappresentanti. Di conseguenza, al punto in cui siamo arrivati, tutti coloro che si impegnano a risciacquare Syriza non hanno alcuna scusa.

Tra l’altro, non è passato molto tempo da quando Stavros Thodorakis ha dato credito ad alcuni di loro in una puntata del suo programma, per le credenziali di legalità che hanno dato allo stato già da molto tempo. Per tutto questo miscuglio di governi di opposizione, cripto-syrizei, falsi ideologi dell’anarchismo e compagnia cantante la soluzione è semplice: un albero robusto e una corda resistente. Noi restiamo al fianco di coloro che restano amici delle insurrezioni anarchiche e continuano a lanciare molotov agli sbirri a Exarchia, che scendono in corteo per vandalizzare le recite dell’egemonia, che armano i loro cervelli con piani sovversivi e le loro mani col fuoco per bruciare i paramenti del nuovo ordine esistente. Con tutti quelli che organizzano la loro azione all’interno delle reti informali dell’azione anarchica. Lì dove le intenzioni sovversive si uniscono orizzontalmente e atipicamente in un fronte caotico che passa per primo all’attacco, colpendo le persone e le strutture che amministrano e difendono il mondo malato che ci circonda.

Qual è secondo te il posto della violenza nel movimento anarchico?

Ci troviamo un’altra volta negli ultimi anni a una svolta critica del processo storico moderno. Il capitalismo greco in bancarotta continua a destabilizzare l’UE e l’economia globale. La realtà è che questa situazione continuerà a prescindere dai dirigenti politici. I confini della Grecia e dell’Italia, primi paesi che ricevono i flussi migratori provenienti da zone di guerra, sono intrisi del sangue dei migranti. Gli antagonismi tra le potenze si acuiscono e gli scontri di interesse geopolitico innescano focolai di disordini in molte parti del mondo. Per gli anarchici l’instabilità e l’acuirsi della violenza sistematica in tutto lo spettro delle relazioni sociali e di sfruttamento è una spinta a organizzarsi efficacemente per diventare un potente fattore di destabilizzazione, per un contrattacco anarchico contro il mondo del potere, gli economisti, i politici, gli sbirri, i fascisti, i giornalisti, gli scienziati, i funzionari statali, i direttori e i membri delle multinazionali, i funzionari giudiziari, i direttori delle prigioni-bordello, i banchieri e i loro collaboratori, i ruffiani e i servitori del potere. Contro tutte queste canaglie, il cuore della macchina capitalista che batte al ritmo della maggioranza della società, la quale per indifferenza e paura, o per connivenza, contribuisce a proteggere il cuore della bestia, l’anarchia risponde con la lingua della violenza, del fuoco, delle esplosioni, della lotta armata. Su questa base fondiamo le nostre strategie, decidendo di insorgere e gettarci nella lotta per la liberazione totale, in un’insurrezione che, oggi come oggi, si giocherà il tutto per tutto, libererà i rapporti umani all’interno delle comunità rivoluzionarie, organizzerà l’offensiva. Diventerà il veicolo per viaggiare sui sentieri della libertà non segnati sulla mappa, dando la possibilità di vivere senza ricevere o dare ordini, senza sottomettersi, senza strisciare, ma in una maniera autentica, che creerà una nuova realtà invertita all’interno delle metropoli capitaliste, un’epoca della paura per i potenti e i loro servi, l’alba della nostra epoca, ora e per sempre, fino alla fine. Di conseguenza la violenza rivoluzionaria nel movimento anarchico è l’Alfa e l’Omega, è la forza trainante per il salto di qualità di un nemico interno che provocherà incubi al potere e ai padroni.

Credi che per un detenuto politico il carcere possa costituire un terreno di scontro?

Prima di tutto dobbiamo abbattere questo mito, cioè l’ideale collettivo secondo cui il detenuto sia un soggetto rivoluzionario in potenza. I migranti, i detenuti, i lavoratori, gli studenti medi e universitari sono sottogruppi sociali che dipendono e a loro volta alimentano il funzionamento del mondo capitalista. Secondo me l’uomo libero compare lì dove vengono distrutte le identità sociali e vengono cancellate tutte le proprietà, al punto che la decisione individuale per la liberazione crea una nuova identità unica e separata. Il ribelle iconoclasta che attacca con tutti i mezzi i nemici della libertà. Per un anarchico che ha deciso di partecipare attivamente all’insurrezione anarchica, il carcere o addirittura la morte sono conseguenze possibili delle sue scelte, fatte nel mondo reale e non nella realtà digitale in cui i parolai e le fantasticherie sono consueti. Il carcere è una stazione temporanea per chi è stato colpito dalla repressione. È il luogo dove ognuno viene messo davvero alla prova, il punto determinante delle grandi decisioni e dei grandi cambiamenti interiori. È una struttura sociale marcia in cui regnano la sottomissione e la ruffianeria, è il regno oscuro del potere, un luogo di degradazione, in cui la libertà non solo viene imprigionata, ma per molti viene umiliata e trascinata tra eroina, disciplina e sporchi corridoi dove gli esseri umani imparano a odiarsi. Esistono migliaia di analisi sul carcere e sui detenuti, io dirò ciò che ha detto anche il guerrigliero di Action Direct Jean Marc Rouillan, cioè che i più adatti a parlare del carcere sono quelli che hanno passato una piccola parte della loro vita lì dentro.

Perché la verità è che più tempo passi qui dentro, più diventa complesso descrivere il funzionamento e la struttura di questa società davvero misera. In sintesi, carcere significa morte lenta, cannibalismo sociale, sopraffazione del più debole, abbandono, distruzione psicosomatica, eroina, psicofarmaci, esseri umani-spazzatura stipati in discariche statali, disciplina, gerarchia, fanatismo religioso, raggruppamenti etnici e divisioni razziste, nazionalismo di ogni tipo, confino, attesa, autodistruzione, vicolo cieco, soppressione delle emozioni, coercizione, immobilità totale, fissità. Non è esagerato dire che la società dei detenuti è il figlio bastardo della società capitalista, un meccanismo ben oliato di morte in cui si nasconde tutta la bruttezza del mondo contemporaneo. Questo non significa che in carcere non ci siano minoranze di persone che hanno la dignità come bussola e con cui puoi costruire rapporti amichevoli o politici. Tornando alla parte principale della domanda, credo che in questa prova non devi mai dimenticare il cammino verso il tuo obiettivo e la dedizione alla causa comune. Mai pentiti, mai a testa bassa, per sempre pericolosi per la cultura della schiavitù e della sottomissione. Per questo anche la lotta anarchica in carcere può trovare sbocchi e aprire strade per diventare pericolosa per il nemico. Con testi e analisi, con piccoli e grandi rifiuti quotidiani, con gli scioperi della fame, con la lima tra le mani, il filo dell’insurrezione anarchica continua a essere tessuto se nei nostri cuori continua a bruciare la fiamma della sovversione. In questo senso, il carcere è un terreno di scontro per promuovere la lotta sovversiva e l’anarchia.

Fonte: hitandrun.gr

Traduzione di AteneCalling.org

Video intervista a Samantha Comizzoli, sequestrata ed espulsa dalla Palestina dall’esercito israeliano, rientrata il 18 giugno a Fiumicino dopo una settimana di detenzione

Rapita dai soldati israeliani e rinchiusa per ore in una cella di due metri per uno, Samantha Comizzoli non ha risposto alle domande ed ha dichiarato: “Mi ritengo un prigioniero politico, questo è un rapimento, entro in sciopero della fame e rimango in questa prigione fino a quando non rilasciate i trecento bambini palestinesi che voi detenete nelle prigioni israeliane”. La trascrizione completa della videointervista rilasciata a poche ore dal suo rientro in Italia, dopo una settimana di detenzione nelle carceri israeliane e sotto pesanti torture psicologiche.

Il video completo dell’intervista

 

<<Venerdì 12 giugno 2015 stavo uscendo con un taxi dalla città di Nablus, a pochi km dalla città di Nablus, una strada principale, il taxi era in corsa , è uscita un jeep dei soldati israeliani che era nascosta in mezzo agli ulivi, ha affiancato dapprima il taxi, poi si è posizionata davanti al taxi, tutto questo in corsa, il taxi ha iniziato a rallentare, la jeep ha iniziato a rallentare, e mentre erano in corsa i soldati israeliani sono scesi dalle porte del retro della jeep e hanno assaltato il taxi puntando le armi.
Mi hanno aperto la portiera urlando e hanno iniziato a farmi domande, domande generiche, non mi hanno mai chiesto come mi chiamavo e… continuavano a insistere che stavo andando ad una manifestazione, le domande sono diventate sempre più pressanti nei miei confronti e nel frattempo facevano domande al taxista e ad un ragazzo seduto nel posto davanti, nel taxi.

Il tempo passava, dopo un po’ mi hanno preso la borsa e preciso che nella prima frangia di domande non ho dato i documenti, non ho voluto dare i documenti, l’unica cosa che continuavo a dire è “voglio chiamare il consolato italiano”, e mi è stato negato, ovviamente. Gli ho ricordato che non potevano trattenermi più di due ore, perché conosco i miei diritti, e mi hanno risposto: “facciamo quello che vogliamo perché siamo soldati”. Dopo di che, appunto, mi hanno preso la borsa, mi hanno tirato fuori quello che c’era nella borsa, quindi un giubbino giallo fosforescente con la scritta “PRESS”, la kefiah, il portafoglio, hanno guardato dentro il portafoglio e poi hanno trovato il passaporto e quindi hanno detto “qui c’è il tuo passaporto e non ce l’hai dato prima, e poi hanno tirato fuori, io purtroppo come molte donne non pulisco mai la borsa (e quindi c’era molta spazzatura), oltre a fazzoletti di carta e cose varie c’erano molte carte, e c’era anche una cosa che io ho fatto con Photoshop mettendomi l’hijab musulmano e mettendo le generalità così, false, ma fatta da me in Photoshop e nemmeno in grandezza naturale e hanno detto “Questo è un documento falso?” , ho risposto “beh, no, lo vedete benissimo che questa è una cosa che non posso presentare”, mi hanno detto “Si, certo, ma perché l’hai fatto?” e ho detto “Ma perché è uno scherzo”, l’ho fatto io, così, l’ho fatto io con Photoshop, è una cosa che non posso assolutamente usare”. Sono passate quattro ore, durante queste quattro ore sono arrivati gli shabak israeliani, eh… quindi i servizi segreti, e poi la polizia israeliana. Sia gli shabak che la polizia israeliana sorridevano, quindi erano molto contenti di avermi trovata lì. Anche loro non mi hanno mai chiesto come mi chiamavo, chi ero, cosa facevo, eh… anche se all’inizio i soldati mi hanno chiesto “cosa fai a Nablus” e gli ho risposto “Niente.”.

Dopo un po’ mi hanno detto: “OK, non sei in stato di arresto ma devi venire con noi perché ti dobbiamo interrogare”. Eh… non ho opposto resistenza, perché per me ormai era andata, quello era un chiaro rapimento, e comunque questo momento non poteva che esserci prima o poi, non me l’aspettavo con queste modalità ma sapevo che sarebbe arrivato, e nel taxi c’era una maschera antigas che il ragazzo palestinese ha detto “E’ mia”, ma nonostante questo loro hanno messo la maschera antigas dentro la mia borsa. Ironicamente hanno trovato una bandiera di Fatah e… essere presa con una bandiera di Fatah non mi entusiasmava sinceramente, ma sembrava che sapessero che non fosse mia perché non l’hanno messa né nella mia borsa, e nè l’hanno requisita addebitandola ad altre persone. Se la sono semplicemente messa in tasca, ed è sparita.

Eh… dopo di che hanno mandato via il taxi con il ragazzo palestinese e io sono rimasta seduta sulla strada, erano passate quattro ore e mezza sotto il sole, senz’acqua, con un soldato che mi puntava un fucile e la jeep della polizia israeliana. Dopo un po’ ho detto al soldato di spostare la canna del fucile e smetterla di puntarmi il fucile addosso, e lui l’ha spostata. E poi mi hanno fatto salire sulla jeep israeliana e mi hanno detto: “Ti ricordiamo che non sei in stato di arresto, al momento sei sotto investigazione, devi venire con noi”. Da lì mi hanno portato all’insediamento illegale di Ariel, dove mi hanno fatto aspettare per l’interrogatorio e gli shabak mi hanno interrogata. Ho risposto alle prime due domande, la prima è stata “a noi risulta che tu sei nel nostro paese, in Israele, in modo illegale da un anno e quattro mesi, ce lo puoi confermare?”, ho detto “Non posso confermarvi nulla e comunque i computer ce li avete voi, siete voi gli investigatori, fate il vostro lavoro”. Poi mi hanno chiesto appunto che cosa fosse quella… loro avevano una fotocopia di questa cosa fatta con Photoshop, e mi hanno detto “Che cos’è questa cosa?”, ho detto “E’ una cosa che ho fatto io con photoshop, vedete non è nemmeno nella grandezza naturale di un documento palestinese e mi hanno detto “Perché i soldati hanno dichiarato che tu non hai dato i documenti e dopo nello stesso verbale hanno dichiarato che tu l’hai dato come documento?”, ho detto “sinceramente io non l’ho dato come documento, non ho dato niente ai soldati perché io non dò nulla ai soldati, soprattutto se mi puntano addosso un’arma, quindi parlate con chi ha fatto il verbale.” . E da quel momento in poi ho detto “Mi state interrogando senza avvisare il consolato, senza un avvocato, quindi mi rifiuto di rispondere a tutte le domande che seguono, mi hanno preso le impronte digitali, il DNA [ prelievo salivare, ndr], fatto le fotografie, e mi hanno fatto aspettare ancora. Verso le dieci di sera mi hanno trasferita nella prigione di Ben Gurion, quando sono arrivata mi hanno fatto aspettare, mentre aspettavo ho chiesto ancora una volta di chiamare il Consolato italiano ma non mi hanno risposto, ho chiesto dell’acqua e non mi è stata data l’acqua nonostante fossero le 22:00, quindi ricordo che mi hanno presa alle 11:00 del mattino, quando sono arrivata all’interrogatorio ho riformulato nuovamente le stesse risposte “Non rispondo alle vostre domande perché non mi fate chiamare il consolato e non è in mia presenza e non c’è un avvocato quindi non rispondo a nessuna domanda” e  mi hanno chiesto: “A noi risulta che sei qua senza visto, questa è l’accusa che ti hanno fatto”, quindi era già sparito il discorso del documento fatto con photoshop, e mi hanno detto “Perché se eri qua senza visto non hai rinnovato il visto e sei stata qua in modo illegale?”, io ho risposto “Beh, perché per quanto mi riguarda se dovessi rinnovare un visto non lo vengo a chiedere a voi in un insediamento illegale, in un posto illegale, perché voi siete illegali, questa è la Palestina, non è Israele, quindi non vengo da voi a chiedere nulla”.

Dopo di che ho smesso di rispondere a tutte le domande e ho fatto questa dichiarazione: “Mi ritengo un prigioniero politico, questo è un rapimento, entro in sciopero della fame e rimango in questa prigione fino a quando non rilasciate i trecento bambini palestinesi che voi detenete nelle prigioni israeliane”.

MaherAbu

Da quel momento mi hanno messo in cella d’isolamento, in sciopero della fame. Sono ritornati di notte, io stavo dormendo, e mi hanno detto: “Ti sei dimenticata di firmare questi fogli”, erano tutti in ebraico, e ho detto, nonostante stessi dormendo, “questi fogli sono in ebraico e io non firmo nulla perché non ho dichiarato nulla”. Ho cercato di continuare a dormire e mi hanno acceso la luce.

Sono stata nella prigione di Ben Gurion due giorni e mezzo in sciopero della fame e in isolamento, mi facevano uscire 5 minuti la mattina e 5 minuti al pomeriggio per fumare una sigaretta. Mi hanno tolto l’unico libro che avevo, nonostante fosse un libro di José Saramago, “Il vangelo secondo Gesù Cristo”. Gli altri prigionieri non erano trattati come me, i prigionieri presenti erano tutti con problemi di immigrazione, potevano stare fuori, potevano fumare, nei miei confronti è partita una serie di punizioni psicologiche. La luce accesa di notte, hanno messo l’aria condizionata facendo raggiungere una temperatura glaciale alla cella, io stavo con due coperte ma ero comunque congelata. Ero in sciopero della fame e lì per resistere ho cercato di pensare non a quello che mi mancava ma a quello che avevo: quello che avevo era il mio corpo e quello spazio, e quindi a quello che potevo fare per resistere. Continuavo a camminare dalla porta alla fine del muro, avanti e indietro. A volte cantavo, ho fatto molti addominali, molte flessioni. Era un posto dove le persone continuavano a picchiare sulle porte di ferro giorno e notte chiedendo acqua, chiedendo di poter uscire, chiedendo di poter telefonare. Io non ho mai picchiato una volta perché non volevo chiedergli nulla. Non volevo chiedere nulla a loro, quello che mi davano mi davano, ma io non chiedevo nulla. Dopo due giorni e mezzo mi hanno trasferita nella prigione di Givon, quando sono arrivata lì avevo una maglietta della Palestina, che raffigurava la Palestina, e ho capito che hanno detto “portala, portala dentro, nella prigione”. Mi hanno fatto camminare in un’ala della prigione dove c’erano quattro o cinque prigionieri fuori che lavoravano e ho capito di essere in una prigione per israeliani, per coloni. I prigionieri mi hanno guardato, quando sono arrivata, con tutto l’odio che avevano e c’è stato un altro interrogatorio, sempre con le stesse domande alle quali io mi sono rifiutata per l’ennesima volta di rispondere e di firmare e ho detto: “Continuo lo sciopero della fame e rimango qua per i trecento bambini palestinesi che voi state detenendo e non esco fino a quando loro non raggiungono prima la libertà. Non posso dargli la mia schiena e uscire da qua pensando che loro rimangono dentro”.

Mi hanno detto: “Va bene, ti portiamo in cella, ti mettiamo in isolamento”. Mi hanno messo in una… non si può definire cella, era una gabbia di due metri per uno dove il soffitto potevo toccarlo con la mano, era un container con un water, e nessuna apertura, solamente una piccola feritoia sulla porta di dieci centimetri, e quindi non c’era luce. Sono rimasta lì un po’ di ore, durante queste ore dall’altra parte della parete del container ho capito che stavano torturando una persona, un uomo, molto probabilmente era su una sedia di quelle tipo da studio, con le rotelle, lo buttavano ripetute volte contro il muro, molto probabilmente con o delle secchiellate d’acqua o con un getto d’acqua e lo sentivo rantolare, era come se fosse nella mia cella perché erano pareti di un container, non erano pareti di muro o di legno, e lo sentivo rantolare… e poi l’acqua ha iniziato ad entrare anche dalla feritoia della mia cella.

Sono venuti a richiamarmi e mi hanno detto: “Questa sarà la tua cella, dovrai continuare a stare qui, se non smetti di rimanere in sciopero della fame, perché sei un problema di sicurezza per noi.” Ho detto: “Che problema di sicurezza sono? Io ho solo il mio corpo, qual è il problema della sicurezza?”, “Se smetti di essere in sciopero della fame” [hanno risposto, ndr] “ti mettiamo con le altre”. Ho capito che non potevo più continuare, che non avrei resistito per giorni, per me la priorità non era la protesta per il mio arresto, ma resistere in prigione per i bambini. E quindi ho terminato lo sciopero della fame in quel momento perché il mio obiettivo era resistere il più possibile in prigione per smuovere sul rilascio dei bambini. Quindi in quel momento mi hanno dato da mangiare, hanno fatto l’ispezione al mio bagaglio, mi hanno tolto ancora il libro, mi hanno tolto tutte le magliette che riguardavano la Palestina, mi hanno tolto anche una maglietta che era per la libertà degli animali nello zoo [ Samantha ha condotto una lunga battaglia per la chiusura dello zoo di Ravenna ndr] ma nell’incertezza, siccome era scritto in italiano e non capivano bene che cosa fosse mi hanno tolto anche quella, e mi hanno tolto un maglione, forse perché se volevano ancora usare il discorso dell’aria condizionata avere un maglione sarebbe stato un problema, e poi mi hanno tolto il tabacco con la macchinetta per fare le sigarette, mi hanno detto “No, non puoi averla”, e ho detto “Perché? Perché non posso avere il tabacco con la macchinetta per fare le sigarette?” [le hanno risposto, ndr] “Perché puoi metterci dentro della droga”, e ho detto : “dove ce l’ho la droga?” e [le hanno risposto, ndr] “No, la puoi trovare in prigione, però puoi comprare le sigarette qua”, ho detto: “Va bene”.

Poi mi hanno fatto un’ispezione corporale, completamente nuda, facendomi abbassare, aprendomi le chiappe e infilando una mano dentro, mi hanno fatto girare, alzare il seno, dopo che hanno fatto questo mi hanno guardato e mi hanno detto: “Hai una pistola?”…..

OK, poi mi hanno dato una maglietta bianca, perché io, appunto, avevo indosso questa maglietta della Palestina, i vestiti che avevo addosso e mi hanno portato nella cella con le altre donne. Era nel braccio dell’immigrazione e mi hanno messo in una cella dove c’erano due donne, che ho capito subito …due donne della Costa d’Avorio, dove tutta la prigione delle donne non parlava con queste due donne perché avevano un carattere terribile… però siccome anch’io ho un carattere terribile, io sono stata… difendendo quello che avevo di mio, cioé il mio corpo, la mia mente, il mio cuore, e loro difendevano quello che avevano perché erano lì da due anni e sei mesi, e difendevano quella cella che per loro era tutto quello che avevano, come se fosse la loro casa, non uscivano neanche quando aprivano le porte. Dopo di che abbiano iniziato a fare amicizia, quindi ho un ricordo di loro bellissimo, di queste due donne, di grande rispetto, perché facevano resistenza all’interno della prigione per poter diventare rifugiati politici, quindi dovevano passare cinque anni in prigione, con i figli fuori, ho detto loro che non condividevo il posto che avevano scelto per diventare rifugiati politici ma potevano camminare sopra la mia testa e tutto il mio rispetto per la resistenza che avevano a stare lì dentro. Ovviamente con tutti i problemi loro mentali che portava come conseguenza vivere… avere questo tipo di vita. Dunque, la prigione di Givon ovviamente toglie la libertà alle persone, è un cimitero per i vivi come tutte le prigioni. Porte che venivano sbattute ripetutamente, ispezioni di giorno e di notte, non puoi mai alzare la voce verso la polizia, cosa che invece io ho fatto subito per una donna che si era sentita male e ho chiesto l’intervento del dottore [una donna ha perso i sensi, Samantha ha chiesto a gran voce che venisse chiamato un medico, ma sono passati circa 20 minuti prima che le guardie, che osservavano la scena, reagissero chiamando un sanitario, ndr] .

Sono riuscita a contattare il consolato di Tel Aviv, il console Nicola Orlando è stato molto umano, è venuto a trovarmi diverse volte in prigione, ci siamo sentiti molte volte al telefono. Il mio telefono miracolosamente ha iniziato a funzionare dopo un giorno nella prigione di Givon in modalità roaming nonostante Jawal non potesse funzionare lì [operatore di telefonia mobile palestinese attivo a Gaza e in WestBank ma che utilizza l’infrastruttura di rete israeliana al di fuori di quei territori, per tanto il roaming è normalmente interdetto ai numeri Jawal o con costi in accessibili e, in ogni caso, passa direttamente sotto il controllo delle compagnie telefoniche israeliane ndr]. Arrivavano a me e ad altri contatti che avevo sul telefono telefonate strane, ovviamente, quindi mi stavano facendo telefonare i servizi segreti, gli shabak, forse… non lo so, pensavano di scoprire chissà che cosa, io non ho niente da nascondere, quindi… Ero assolutamente tranquilla e facevo le mie telefonate e ricevevo le mie telefonate.
OK, dopo questa parentesi nella prigione di Givon, da quando è intervenuto il consolato devo dire che hanno iniziato ad avere un metodo un po’ più soft nei miei confronti, non più come quello di prima, sebbene continuassero nei miei confronti ad avere questa procedura di “prigioniero politico” e non di problemi con l’immigrazione. Una mattina mi son venuti a chiamare, non mi hanno detto nulla, mi hanno portato in uno stanzino molto piccolo. C’era una persona a un tavolo e poi c’era un traduttore in italiano e un soldato, hanno iniziato a farmi delle domande, ho capito che quello aveva la veste più o meno di un giudice, anche se quello non era un tribunale, non c’era un avvocato, era dentro uno stanzino di un container. Mi hanno chiesto “sei pronta a firmare i fogli che ti abbiamo dato e a lasciare il nostro paese?”, gli ho detto “No”, “Va bene puoi andare”, ho detto “Posso andare cosa, cosa vuol dire, che cos’è questo?”Ci rivediamo tra un mese, se trovi un avvocato che ti rappresenta possiamo dialogare, al momento ci rivediamo fra un mese”.
Ho riferito tutto quello che è stato al consolato, fino a quando appunto non è arrivato il messaggio l’altro ieri del console e in simultanea me lo stavano comunicando a voce, che avevano disposto la mia deportazione da Israele, così come lo chiamano loro, il giorno dopo con volo El Al, volo israeliano. Ho detto che avrei fatto resistenza passiva per non farmi portare via ma sempre con l’obiettivo dei trecento bambini.

Hanno disposto il mio trasferimento appunto al mattino presto, avevo detto che avrei fatto resistenza passiva, quindi che mi prendessero con la forza, ricordando loro che gli uomini non mi potevano toccare perché era molestia sessuale, che dovevano esserci le donne. Mi hanno fatto stare ancora una volta in quello stanzino da due metri per uno dove mi avevano messo la prima volta nella prigione di Givon insieme alle altre donne senza chiudere la porta, dopo di che mi hanno ridato tutto il materiale, quasi tutto, il materiale che mi avevano confiscato all’ingresso. Quando è arrivato il momento del trasferimento io ho detto: “Non posso, non posso uscire con le mie gambe, mi sono seduta per terra e hanno fatto salire tutti nell’autobus, compresa la mia telecamera, e mi hanno detto “va bene, noi abbiamo deciso di non usare la forza con te”, sono entrati tutti e mi hanno detto: “Tu resterai qua, in cella d’isolamento, fino al prossimo volo” e in quel momento, primo sapevo che non avrei saputo resistere nella cella d’isolamento ancora, e la mia telecamera era andata; ma, secondo, ho pensato che diventava una scelta irresponsabile per delle persone che mi stavano aspettando in Italia, che si erano trasferite a Roma per venirmi a prendere. E comunque era andata, oramai, ho visto che il consolato non aveva preso posizione sui bambini, che non era partita nessuna trattativa, che se n’erano fottuti dei diritti umani e che, comunque anche il console di Tel Aviv mi aveva confermato, “non sei stata per noi del consolato e della Farnesina presa in considerazione come prigioniero politico ma solamente con problemi d’immigrazione”, quindi per quanto riguarda essere un ago della bilancia per la liberazione dei bambini e per una battaglia dei diritti umani il consolato italiano, ma soprattutto la Farnesina, e questo lo dico io, se n’è sbattuta il cazzo, quindi lascia in prigione trecento bambini, nonostante avesse avuto la possibilità magari di trattare e usare me come ago della bilancia. Quindi in quel momento sono salita sull’autobus e mi hanno poi trasferita con una… jeep israeliana blindata fino all’aereo, io non ho mai visto l’aeroporto Ben Gurion. Quando sono salita sull’aereo è partita una protesta da parte delle persone nell’aereo perché erano tutti israeliani e mi hanno visto arrivare con la kefiah e accompagnata dalla polizia. Sono arrivata a Roma, sono stata accolta in un primo tempo dalla polizia italiana che ha dovuto formulare un report su quello che era successo e poi sono stata accolta dai miei amici e questo è stato un momento di felicità… per me. Nella jeep israeliana che mi ha portata all’aereo sono stata chiusa nella parte del retro, in un posto completamente chiuso e mi hanno messo l’aria calda, bollente, quindi non potevo respirare e quindi ho dovuto bussare dopo un po’ sul vetro e chiedere di poter respirare…e mi hanno detto “scusa, ci siamo dimenticati” e mi hanno dato l’aria.

Dunque, le considerazioni: so che in Italia sono usciti subito sulla stampa, sui media [ es. LA STAMPA, ANSA ndr ] , una dichiarazione ufficiale di questo documento falso che io avrei fornito ai soldati. Ho verificato questa cosa tramite il Consolato e la Farnesina per capire chi aveva rilasciato questa dichiarazione, questo è quello che è successo: mentre mi stavano trasferendo da Ariel alla prima prigione io ero nella jeep con due poliziotti, il poliziotto ha ricevuto una telefonata e ha parlato in inglese, e quindi ho capito che cos’ha detto, ha detto “la signora al momento non è in arresto, è in detenzione amministrativa, perché è priva di visto, quindi è in posizione illegale in Israele, e ha un documento falso palestinese ma è sotto indagine.” Poi, quando ha chiuso la telefonata il poliziotto mi ha detto: “Era il consolato di Gerusalemme, hanno chiesto, appunto, perché eri stata presa”. In quel momento mi sono meravigliata, anche la sera stessa, fino a quando poi non ho parlato con Tel Aviv, perché ho detto: “Caspita, il consolato finalmente ha la possibilità di mettersi in contatto e di sapere come sto e di poter parlare con me, non l’ha fatto, il Consolato di Gerusalemme, ma ha solamente verificato quali erano in quel momento le accuse, accuse che poi sono cadute, e l’ha comunicato alla stampa. Questo comportamento poi non c’è stato dal Consolato di Tel Aviv e dalla Farnesina, quindi io ho ritenuto veramente grave il comportamento del Consolato di Gerusalemme che parrebbe aver avuto un atto di diffamazione di una cittadina italiana che stava vivendo un atto di violenza, che io definisco rapimento perché non c’è nulla di legale, non c’è nessun foglio che mi accusa di qualcosa, non c’è nessun foglio che dice che io sono stata arrestata, che sono stata detenuta, nulla, non c’è nulla, quindi io sono stata a tutti gli effetti rapita da Israele… Quindi in quel momento il Consolato di Gerusalemme ha diffamato una cittadina italiana che era in queste condizioni, non ha cercato di mettersi in contatto e parlare con me per chiedere come stavo, che cosa mi stava accadendo, se mi avevano fatto qualcosa, cioè per chiedere qual erano le mie condizioni di cittadina italiana. [ il Consolato di Gerusalemme è lo stesso che di recente ha negato i visti ai due palestinesi, tra i protagonisti dell’ultimo docufilm “israele, il cancro”, per il tour italiano del film, nel mese di maggio]

Questa è una cosa molto grave, credo che la Farnesina dovrebbe prendere provvedimenti, non per me ma per i futuri cittadini italiani che, io non gli auguro possa capitare questo ma ai quali potrebbe capitare, perché il Consolato deve lavorare, appunto, per la Farnesina e per il governo italiano, non per il governo di Israele o per i media. Altresì dico che i pennivendoli che si affidano veramente alla prima scoreggia di un piccione per pubblicare notizie in questo modo, ecco a loro ricordo che in Palestina i giornalisti per documentare la verità sul posto si fanno sparare, si fanno sparare negli occhi, in faccia, al petto, nelle braccia, perdono le gambe, per documentare sul posto quello che è la verità. Ecco, voi siete la vergogna dei diritti umani,così come è Israele, cioè chi vi paga.

GiornalistiPalestina

Io in questo momento sono ovviamente provata, non ho mai parlato, non ho mai bussato su quelle porte per chiedere qualcosa loro, ho resistito perché avevo una missione in testa, che non era per me, era per i diritti umani e per i bambini e… continuerò a supportare la resistenza palestinese e a lavorare per i diritti umani. Adesso ho solo bisogno di un po’ di tempo per cercare di svuotare la mia mente dalla merda che Israele ha infilato dentro e fare entrare nuove idee. Grazie a tutti quelli che mi hanno supportato, so che siete stati in tanti, ma non avete supportato me, avete supportato i diritti umani quindi, visto che è responsabilità di tutti io vi ringrazio.

Ho chiesto di fornirmi documentazione di quello che è accaduto, di avere uno stralcio di qualcosa, del mio stato, a voce mi  hanno detto che sono stata deportata per 10 anni dalla Palestina, che non potrò più rientrare, ma che è tutto nei loro computer e che quindi non rilasciano nulla, nulla di cartaceo, di nero su bianco. Ovviamente quello che mi fa soffrire è il pensiero di non tornare più in Palestina e di non poter riabbracciare più i miei amici, e che loro sono là e che non posso più aiutarli sul posto, non posso più fare da scudo umano per tanti mini-shebab, tanti shebab , questa è la cosa che mi fa più male..

Non sono mai stata sola, ho sempre avuto i diritti umani con me, ma soprattutto ho sempre avuto, con me, anche quando non riuscivo a mettermi in contatto perché ero in isolamento, ho sempre avuto con me Simone, Simonetta e Sauro. E dire grazie è troppo poco, mi stanno accogliendo anche ora che non ho più nulla, perché quando sono partita per la Palestina io ho venduto tutto quello che avevo perché ho perso la residenza, e quindi  i problemi sono parecchi in questo momento ma, insomma, sono con loro… sono la mia famiglia in questo momento e lo saranno sempre.

Samantha Comizzoli>>

Per supportare e diffondere il preciso e puntuale lavoro d’informazione di Samantha Comizzoli:

Il BLOG di SAMANTHA COMIZZOLI

Il primo documentario sulla resistenza palestinese (2014), SHOOT (qui il video in streaming)

Il blog del documentario presentato in un tour italiano lo scorso mese, “israele, il cancro”

TGMaddalena, nel condividere e sostenere la battaglia di Samantha per la liberazione di tutti i bambini palestinesi, detenuti e torturati nelle carceri israeliane, ha aperto una campagna per supportare le prossime iniziative e consentire a Samantha di proseguire nel suo impegno per i diritti umani, per la Palestina e per la Libertà.

 

Trascrizione completa della videointervista, a cura di Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/intervista-samantha-comizzoli-sequestrata-ed-espulsa-da-israele/

 

SAMANTHA COMIZZOLI RIFIUTA DECRETO DI ESPULSIONE E DIFESA LEGALE: ” SE C’E’ UN AVVOCATO PRONTO A BATTERSI CON ME PER LA LIBERAZIONE DEI BAMBINI DETENUTI NELLE CARCERI ISRAELIANE ALLORA LO ACCETTO”

15/06/2015 ore 19:30
FreeSam6Arrestata il 12 giugno mentre da Nablus si stava recando ad una manifestazione a Kufr Qaddum in quello che sembra essere stato più un blitz mirato che non un fermo casuale, è stata detenuta prima nella prigione dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, in ISOLAMENTO (per non meglio precisati “motivi di sicurezza”), e poi trasferita nel carcere di GIVON, dove è stata costretta sotto pesanti torture psicologiche ad interrompere il digiuno intrapreso dal momento dell’arresto, come unica forma possibile per proseguire la sua battaglia per la liberazione di tutti i bambini detenuti nelle carceri israeliane.
Samantha è stata arrestata in detenzione amministrativa perché il visto con il quale era entrata nel febbraio 2014 era scaduto da oltre un anno. Ha rifiutato l’assegnazione di un legale perché consapevole che non esiste alcuna possibilità di difesa in casi come questo: il visto è scaduto ed è quindi stata attivata la procedura di espulsione dopo una rapida udienza che si è svolta oggi nel carcere di Givon, alla presenza di un giudice, agenti di polizia, e nessun difensore. In realtà Samantha avrebbe anche accettato di buon grado un avvocato, se ne avesse trovato uno disposto ad affiancarla nella sua lotta per la liberazione dei bambini detenuti da Israele. Dal 1967 ad oggi secondo l’ong Military Court Watch sono 95.000 i bambini arrestati dal governo israeliano in Cisgiordania. Nel rapporto presentato a Ramallah sono documentate le testimonianze degli abusi perpetrati sui bambini, che Sam aveva già documentato nel suo primo film, Shoot, e nel documentario presentato di recente in un tour italiano “israele, il cancro”. Questo pomeriggio ha ricevuto la visita del console italiano, rientrato oggi da una vacanza. Proprio il console le ha spiegato che nella sua situazione potrebbero tenerla in carcere anche per un mese, ma pare che israele sia intenzionato ad attivare la sua espulsione entro le prossime 24, 48 ore e, poiché Samantha si è rifiutata di firmare l’accettazione di questa misura, è probabile che utilizzino la forza per assicurarsi il suo rientro in Italia (detenzione e viaggio di rientro saranno a carico del governo israeliano, precisazione utile per prevenire tormentoni del tipo “cos’è andata a fare in Palestina, era meglio se stava a casa sua” con tanto di “e ora le paghiamo pure il volo”).

Ieri il suo avvocato in Italia, Luca Bauccio, ha emesso un comunicato a seguito di alcuni articoli usciti su media nazionali che riferivano informazioni non veritiere, articoli che rischiavano di alimentare una diffamazione della quale Samantha è più volte stata vittima. “La vita e la storia di Samantha sono alla luce del sole: lei vive e opera per la libertà dei palestinesi e perché la giustizia e il diritto vengano ripristinati in quei territori.Questo è già noto.”, ha scritto ieri il legale, ed ha aggiunto “Nessuna mistificazione verrà accettata e subita come il prezzo da pagare per avere avuto la passione e il coraggio di dedicare la propria vita per la causa di vittime innocenti del più intollerabile e prolungato esproprio della storia. Samantha vive e opera per questo da sempre nel segno della sua convinzione democratica e del suo rifiuto di qualunque forma di persecuzione di razzismo, di antisemitismo e di odio religioso.”
A proposito di odio religioso, sarà questo che ha spinto i carcerieri a sequestrare a Samantha il libro di José Saramago “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”?

Sabato 13 giugno sotto la RAI di Torino si è tenuto un presidio per richiedere la liberazione di Samantha ed in solidarietà con i prigionieri palestinesi; attualmente sono circa 7000, di essi 450 in detenzione amministrativa, cioè senza capi d’accusa. Per il loro numero e la loro condizione essi sono un elemento cardine della Resistenza palestinese. E proprio in questi giorni tra i prigionieri ci sono forti avvisaglie di un nuovo sciopero della fame di massa. Sarà anche per questo, probabilmente, che oggi il Consiglio dei Ministri israeliano ha approvato un disegno di legge per contrastare la “minaccia” per il paese (da non credere!) costituita dai “detenuti che effettuano lo sciopero della fame”.

Il gruppo di solidali ha chiesto alla redazione del TGR Piemonte di diffondere la notizia dell’arresto e dell’anomala detenzione in isolamento, ma la risposta è stata chiara e senza spazi di discussione: c’erano notizie più importanti, un incidente, il salone dell’auto, etc.  Le informazioni vengono diffuse principalmente tramite social network, Twitter, Facebook, il volo di rientro è previsto ormai nelle prossime 24-48 ore ma si presume che la notizia verrà data solo successivamente all’imbarco di Samantha sul volo di rientro, per le stesse non meglio note “ragioni di sicurezza” che hanno spinto israele a detenere Samantha in isolamento.
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Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/samantha-comizzoli-rifiuta-decreto-di-espulsione-e-difesa-legale-se-ce-un-avvocato-pronto-a-battersi-con-me-per-la-liberazione-dei-bambini-detenuti-nelle-carceri-israeliane-allora-lo-accetto/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAMANTHA COMIZZOLI COMINCIA LO SCIOPERO DELLA FAME IN SOLIDARIETA’ CON I BAMBINI RINCHIUSI NELLE CARCERI ISRAELIANE

Aggiorno sulla situazione di Samantha Comizzoli citando l’unico articolo di oggi che cita (rispetto a altri quotidiani che sono rimasti sul vago) le vere motivazioni per cui l’attivista ha iniziato lo sciopero della fame subito dopo il suo arresto da parte di Israele:

“È stata arrestata a Tel Aviv Samantha Comizzoli, attivista e blogger italiana. Si trovava sul territorio da un anno e attualmente è detenuta in isolamento nel carcere israeliano dell’aeroporto di Tel Aviv. Comizzoli stava manifestando alle porte del villaggio Kufr Qaddom contro la presenza dell’esercito di Israele negli insediamenti palestinesi. Le sarebbe scaduto da tempo il visto e potrebbe essere espulsa nel giro di qualche giorno. Nel frattempo si rifiuterebbe di rispondere alle domande della polizia in quanto ritiene di essere prigioniera politica e avrebbe cominciato lo sciopero della fame. Le sue intenzioni sono di farlo durare fino a che tutti i bambini nelle carceri israeliane non verranno liberati.”

Per continuare a leggere cliccare qui:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/13/israele-attivista-italiana-pro-palestina-arrestata-stava-manifestando/1774644/

Israele, attivista italiana pro Palestina arrestata: “Stava manifestando”

Bobby Sands, 34 anni fa moriva un simbolo

di redazione

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Trentaquattro anni fa, il 5 maggio 1981, Bobby Sands moriva nel carcere di Long Kesh, nell’Irlanda del Nord, dopo uno sciopero della fame portato avanti per 66 giorni per protestare contro il regime carcerario cui venivano sottoposti i detenuti repubblicani. Ancora oggi Sands è un simbolo per chi si batte per la libertà e la giustizia in tutto il mondo.

Una notte di trentaquattro anni fa, il 5 maggio del 1981, un giovane attivista irlandese di 27 anni, Bobby Sands, moriva di fame nel carcere disumano di Long Kesh, al termine di una tragica protesta che lo portò a rifiutare il cibo per 66 giorni consecutivi. Dopo di lui altri 9 detenuti portarono avanti lo sciopero della fame fino alla morte, fatto che diede grande rilevanza mediatica e nuova linfa alla causa repubblicana.

Bobby Sands è uno dei tanti giovani che si sono trovati a vivere un conflitto che ha causato oltre 3000 morti, quello nordirlandese, conosciuto anche con il termine The Troubles. È diventato il simbolo della lotta per la libertà e la giustizia per migliaia di persone in tutto il mondo. Venne arrestato più volte e detenuto nel carcere di Long Kesh. Stava scontando una pena di 14 anni per possesso di arma da fuoco quando, insieme ai suoi compagni, iniziò a dare vita a una serie di proteste contro l’abolizione dello status di prigionieri politici. E dopo anni di carcere vissuti in condizioni disumane Sands e compagni diedero vita ai primi scioperi della fame. Quelle morti “aprirono la strada a una nuova pagina della storia dell’Irlanda del Nord – spiega ai nostri microfoni Silvia Calamati, giornalista e scrittrice esperta della questione nord-irlandese – Se non ci fossero state queste morti lo Sinn Féin, il braccio politico dell’Ira, non avrebbe potuto iniziare quel cammino che l’ha fatto diventare il maggior partito nazionalista dell’Irlanda del Nord”.

Silvia Calamati, che dal 1982 ha vissuto in prima persona le tragiche vicende del conflitto in Irlanda del Nord, spiega come “l’anniversario sia una giornata importante, però Bobby Sands e i suoi compagni sono vivi nella memoria della comunità nazionalista ogni giorno. I volti di questi giovani sono presenti tutto l’anno nelle strade dell’Irlanda del Nord”. Al giorno d’oggi “il nemico più grosso è rappresentato dalla difficoltà di mettere in pratica il processo di pace così come firmato nell’accordo del 1998. C’è un atteggiamento di completo rifiuto a tutto quello che può far cambiare le cose, in termini di uguaglianza e diritti umani. La crisi economica si sente qui, come dappertutto, e questo crea un vuoto tra le giovani generazioni, privi di punti di riferimento. Non a caso dalla firma dell’accordo di pace è aumentato il numero di suicidi tra i giovani“.

Ciò che resta, dopo 34 anni, è l’immagine di un ragazzo irlandese diventato un simbolo per chiunque sia impegnato a lottare per la libertà. “Rimane forte l’immagine di Bobby Sands, un volto che è diventato un icona in tutto il mondo, nelle carceri curde, palestinesi, anche in quelle degli Stati Uniti, ovunque si lotti per la libertà e la giustizia Bobby Sands è un punto di riferimento“.

Vittoria per Nikos Romanos

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Dopo 31 giorni di sciopero della fame, il 21enne Nikos Romanòs ha vinto la sua lotta per la vita e la dignità. Con alcune modifiche dell’ultimo momento è stata approvata la riforma di legge in Parlamento che dà la luce verde ai permessi studio per i detenuti con l’uso del “braccialetto elettronico”.

Secondo le dichiarazioni del direttore dell’ospedale Gennimatas, in seguito all’approvazione unanime della riforma sui permessi studio per i detenuti, Nikos Romanos ha interrotto lo sciopero della fame dopo 31 giorni.

L’ondata di solidarietà ha costretto il ministro della Giustizia ad introdurre dei cambiamenti dell’ultimo momento nella riforma di legge. È stato preceduto da un intervento da parte del Presidente della Repubblica Karolos Papoulias, che ha chiesto di trovare una soluzione per Nikos Romanòs in una sua comunicazione con Antonis Samaras.

Sinteticamente, la riforma prevede la concessione dei permessi educativi sotto monitoraggio elettronico, il cosiddetto “braccialetto”, dopo il completamento dei primi due mesi di corsi a distanza, senza la condizione del previo pronunciamento del Consiglio dei Giudici. L’unica possibilità di sospensione è il diniego con motivazione del Consiglio dei Giudici, da trasmettere comunque successivamente. Come ha sostenuto Charalambos Athanassiou [ministro della Giustizia, n.d.t] la riforma di legge è l’insieme delle opinioni espresse da tutti i partiti del parlamento.

Somministrazione della flebo

Com’è stato già reso noto, Nikos Romanòs ha cominciato a mangiare biscotti secchi e i medici gli hanno somministrato la flebo. Intanto gli esami clinici e di laboratorio proseguono per comprendere le possibili conseguenze dello sciopero della fame sull’organismo di Nikos Romanòs e per valutare il periodo di ricovero necessario affinché il ragazzo si riprenda.

Ricordiamo che, in seguito al mancato esito delle trattative che si stavano svolgendo da martedì in parlamento sul contenuto della riforma di legge sugli studi a distanza dei detenuti, Nikos Romanòs aveva iniziato dalla mattina di mercoledì anche lo sciopero della sete.

Ondata di solidarietà

La vittoria, con l’accoglimento da parte del parlamento della sua rivendicazione di seguire i corsi della facoltà a cui è stato ammesso, è arrivata nel pomeriggio, mentre si stava ancora svolgendo in piazza Syntagma un presidio di solidarietà con il detenuto in sciopero della fame.

Nei giorni precedenti ci sono state nelle principali città del paese e all’estero mobilitazioni a oltranza, con manifestazioni di massa, occupazioni di palazzi, comunicati di sostegno e altre azioni.

Altri articoli:
Il comunicato di Nikos Romanòs

Fonte: thepressproject

Traduzione di AteneCalling.org

 

 

 

Tratto da

http://atenecalling.org/vittoria-per-nikos-romanos/