Egitto, si suicida l’attivista Sarah Hegazi: arrestata per una bandiera arcobaleno

Rifugiata in Canada dopo il carcere, non è riuscita a superare il trauma delle torture e degli abusi subiti.
ROMA – Non ce l’ha fatta Sarah Hegazi, rifugiata di origine egiziana che tre anni fa ha dovuto lasciare il suo Paese e trasferirsi in Canada dopo essere stata incarcerata per il fatto di essere lesbica. Dietro le sbarre la donna aveva denunciato violenze e torture, poi una volta fuori si erano aggiunte pressioni e stigma sociale. Due giorni fa la 30enne si e’ tolta la vita, e come riferisce il quotidiano ‘Egypt today’, prima di morire ha lasciato un biglietto con su scritto: “Ho cercato di sopravvivere, ma non ce l’ho fatta”.

La donna era un’attivista per i diritti umani e della comunita’ Lgbt. Le difficolta’ per lei avevano avuto inizio nel 2017, quando era stata arrestata con l’accusa di aver esposto una bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo. A incriminare lei e un suo amico, una foto che la ritraeva sorridente mentre sventolava il simbolo della comunita’ Lgbt. La procura del Cairo accuso’ entrambi di far parte di un movimento che intendeva diffondere l’ideologia omosessuale nel Paese.

In Egitto non esiste una legge che criminalizza esplicitamente gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma queste persone possono incorrere in denunce e arresti per aver tenuto “comportamenti immorali”, giudicati come “attacchi” alla cultura tradizionale.

In carcere, Hegazi ha raccontato di aver subito torture, anche dalle altre detenute, con accuse di violenze sessuali.
Nel 2018 l’attivista era stata rilasciata ma qualche tempo dopo aveva chiesto l’asilo politico in Canada, poiche’ temeva nuovi procedimenti penali e soprattutto stava ricevendo pressioni da parte della societa’ egiziana, prevalentemente conservatrice. In Canada, pero’, la donna sarebbe caduta in uno stato depressivo.

Qualche giorno prima di togliersi la vita, Hegazi ha pubblicato una foto su Instagram accompagnata dal commento: “Il cielo e’ meglio della terra, e io voglio il cielo, non la terra”.

“I segni e il ricordo della tortura non ti lasciano in pace neanche in esilio” ha dichiarato all’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. Secondo Noury, questa e’ “un’altra storia che chiama in causa le autorita’ egiziane”.

 

Fonte:

https://www.dire.it/15-06-2020/473930-egitto-si-suicida-lattivista-sarah-hegazi-arrestata-per-una-bandiera-arcobaleno/?fbclid=IwAR3S1bdiulYBctLwJ0PF3_PYXgBvFF-gXxnY3a6_rENBl7sxct5WiGlUK4Q

Usate armi chimiche in Darfur

giovedì, settembre 29, 2016

Come avevamo anticipato sul nostro blog lo scorso 30 aprile, in Darfur sono state usate armi chimiche. A confermare oggi le notizie che ci erano arrivate dai nostri contatti in Sudan e che avevamo tentato di verificare riscontrando grande ostracismo,  è stato anche impedito alla nostra presidente, nonché giornalista, Antonella Napoli di tornare in Sudan è un rapporto di Amnesty International che riportiamo di seguito.
Post sul Corriere di Riccardo Noury, portavoce Amnesty Italia
Le prime denunce le aveva fatte circolare Italians for Darfur, l’associazione che nel silenzio generale cerca da 13 anni di mantenere alta l’attenzione sui crimini di guerra del regime del presidente-latitante (ricercato dalla Corte penale internazionale) Omar al-Bashir, col quale l’Italia non disdegna di fare accordi per i rimpatri.
Oggi arriva la conferma da parte di Amnesty International: da gennaio al 9 settembre 2016 sono stati condotti con ogni probabilità almeno 30 attacchi con armi chimiche nella zona del Jebel Marra. A questa sconvolgente conclusione, l’organizzazione per i diritti umani è giunta attraverso riprese satellitari, oltre 200 approfondite interviste con sopravvissuti e l’analisi da parte di esperti di decine di immagini agghiaccianti di bambini e neonati con terribili ferite. (Non mostriamo alcuna di quelle foto; questo post si apre con un’immagine di archivio sulle devastazioni dei villaggi del Darfur).
Le vittime da esposizione ad agenti chimici tra i civili darfuriani sarebbero dalle 200 alle 250. Molte, se non la maggior parte di loro, erano bambini.
Centinaia di altre persone sono inizialmente sopravvissute agli attacchi ma nelle ore e nei giorni successivi hanno sviluppato gravi disturbi gastrointestinali, tra cui diarrea e vomito di sangue; la loro pelle si è riempita di vesciche, hanno cambiato colorito, sono svenute, hanno perso completamente la vista e hanno sviluppato problemi respiratori che sono descritti come la principale causa di morte.
Molte delle vittime hanno dichiarato ad Amnesty International di non aver potuto accedere alle medicine e di essere state curate con sale, frutti ed erbe.
Un uomo che ha aiutato molte persone del suo villaggio e di quelli circostanti e che si prendeva cura delle vittime del conflitto nel Jebel Marra sin dal 2003, ha detto di non aver mai assistito a niente del genere: nel giro di un mese 19 delle persone che aveva curato, compresi dei bambini, sono morte. Tutte avevano sviluppato profondi cambiamenti sulla pelle: la metà delle ferite era diventata di colore verde e sull’altra metà si erano composte vesciche purulente.
Gli agenti chimici erano contenuti in bombe aeree e in razzi. La maggior parte dei sopravvissuti ha raccontato che il fumo rilasciato a seguito dell’esplosione cambiava colore nel giro di cinque, al massimo 20 minuti. Inizialmente era scuro, poi tendeva a diventare più chiaro. Tutti i sopravvissuti hanno descritto la puzza del fumo come estremamente nociva.
Amnesty International ha sottoposto le sue conclusioni a due esperti indipendenti in materia di armi chimiche. Secondo entrambi, vi è il forte sospetto che siano stati usati agenti chimici vescicanti, come mostarda solforosa, mostarda al nitrogeno o lewisite.
Gli attacchi con armi chimiche sono avvenuti durante l’offensiva su vasta scala lanciata a gennaio nel Jebel Marra dalle forze armate sudanesi contro l’Esercito di liberazione del Sudan/Abdul Wahid (Sla/Aw), accusato di imboscate contro convogli militari e attacchi contro i civili.
Negli otto mesi successivi al lancio dell’operazione militare Amnesty International ha documentato numerosi attacchi contro i civili e le loro proprietà. Le immagini satellitari hanno confermato che sono stati distrutti o danneggiati 171 villaggi, nella maggior parte dei quali non vi era presenza di oppositori armati al momento dell’attacco. In 250.000 hanno dovuto lasciare la zona.
Terra bruciata, stupro di massa, uccisioni e bombardamenti. Sono esattamente gli stessi crimini di guerra che vengono commessi dal 2004, quando il mondo si accorse per la prima volta che esisteva un luogo sulla terra chiamato Darfur: un luogo sprofondato da 13 anni in un catastrofico ciclo di violenza. Nulla è cambiato da allora, se non che il mondo ha cessato di occuparsene. Nonostante la presenza di una missione di peacekeeping congiunta delle Nazioni Unite e dell’Unione africana, la popolazione civile del Darfur continua a vivere nel terrore.
Fonte:

Sudafrica, quattro anni fa la strage alla miniera di Marikana

15 AGOSTO 2016 | di

Policemen fire at striking miners outside a South African mine in Rustenburg, 100 km (62 miles) northwest of Johannesburg, August 16, 2012. South African police opened fire on Thursday against thousands of striking miners armed with machetes and sticks at Lonmin's Marikana platinum mine, leaving several bloodied corpses lying on the ground. A Reuters cameraman said he saw at least seven bodies after the shooting, which occurred when police laying out barricades of barbed wire were outflanked by some of an estimated 3,000 miners massed on a rocky outcrop near the mine, 100 km (60 miles) northwest of Johannesburg. REUTERS/Siphiwe Sibeko (SOUTH AFRICA - Tags: CIVIL UNREST CRIME LAW BUSINESS EMPLOYMENT)
Policemen fire at striking miners outside a South African mine in Rustenburg, 100 km (62 miles) …

Domani sarà il quarto anniversario della strage alla miniera di platino sudafricana di Marikana.

Il 16 agosto 2012 la polizia sudafricana aprì il fuoco (nella foto Reuters) contro i minatori in sciopero. Si contarono 34 morti e 70 feriti in modo grave, 10 dei quali decederono nei giorni successivi.

I minatori chiedevano l’aumento del salario e alloggi migliori.

Lavoravano per conto di Lonmin, il terzo produttore di platino al mondo, di proprietà britannica dal 1909 e che da Marikana, nella provincia del Nord-ovest, estrae il 95 per cento del suo prodotto. Il Sudafrica possiede quattro quinti delle riserve mondiali di platino.

Nel 2012 migliaia di minatori vivevano in condizioni di puro squallore intorno a Marikana.

Lonmin lo sapeva bene tanto che, nel 2006, si era assunta l’onere di legge di costruire 5500 nuovi alloggi e trasformare entro il 2011 gli ostelli per soli uomini in strutture abitative per famiglie.

Alla fine di quell’anno, tuttavia, Lonmin aveva costruito unicamente tre case-tipo da mostrare a eventuali acquirenti e aveva modificato solo 60 dei 114 ostelli.

Per quanto riguarda l’esito delle indagini sulla strage dei minatori, siamo lontanissimi dall’accertamento delle responsabilità. Solo nel 2015 si è arrivati alla sospensione dall’incarico di Riah Phiyega, commissaria nazionale della polizia sudafricana.

I motivi che diedero luogo alle proteste, stroncate nel sangue, stanno ancora tutti là.

La Commissione d’inchiesta presieduta dall’ex giudice Jacob Farlam, istituita dal governo per fare luce su quanto accadde il 16 agosto 2012, lo ha scritto nero su bianco nelle sue conclusioni: le condizioni abitative erano estremamente misere e ciò fece esplodere la tensione (nei giorni precedenti vi erano stati altri 10 morti, tra cui agenti di polizia e guardie di sicurezza).

Del resto, che gli alloggi fossero “veramente terribili” e che ciò avesse contribuito a pregiudicare le relazioni e il rapporto di fiducia tra i minatori e l’impresa, non lo ha negato neppure Lonmin, audita dalla Commissione.

Anche se nel 2014 è stata completata la modifica degli ostelli, la maggior parte dei 20.000 minatori vive ancora in tuguri, come l’insediamento informale di Nkaneng. L’acqua e l’elettricità possono mancare anche per molti giorni.

In uno scambio di lettere con Amnesty International, Lonmin ha ammesso che 13.500 minatori sono ancora privi di un alloggio che possa chiamarsi tale ma ha ribadito di non avere intenzione di onorare l’impegno a costruire 5500 alloggi assunto nel 2006.

Per questo motivo, Amnesty International ha ufficialmente chiesto al ministero sudafricano delle Risorse minerarie di approfondire la questione e, nel caso, sanzionare Lonmin per il mancato rispetto degli impegni.

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2016/08/15/sudafrica-quattro-anni-fa-la-strage-alla-miniera-di-marikana/

Sud Sudan: fragile coprifuoco dopo giorni di scontri

12 LUGLIO 2016 | di

Dopo cinque giorni di combattimenti nella capitale del Sud Sudan, Juba, ieri sera è stato raggiunto un nuovo, fragile cessate-il-fuoco.

Lo ha decretato ieri pomeriggio il presidente Salva Kiir e, poco dopo, lo ha condiviso il suo rivale, il vicepresidente Riek Machar.

Dal 7 luglio, quando sono ripresi gli scontri tra le forze armate rivali, centinaia di persone sono morte e migliaia hanno lasciato Juba, diretti verso le chiese e i campi allestiti dall’Onu per gli sfollati, a loro volta sotto i colpi d’artiglieria. Per chi è rimasto in città, ora il pericolo è costituito dalle insufficienti forniture di cibo e di acqua.

Il 10 e l’11 luglio colpi d’artiglieria hanno colpito le aree residenziali a ridosso del quartiere di Jebel, dove ha sede la base del vicepresidente Riek Machar. Diversi civili sono rimasti feriti e varie abitazioni hanno subito danni.

Dall’esplosione del conflitto, risalente ormai al dicembre 2013, i due leader rivali – uniti nella lotta per l’indipendenza dal Sudan e in seguito acerrimi nemici – si fanno beffe del diritto internazionale, secondo il quale è illegale tanto attaccare obiettivi civili (per non parlare dei centri profughi dell’Onu) quanto nascondere obiettivi militari all’interno di centri abitati. Per non parlare di veri e propri crimini di guerra contro le donne.

Il peggio è che, a quanto pare, i due leader non controllano più le forze a loro fedeli. Venerdì scorso i combattimenti sono ripresi proprio mentre Salva Kiir e Riek Machar erano a colloquio nel palazzo presidenziale. Inutile l’appello congiunto alla moderazione, fatto poco dopo nel corso di una conferenza stampa.

Per evitare ulteriori ostilità, sarebbe necessario un embargo completo sulle armi dirette in Sud Sudan, decretato dal Consiglio di sicurezza, cosa di cui al momento non si parla, nonostante venga sollecitato da quasi due anni. Difficile del resto, quando tra i membri permanenti siedono alcuni tra i principali fornitori globali di armi.

 

 

Fonte:

/http://lepersoneeladignita.corriere.it/2016/07/12/sud-sudan-fragile-coprifuoco-dopo-giorni-di-scontri/

QUEI BARILI BOMBA CHE PER IL PRESIDENTE SIRIANO NON ESISTONO

20 APRILE 2016 | di

Eccoli di nuovo, quei barili bomba che il presidente siriano Bashar al-Assad continua a negare contro ogni evidenza.

I barili bomba sono armi rudimentali quanto mortali realizzate con barili di petrolio, taniche di benzina o bombole del gas riempiti con materiale esplosivo, carburante e frammenti metallici e sganciati da elicotteri o aerei. Sono, per loro natura, armi imprecise che non dovrebbero mai essere usate nei pressi di insediamenti civili.

Sono stati filmati e fotografati, quei maledetti ordigni, innumerevoli volte ma c’era, fino a ieri, qualcosa che non si era ancora visto: immagini girate tra il 2014 e la fine di febbraio di quest’anno dagli abitanti di Daraya, la città alla periferia della capitale Damasco sotto assedio e, per l’appunto, sotto i barili bomba dal novembre del 2012.

Secondo i dati raccolti dal Consiglio locale della città assediata, tra gennaio 2014 e febbraio 2016 le forze governative siriane hanno sganciato su Daraya circa 6800 barili bomba.

I danni e le distruzioni causati sono massicci. “Pochi”, al confronto, i morti e i feriti tra la popolazione civile: almeno 42 vittime, tra cui 17 bambini, e 1200 civili feriti. Ma questo numero è contenuto solo perché i civili sono ormai allenati a correre verso i rifugi non appena viene visto in lontananza un elicottero.

Del resto, la maggior parte degli abitanti di Daraya è fuggita anni fa e vi rimane ora solo una piccola parte della popolazione originaria, non più di 8000 persone.

Sebbene non vi siano stati più attacchi coi barili bomba dal 26 febbraio, giorno in cui è entrata in vigore la parziale “cessazione delle ostilità”, Daraya ha continuato a essere colpita dall’artiglieria siriana e i civili rimasti in città sono sempre senza elettricità, con scarso cibo e scorte di medicinali insufficienti.

Gli operatori sanitari non hanno forniture minimamente adeguate per affrontare la crisi umanitaria in atto. L’unico ospedale da campo rimasto in funzione nella città assediata è stato colpito 15 volte dalle forze governative.

L’Ufficio medico di Daraya ha inviato ad Amnesty International gli elenchi di oltre 100 tipi di medicinali, forniture e attrezzature di cui c’è urgente bisogno, tra cui antibiotici, antidolorifici, anestetici, disinfettanti e altro materiale per pulire, brande e barelle da ospedale e macchinari per la dialisi ed esami diagnostici.

Secondo un rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite al Consiglio di sicurezza e nonostante ripetuti solleciti da parte delle stesse Nazioni Unite, il 26 marzo (un mese dopo l’inizio della “cessazione delle ostilità”) il governo siriano non aveva ancora garantito l’accesso degli aiuti umanitari in almeno sei aree sotto assedio, tra cui Daraya e alcune zone della Ghouta orientale.

Amnesty International auspica che queste orrende testimonianze filmate spingeranno la comunità internazionale a sollecitare ulteriormente il governo siriano affinché garantisca immediato accesso a quegli aiuti umanitari indispensabili per salvare vite umane a Daraya e in tutte le altre aree sotto assedio.

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2016/04/20/quei-barili-bomba-che-il-presidente-siriano-si-ostina-a-negare/

 

Leggi anche qui:

http://www.internazionale.it/notizie/2016/04/17/siria-barili-bomba

Brasile, la polizia militare di Rio ha il grilletto facile

5 AGOSTO 2015 | di

Dal 5 al 21 agosto del prossimo anno, Rio de Janeiro ospiterà le XXXI Olimpiadi.

A un anno esatto da questo importante evento, per la prima volta assegnato a una metropoli sudamericana, Amnesty International ha pubblicato un drammatico rapporto sull’uso delle armi da parte della polizia militare di Rio, raramente indagato in modo adeguato.

Dal 2005 al 2014 sono stati registrati 8471 omicidi da parte della polizia militare nello stato di Rio, 5132 dei quali nel territorio metropolitano.

Almeno il 16 per cento degli omicidi registrati in città negli ultimi cinque anni è stato commesso da agenti della polizia militare in servizio. Nella favela di Acari, su cui abbiamo recentemente scritto in questo blog, la percentuale è del 90 per cento.

Un grilletto facile, quello della polizia militare di Rio, quanto invisibile. Le persone uccise – giovani e poveri neri – vivevano in quella parte della città (nella foto di Luiz Baltar, il Complexo do Caju) messa da parte, nascosta per lasciare spazio e visibilità allo scintillio e alla modernità di una megalopoli di 12 milioni di abitanti: la maggior parte delle persone uccise dalla polizia militare dal 2010 al 2013 erano neri di età compresa tra 15 e 29 anni.

Questi omicidi sono raramente investigati. Quando una persona è uccisa a seguito di un’operazione di polizia, un funzionario civile viene incaricato di stabilire se l’atto sia stato commesso per autodifesa o se, al contrario, occorra aprire un’indagine.

Nella maggior parte dei casi, sul rapporto del funzionario civile c’è scritto che la persona faceva parte di una banda criminale ed è morta dopo aver opposto resistenza. Per sicurezza, spesso si altera la scena del crimine piazzando un’arma o qualche altra “prova” accanto al cadavere.

Dunque, la persona assassinata è responsabile della propria morte e il caso è chiuso.

Eduardo de Jesus, 10 anni, è stato ucciso dalla polizia militare il 2 aprile di quest’anno nella favela del Complexo de Alemao. Era seduto sull’uscio di casa.

Sua madre, Terezinha Maria de Jesus, ha sentito uno sparo ed è corsa fuori, dove ha trovato il cadavere del figlio. Ha gridato e un agente le ha puntato il fucile contro minacciando di uccidere anche lei come aveva appena fatto col “figlio di un bandito”. I colleghi del poliziotto hanno prima tentato di porre una pistola accanto al corpo di Eduardo, poi hanno cercato di portarlo via ma sono stati costretti a ritirarsi dall’intervento degli abitanti della favela.

Questo è uno dei pochi casi in cui un agente della polizia militare è stato congedato e nei suoi confronti è stata aperta un’indagine.

Non sappiamo come andrà a finire. Magari verrà stabilito che il piccolo Eduardo, per il mero fatto di stare seduto sulla porta di casa, stava opponendo resistenza. Del resto, su 220 indagini avviate nel 2011, solo quattro si sono concluse con l’incriminazione di agenti della polizia militare; 183 sono ancora aperte.

Intanto, Terezinha e altri parenti, dopo aver ricevuto minacce e intimidazioni, hanno lasciato la favela.

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2015/08/05/brasile-la-polizia-militare-di-rio-ha-il-grilletto-facile/

QUANDOIL TERRORE E’ “IN NOME DI CRISTO”: ALLA CORTE PENALE DELL’ AJA EX COMANDANTE DELL’ESERCITO DI RESISTENZA DEL SIGNORE

24 GENNAIO 2015 | di

 

Dominic Ongwen, ex comandante dell’Esercito di resistenza del Signore, il gruppo armato di matrice cristiana che ha terrorizzato l’Uganda dal 1987 e, negli ultimi 10 anni, anche i paesi circostanti, è arrivato all’Aja, dove dovrà rispondere alla Corte penale internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

I tempi della giustizia internazionale non sono particolarmente veloci: il governo dell’Uganda chiese l’intervento della Corte oltre 11 anni fa. Nel 2005 il procuratore della Corte spiccò un mandato di cattura per Ongwen e altri quattro leader dell’Esercito di resistenza del Signore.

Dieci anni dopo, il 5 gennaio 2015, Ongwen si è arreso alle forze speciali statunitensi che dal 2011 collaborano in Africa centrale con una task force dell’Unione africana. Nei giorni successivi, è stato trasferito all’esercito ugandese e da questo alla Corte penale internazionale, che il 17 gennaio lo ha preso in carico a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana.

Ongwen è accusato di quattro fattispecie di crimini contro l’umanità (omicidio, riduzione in schiavitù, atti inumani e sofferenza) e di tre fattispecie di crimini di guerra (omicidio, crudeltà contro le popolazioni civili, attacchi intenzionali contro le popolazioni civili e saccheggio).

Degli altri quattro leader dell’Esercito di resistenza del Signore, tre si ritiene siano morti mentre rimane ancora latitante, e apparentemente inafferrabile, Joseph Kony, fondatore del gruppo armato, colui che diceva di lottare in nome di Cristo e dei 10 comandamenti e che voleva essere il leader di una nazione basata sul rispetto integrale dei precetti biblici.

L’Esercito di resistenza del Signore ha seminato il terrore per oltre 20 anni nel nord dell’Uganda (qui, una testimonianza risalente al 2004) causando oltre 100.000 morti e rapendo migliaia di bambine e bambini: le prime per ridurle in schiavitù sessuale, i secondi per farne futuri combattenti. Prova d’iniziazione: mutilare o uccidere i genitori.

Lo stesso Ongwen venne rapito dall’Esercito di resistenza del Signore, all’età di 10 anni e, dopo il consueto lavaggio del cervello a colpi di droghe e versi della Bibbia, iniziò una rapida carriera criminale: brigadiere a 18 anni, maggiore dopo i 20, presente nei massacri compiuti oltre confine, in Sud Sudan e soprattutto nella Repubblica Centrafricana.

Il fatto che sia stato tanto carnefice quanto vittima dell’Esercito di resistenza del Signore potrà far parte della strategia difensiva, quando inizierà il processo.

Intanto, questo sviluppo segna un passo avanti verso la giustizia per le innumerevoli vittime del terrore seminato in Africa “in nome di Cristo”.

 

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2015/01/24/quando-il-terrore-e-in-nome-di-cristo-verso-il-tribunale-dellaja-ex-comandante-dellesercito-di-resistenza-del-signore/

BAHRAIN, CONFERMATA LA CONDANNA A 10 ANNI PER IL FOTOREPORTER DELLE PROTESTE

Dieci anni per aver svolto il suo lavoro di fotoreporter documentando l’attacco di un gruppo di manifestanti contro una stazione di polizia.

Ieri mattina, una corte d’appello del Bahrein ha confermato la pesante condanna inflitta il 26 marzo, in primo grado, ad Ahmed Humaidan.

Humaidan, 25 anni, era stato arrestato il 29 dicembre 2012 mentre stava rientrando a casa dopo aver trascorso alcune ore in un centro commerciale. A carico suo e di altri 28 fermati, l’accusa di aver preso parte all’attacco alla stazione di polizia, con bombe molotov e altri ordigni incendiari, avvenuto nel villaggio di Sitra l’8 aprile 2012.

Tre dei 29 imputati erano stati condannati a tre anni di carcere, gli altri 26, tra cui Humaidan, a 10 anni.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani, Humaidan non ha preso parte all’attacco di Sitra. Anche quel giorno si era limitato a documentare con la sua macchina fotografica, come faceva da oltre un anno, un episodio (uno dei non molti segnati da violenza) della rivolta scoppiata il giorno di San Valentino del 2011 nel piccolo regno del Golfo persico. Rivolta che da allora va avanti, nonostante una repressione costantemente feroce.

Quest’anno, Humaidan è stato insignito del premio John Aubuchon per la libertà di stampa dell’Associazione nazionale della stampa degli Usa. Qui, alcuni dei suoi scatti.

Intanto, peggiorano le condizioni di salute del più noto prigioniero di coscienza del Bahrein, Abdulhadi Al-Khawaja, all’ergastolo e in sciopero della fame da una settimana.

 

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2014/09/01/bahrein-confermata-la-condanna-a-10-anni-per-fotoreporter/

 

Dimenticare Tiananmen

DIMENTICARE TIANANMEN

 

DIMENTICARE TIANANMEN

DIMENTICARE TIANANMEN

 

Sceneggiatura e disegni: Davide Reviati
Caratteristiche: 176 pagine, brossura, colori

 

Non ricordo più le cose.
Non ricordo i carri armati, gli spari, le grida.
Non ricordo i compagni che cadevano, non ricordo le facce.
Ricordo la Piazza.
Si chiamava Tiananmen, mi pare.

La notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 l’esercito muove dalla periferia verso Piazza Tiananmen per reprimere la protesta pacifica di studenti, intellettuali, operai, cittadini comuni che da settimane manifestano per la libertà e la democrazia. In poche ore va in scena un tremendo massacro, rimasto scolpito nella memoria collettiva di tutto il mondo nonostante l’azione di censura e disinformazione messa in atto dal Governo Cinese.

“I razzi illuminarono il cielo. Io vidi i soldati circondare la piazza.” uno studente sopravvissuto al massacro

“Quanti fiori caddero, nessuno poté sapere. Recita così una poesia della dinastia Tang, e basta questo verso a definire che cosa è rimasto di Tiananmen vent’anni dopo: silenzio da un lato, ostinazione dall’altro.” dalla prefazione di Riccardo Noury, Amnesty International

 

 

 

 
Fonte:
http://www.beccogiallo.org/shop/edizioni-beccogiallo/27-dimenticare-tiananmen.html