A FOGGIA LA DOPPIA PROTESTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO

A FOGGIA LA DOPPIA PROTESTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO
Neri di rabbia. Le due manifestazioni dopo la strage dei braccianti stranieri. I campi chiusi per sciopero
di Gianmario Leone, il Manifesto 09.08.18

Una giornata di protesta e di lotta come non si vedeva da tempo. Uno sciopero che ha avuto un’adesione totale da parte dei braccianti stagionali e due grandi manifestazioni che hanno riempito le strade di Foggia e della sua provincia. Per dimostrare che nonostante l’indifferenza e un sistema difficile da debellare, fatto di caporalato, di sfruttamento dei migranti in molte aziende agricole, dell’ombra della mafia e degli interessi enormi della filiera della grande distribuzione, c’è ancora voglia di lottare e non arrendersi.

LA GIORNATA è iniziata molto presto. Alle 8 è infatti partita dal ghetto di Rignano, nel comune di San Severo, cuore della protesta, la marcia dei berretti rossi organizzata dall’ Usb e Rete Iside alla quale ha partecipato anche il governatore Michele Emiliano. «È stata totale l’adesione dei lavoratori allo sciopero. Nessuno è al lavoro nei campi intorno al ghetto di Rignano» hanno assicurato dall’Usb. Centinaia di lavoratori hanno sfilato con i cappellini indossati dalle vittime, distribuiti da Usb e Rete Iside «per aiutare i braccianti a proteggersi dal solleone e idealmente dallo sfruttamento e dalla mancanza di diritti». Le rivendicazioni della marcia sono state le stesse esposte un mese fa al ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, «che aveva accolto le richieste – sottolinea il sindacato – promettendo un tavolo che non c’è mai stato. Chiediamo sicurezza, diritti e dignità per tutti i lavoratori agricoli».

«BASTA MORTI sul lavoro», «schiavi mai» alcuni degli slogan che hanno accompagnato la manifestazione mattutina, giunta davanti alla prefettura di Foggia dove centinaia di migranti, sostenuti da cittadini e associazioni, si sono radunati durante l’incontro che la delegazione ha avuto con il prefetto. All’arrivo è stato osservato un minuto di silenzio per ricordare i 16 morti nei due incidenti stradali avvenuti negli ultimi giorni sulle strade foggiane e tutti i caduti sul lavoro, compresi gli italiani morti nella miniera di Marcinelle l’8 agosto del 1956.

ABOUBAKAR SOUMAHORO, sindacalista italo-ivoriano dell’Usb, al termine della riunione ha raccontato di «risposte immediate» ricevute da prefetto e questura. Aggiungendo che il prefetto si è impegnato a «convocare dopo ferragosto una conferenza sul lavoro», mentre sul rinnovo dei permessi di soggiorno, che in tanti aspettano da mesi, «la questura ha dato la disponibilità a ricevere un elenco che l’Usb presenterà ogni due settimane per affrontare i casi di rinnovo».

IN PIÙ DI DUEMILA hanno invece sfilato per le strade del capoluogo dauno nella seconda manifestazione organizzata da Cgil, Cisl, Uil, con l’adesione di Arci, Libera e altre associazioni. In marcia, accanto a sindacalisti e migranti, ancora il governatore Emiliano e poi l’europarlamentare pugliese Elena Gentile, il deputato Roberto Speranza e l’attore Michele Placido. «Un senso di sconfitta è quello che si avverte quando accadono queste tragedie immani» hanno sottolineato i sindacalisti, per i quali «questa manifestazione è il momento del cambiamento, per dire basta a morti ammazzati di lavoro».

IL MOMENTO PIÙ TOCCANTE c’è stato quando sul palco ha preso la parola Mohamed, lavoratore migrante: «Non è una pacchia lavorare tutto il giorno per pochi euro o pagare 5 euro per salire sui furgoni della morte – ha gridato -. Come siamo giunti a questo punto? Come siamo passati dall’accoglienza diffusa al degrado diffuso? Chiediamo diritti, non l’impossibile. Vogliamo pari diritti per pari doveri».

UN ALTRO LAVORATORE ha ricordato il dramma vissuto da ogni singolo migrante: «Le famiglie di quelle 16 persone in Africa soffrono per i loro cari che avevano lasciato tutto per venire in Italia a lavorare. Prima sono stati trattati come animali e poi sono morti». Sul palco si sono poi alternati gli interventi dei segretari di Cgil, Cisl, Uil, le cui delegazioni sono giunte da tutta Italia, e dei presidenti delle associazioni che hanno aderito alla manifestazione. «Non sono incidenti, sono omicidi. Siamo stanchi – le ultime parole dal palco – di chi incita all’odio e ci accusa di buonismo».

Fonte:

https://ilmanifesto.it/a-foggia-la-doppia-protesta-contro-…/

Da Mauro Biani :

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Antimafia, una manifestazione in ricordo di Rita Atria e di tutti i testimoni di giustizia

Antimafia, una manifestazione in ricordo di Rita Atria e di tutti i testimoni di giustizia
 
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Regista teatro civile e addetta stampa M5S
Martedì 26 luglio è una giornata importante: a Roma (dalle ore 19.30 alle ore 21 in viale Amelia 23) verrà ricordata la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria a ventiquattro anni dalla sua prematura scomparsa. La storia di Rita è una di quelle storie che deve essere conosciuta e raccontata, è una di quelle storie che arriva dritta al cuore. Figlia del boss di Partanna a soli 17 anni decise di seguire le orme della cognata Piera Aiello e di raccontare alla magistratura tutto ciò che sapeva. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu il giudice Paolo Borsellino a cui si legò come a un padre. Quando la mafia, dopo la strage di Capaci mise di nuovo in ginocchio Palermo il 19 luglio 1992, Rita si suicidò lanciandosi dal settimo piano di un palazzo: non ce la faceva a vivere senza il suo caro Borsellino.

Troppo giovane, ripudiata dalla famiglia e dagli amici era, proprio come tutti gli adolescenti, fragile. Rita Atria in nome della giustizia, rinunciò a tutto, anche all’affetto di quella madre che, poco dopo, avrebbe distrutto la sua lapide a suon di martellate. La piccola Rita è stata una testimone di giustizia, non una pentita: non commise mai nessun reato di stampo mafioso. In un Paese come l’Italia, così duramente colpito da un profondo radicamento della criminalità organizzata, i testimoni di giustizia rappresentano una linfa vitale e vanno assolutamente protetti. I cittadini devono essere incoraggiati a denunciare e devono sentirsi al contempo tutelati dallo Stato.

Ma qual è la situazione dei testimoni di giustizia in Italia e quali le proposte in Parlamento? La proposta di legge di riforma del sistema tutorio per i testimoni di giustizia è stata assegnata alla Commissione giustizia della Camera, anche se non è ancora iniziato l’iter legislativo. La proposta, a prima firma della presidente dem della Commissione antimafia Rosy Bindi, è stata sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari ed è il frutto del lavoro del V Comitato della Commissione coordinato dal deputato Pd Davide Mattiello, con un sostanziale contributo del deputato M5s Francesco D’Uva.

Quali le novità salienti della proposta?

– se fosse approvata, sarebbe la prima legge dedicata ai testimoni di giustizia: infatti ad oggi le norme che li riguardano sono state inserite nella normativa sui collaboratori di giustizia – che invece risale al 1991 – e questo contribuisce alla confusione grave e dolorosa tra testimoni e collaboratori;

– viene superata la dualità tra le misure di sostegno previste per le speciali misure di protezione e lo speciale programma di protezione in modo da adoperarle tutte con maggior flessibilità e aderenza ai casi particolari;

– è prevista la figura del “referente” che deve accompagnare il protetto e la sua famiglia dall’inizio alla fine del percorso garantendo continuità, affidabilità e capacità di interfacciarsi con le parti dell’amministrazione pubblica;

– è prevista per la prima volta la protezione di coloro, soprattutto donne con minori, che pur non avendo informazioni rilevanti da offrire all’autorità giudiziaria – essendo inserite in contesti familiari criminali e non essendo in alcun modo coinvolte nella commissione dei delitti – decidano di rompere il proprio legame familiare, scegliendo di ricominciare una vita altrove, con nuove generalità.

Segnali forti e importanti, di cui necessita il nostro Paese. E’ fondamentale che la proposta di legge sui testimoni di giustizia venga calendarizzata quanto prima. La relazione sui testimoni, non è un caso, è stata dedicata proprio alla preziosa figura di Rita Atria. Sì, perché Rita è l’emblema della libertà: Rita che voleva essere libera dai codici mafiosi della sua famiglia. Rita che, secondo l’associazione antimafie Rita Atria “comprese molto presto che, per essere veramente liberi e per lottare contro la mafia, si deve intraprendere un percorso continuo, travagliato, nel quale si deve combattere quotidianamente dentro di noi quel pensiero mafioso diffuso che rende accettabili arretramenti morali e che degrada come favore ciò che spetta come diritto”.

“Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi”.

L’appuntamento dunque è nella giornata di martedì 26 luglio dalle ore 19:30 alle ore 21:00 in Viale Amelia 23 per ripercorrerne la storia e la lotta, attraverso la lettura di passi del suo diario e di testi di denuncia sulle mafie. Quest’evento, dal titolo L’unica speranza è non arrendersi mai, è stato organizzato dal presidio romano dell’associazione antimafie “Rita Atria”.

Dal diario di Rita:

“Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/25/antimafia-una-manifestazione-in-ricordo-di-rita-atria-e-di-tutti-i-testimoni-di-giustizia/2932163/

Ponte sullo Stretto torna nell’agenda del governo. Una storia di annunci, penali e appetiti mafiosi

Fabio Bonasera

Cronaca – Doveva essere il ponte sospeso dei record per un costo di 4 miliardi di euro. Finora lo Stato ha pagato 300 milioni per la mancata costruzione. Sempre sostenuto da Berlusconi, a fasi alterne da Prodi. Affossato dal governo Monti e dall’Ue. Nel 2005 la Dia aveva illustrato in Parlamento il rischio di infiltrazioni di Cosa nostra.

L’intenzione sarebbe di riesumare il sogno che non fu solo di Silvio Berlusconi. Il ddl annunciato da Angelino Alfano pare sia in fase di stesura e potrebbe essere pronto a giorni. Sarebbe stato il ponte dei record, quello sullo Stretto di Messina, secondo il progetto dell’associazione temporanea di imprese Eurolink. Il collegamento stabile tra Cannitello, in provincia di Reggio Calabria, e Ganzirri, villaggio del capoluogo peloritano, prevedeva un ponte sospeso, lungo tre chilometri e 666 metri, con due corsie stradali e due binari ferroviari. Alti 382,60 metri sul livello del mare, i due piloni chiamati a reggerlo. Costo dell’appalto, circa quattro miliardi di euro. Tempi stimati per la realizzazione, cinque anni e dieci mesi.

Un’opera imponente, tramontata il 15 aprile 2013, quando la Stretto di Messina Spa, concessionaria costituita nel 1981 per la sua progettazione, la realizzazione e l’esercizio, viene liquidata con decreto del presidente del consiglio dei ministri, all’epoca Mario Monti. Che, già l’anno prima, aveva fatto stanziare 300 milioni per le penali da pagare per la mancata costruzione.

Di Ponte sullo Stretto si parla da decenni. Significativa, nel 1981, la costituzione della Stretto di Messina, partecipata da Italstat e Iri, con il 51 per cento, e da Ferrovie dello Stato, Anas, Regioni Sicilia e Calabria. Dal primo ottobre 2007, Anas assume il controllo con l’81,848 per cento. Ormai surreali, nel 1985, le dichiarazioni di Bettino Craxi, per il quale il Ponte si sarebbe realizzato a breve. L’anno dopo, l’allora presidente dell’Iri, Romano Prodi afferma che il ponte è una priorità e che i lavori verranno ultimati nel 1996. Lo stesso Prodi, quando torna a Palazzo Chigi nel 2006, deciso ad affossare il progetto per evitare infiltrazioni mafiose, i cui rischi erano stati esposti al Parlamento appena un anno prima dalla Direzione investigativa antimafia, trasferisce buona parte delle risorse alla Salerno-Reggio Calabria.

Eppure, l’infrastruttura, nel 2001, è presente nei programmi elettorali dei due candidati premier di centrodestra e centrosinistra, Berlusconi e Francesco Rutelli. Vince il fondatore di Forza Italia e, nell’ottobre 2005, l’Ati Eurolink Scpa, guidata da Impregilo Spa, si aggiudica la gara come contraente generale per la sua costruzione, con un’offerta di tre miliardi 880 milioni di euro. Nascono in quel periodo le spinte nopontiste che, nel gennaio 2006, a Messina, danno vita a un corteo di protesta di 15-20mila persone. Alla guida, l’attuale sindaco della città dello Stretto, Renato Accorinti, accolto con i manifestanti, nella piazza del municipio, dal primo cittadino di allora, Francantonio Genovese, azionista della Caronte & Tourist e successivamente deputato del Pd, attualmente agli arresti e sotto processo nell’ambito dell’inchiesta Corsi d’oro sulla formazione professionale.

Il 27 marzo 2006, Impregilo firma il contratto per la progettazione finale e la realizzazione dell’opera. Dopo le resistenze di Prodi, Berlusconi riprende le fila del discorso, una volta tornato alla guida del governo, nel 2008. Il 2 ottobre 2009, la Stretto di Messina impartisce al contraente generale l’ordine di inizio della progettazione definitiva ed esecutiva. Secondo gli impegni del presidente del consiglio, i lavori dovranno iniziare nel 2010 per finire nel 2016. I primi cantieri, riguardanti opere propedeutiche, prendono il via a dicembre, a Cannitello, con la variante ferroviaria poi ultimata nel 2012.

Il secondo fendente al Ponte lo infligge, nell’ottobre 2011, l’Unione Europea,escludendolo dai finanziamenti comunitari, seppur confermando il corridoio 1 Berlino-Palermo. Infine, il colpo di grazia di Monti. Dei soldi stanziati, pare siano stati spesi in tutto 300 milioni per saggi, carotaggi, simulazioni e quant’altro. Ora non resta che attendere il disegno di legge annunciato dal ministro dell’Interno per capire da dove si vorrà ripartire.

 

 

Fonte:

http://meridionews.it/articolo/36558/ponte-sullo-stretto-torna-nellagenda-del-governo-una-storia-di-annunci-penali-e-appetiti-mafiosi/

TERZO VALICO E AMIANTO

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07 agosto 2015

Ecco a voi l’amianto di Cravasco. Sempre più convinti che non ci sia nulla da stare tranquilli

Quello che si vede nelle foto allegate è lo smarino contenente amianto stoccato in cantiere a Cravasco. “Questa mattina sono stata io stessa in cantiere ad accertarmi della situazione in cantiere”, “Il geologo di cantiere ha riconosciuto le rocce verdi sul fronte di scavo, contenenti amianto, subito l’avanzamento si è fermato e il materiale immerso […]

 

Qui l’inchiesta sulle aziende che lavorano nei cantieri del Terzo Valico

http://www.notavterzovalico.info/wp-content/uploads/2014/05/Ecco-a-chi-porta-lavoro-il-Terzo-Valico.pdf

 

Per altre info visitare il sito http://www.notavterzovalico.info/

 

Paolo Borsellino

Paolo Borsellino Paolo Borsellino

Nato a Palermo nel quartiere della Kalsa, dove vivono tra gli altri Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta, Paolo Borsellino si laurea in Giurisprudenza il 27 giugno 1962 all’età di 22 anni.  Nel 1963 supera il concorso per entrare in magistratura,nel 1967 diventa pretore a Mazara del Vallo,nel 1969 pretore a Monreale, dove lavora insieme ad Emanuele Basile. Nel 1975 viene trasferito a Palermo e a luglio entra nell’ufficio istruzione affari penali sotto la guida del giudice istruttore Rocco Chinnici.

Il 1980 vede l’arresto dei primi sei mafiosi grazie all’indagine condotta da Basile e Borsellino, ma nello stesso anno arriva la morte di Emanuele Basile e la scorta per la famiglia Borsellino. In quell’anno viene costituito il pool antimafia sotto la guida di Chinnici, Il 29 luglio 1983 viene ucciso Rocco Chinnici nell’esplosione di un’autobomba e pochi giorni dopo arriva da Firenze Antonino Caponnetto. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Tommaso Buscetta. “Don Masino” come viene chiamato nell’ambiente mafioso viene arrestato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia.

Buscetta descrive una mafia di cui fino ad allora si sapeva poco o nulla e la descrive in maniera molto dettagliata. Nel 1985  vengono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l’uno dall’altro, i commissari Beppe Montana e Ninni Cassara’. Falcone e Borsellino vengono trasferiti nella foresteria del carcere dell’Asinara, dove iniziano a scrivere l’istruttoria per il maxiprocesso. Il 19 dicembre 1986 Borsellino viene trasferito alla Procura di Marsala. Nel 1987 Caponnetto lascia il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si aspettano la nomina di Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) non la vede nella stessa maniera e nasce la paura di vedere il pool sciolto. Il 14 settembre Antonino Meli diventa (per anzianità) il capo del pool; Borsellino torna a Marsala, dove riprende a lavorare alacremente e insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Inizia in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porne a capo. Falcone va a Roma per prendere il comando della direzione affari penali e preme per l’istituzione della Superprocura.

Con Falcone a Roma, Borsellino chiede il trasferimento alla Procura di Palermo e l’11 dicembre 1991 Paolo Borsellino, insieme al sostituto Antonio Ingroia, torna operativo alla Procura di Palermo.

La strage di via D’Amelio La strage di via D’Amelio

 

Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si reca insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove vive sua madre.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa 100 kg di tritolo a bordo esplode, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traia. L’unico sopravvissuto è Antonino Vullo.

Per la strage di via D’Amelio, il 3 luglio 2003, la Cassazione ha confermato le condanne all’ ergastolo inflitte ai mandanti dell’eccidio. In particolare, i giudici della V sezione penale hanno reso definitive le condanne per Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Natale e Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Scotto, Gaetano Murano e Gaetano Urso.

 

 

Fonte:

http://www.ansa.it/legalita/static/bio/borsellino.shtml

1 maggio 1947 – Portella della Ginestra (Palermo)

portella della ginestra

Pochi giorni dopo le elezioni regionali che hanno visto il successo del blocco Pci-Psi, l’appuntamento di sindacale per festeggiare il 1 maggio a Portella della Ginestra si trasforma in un massacro. 11 persone rimangono uccise sotto il fuoco dei mitra della banda di Salvatore Giuliano, separatista al servizio degli agrari. Ma già il rapporto dei carabinieri indica come possibili mandanti, “elementi reazionari in combutta con mafiosi locali”. Gaspare Pisciotta affermerà poi davanti alla corte d’assise che i mandanti politici della strage erano i monarchici Gianfranco Alliata di Montereale e il democristiano Bernardo Mattarella.

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/1-maggio-1947-portella-della-ginestra-palermo/

5 gennaio nel ricordo di Fava e Impastato

5 gennaio nel  ricordo di Fava e Impastato
gennaio 05 2015
10:51
 

Fiore di campo nasce

dal grembo della terra nera

Fiore di campo cresce

odoroso di fresca rugiada

Fiore di campo muore

sciogliendo sulla terra gli umori segreti.

(Peppino Impastato)

5 gennaio: una data per due coincidenze: la nascita di Peppino Impastato e la morte di Giuseppe Fava. Due persone con una diversa storia alle spalle, ma con molti punti in comune: entrambi vengono ricordati come “giornalisti” uccisi dalla mafia: per la verità Fava era un “professionista” del giornalismo, Peppino, malgrado qualche rara corrispondenza a “Lotta Continua” aveva dedicato la sua attenzione all’informazione orale attraverso Radio Aut. Solo nel 1996 gli sarà concessa., alla memoria, l’iscrizione all’albo dei giornalisti.

Entrambi avevano identificato nei grandi mafiosi della loro zona, da una parte Nitto Santapaola, dall’altra Tano Badalamenti, i nemici della Sicilia e del suo decollo economico e sociale. Entrambi amavano l’arte, il teatro, anche se Peppino non scrisse mai nulla, mentre i lavori teatrali di Fava ancora oggi suscitano ammirazione . Entrambi, subito dopo la loro morte vennero diffamati, secondo le regole  e le strategie mafiose, affinchè di loro si perdesse la memoria: Fava un “femminaro”, Peppino un “terrorista”. Fortunatamente, almeno in questi due casi, il tempo e le indagini hanno fatto giustizia e i colpevoli sono stati individuati e condannati. L’esempio di Peppino e di Fava ripropone l’importanza e la delicatezza dell’informazione, dove oggi il monopolio che alcuni gangsters e piduisti esercitano su questo campo, consente di creare consenso politico ed economico ai soliti gruppi di potere che continuano, con la violenza a solidificare la propria ricchezza sulle spalle dei  più deboli.

 

Per Giuseppe Fava

 

Dai cadaveri viventi il solito:

“Cu ci u faceva fari?”,

e continueremo a morire,

a vederci rubare

i momenti migliori della nostra vita

perché non abbiamo accettato

le regole della sopraffazione,

perché abbiamo voluto salvare

la dignità degli altri.

Continueremo in solitudine

la nostra fragile lotta

contro i corvi del potere

senza rinunciare alla certezza del giusto.

Sulla resa di pochi è la sconfitta di tutti.

Possiamo ancora farcela.

Se  questo venir fuori,

candidarsi a bersaglio,

servisse come seme per la rivolta dei vinti,

moriremmo con meno angoscia.

 

 

 

Fonte:

http://www.telejato.it/home/cronaca/5-gennaio-nel-ricordo-di-fava-e-impastato/

 

Asinara, così Gratteri lo vuole riaprire

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La proposta di Nicola Gratteri di riaprire il carcere dell’Asinara continua a far discutere, soprattutto nel momento di visibile difficoltà del ministro della giustizia Orlando. La “Commissione Gratteri”, istituita per volontà del premier Renzi, ha acquisito lo status di Struttura Generale della Presidenza del Consiglio e lo stesso Gratteri, si dice determinato a portare avanti il progetto e farlo approvare entro l’anno. In Sardegna, la vicenda ha sollevato un vero e proprio polverone. Per Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda Socialismo Diritti Riforme: «Suscita viva preoccupazione la riapertura del carcere dell’Asinara per ospitare i detenuti in regime di 41bis proposta dal Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri incaricato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, insieme agli altri Magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di formulare un progetto di riforma del sistema penitenziario. Un nuovo programma assurdo che paradossalmente rischia di acquisire fondatezza proprio per il problema dei detenuti mafiosi destinati alla Sardegna».
Inoltre, sottolinea Caligaris, «la volontà di far prevalere la forza sulla ragionevolezza e il buon senso rischia di travolgere e annullare un percorso di emancipazione in cui l’isola dell’Asinara è inserita da tempo. Sarebbe infatti inqualificabile se lo Stato, dopo aver ceduto alla regione l’area demaniale, destinasse i detenuti in regime di massima sicurezza a un’isola-parco di straordinaria bellezza paesaggistica e naturalistica e dove il turismo sta assumendo finalmente un ruolo importante». Secondo la presidente la Sardegna appare sempre più destinata a subire scelte dall’alto: «Speriamo che stavolta si tratti solo di un esercizio letterario senza conseguenze, anche se è meglio vigilare».

Dagli anni settanta al 1998, anno della sua effettiva chiusura, il carcere dell’Asinara è stato un istituto di massima sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destra e estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano. Ma è stato anche luogo di detenzione per anarchici, come Passante e politici come Sandro Pertini. Prima di diventare un carcere di massima sicurezza, l’Asinara è stata una colonia penale e poi un penitenziario. Ma è durante gli anni 70 che il super carcere dell’Asinara acquista finalità ben diverse. A segnare la svolta anche il cambio di direzione che affida la guida dell’istituto a Luigi Cardullo, il quale lo dirigerà per otto anni con il pugno di ferro, guadagnandosi subito la fama di duro. Gli stessi agenti di custodia dell’Asinara l’avevano soprannominato “il viceré” e così Cardullo conquistò ben presto la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia.

Il suo comportamento attira l’attenzione dei giornali, ad esempio quando fa sparare, da alcuni agenti contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri dalla costa imposto dalla capitaneria. Oppure quando nel 1976, il processo a carico di un detenuto del carcere di Alghero, che lo accusava di comportamento illegale, si trasforma in un processo ai metodi spicci del “viceré” Cardullo. In quell’occasione la difesa non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle scuse di calunnie, ma riesce a concentrare l’attenzione dei media su quanto avveniva tra le mura del carcere. La realtà che emerge è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi sui detenuti, oltre alle sevizie psicologiche. La censura della posta e l’isolamento appaiono come metodi normalmente utilizzati.
Alle condizioni di vita sull’isola iniziarono a interessarsi diversi esponenti della politica italiana. L’onorevole dell’allora partito Comunista Vincenzo Balzamo, in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia, chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, rispettassero le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari. Richiesta avanzata nel tentativo per cercare di smentire la voce secondo cui alcuni detenuti, come Renato Curcio e Sante Notarnicola, erano trattati da “sepolti vivi”.

L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidarono una manifestazione pacifica contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta venne repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Carlo Horst Fantazzini, il famoso ”ladro gentiluomo”, perché in gravi condizioni. Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo del 1981, sempre al super carcere dell’Asinara, avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti.

Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. C’è il detenuto Pasquale De Feo , ergastolano ostativo, che racconta  quel periodo: «Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete, il freddo non essendoci riscaldamenti, non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità. In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo che un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno.

Ricordo di aver letto in un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori, di non essere creduti. Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavano. In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come hanno fatto su Alcatraz, in Italia, nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità». Se ne occupò anche Amnesty International nel 1993 che, raccogliendo varie testimonianze, pubblicò un dossier dove si denunciavano le torture che avvenivano nel supercarcere.

La chiusura del super carcere dell’a Asinara, definito la ”Guantanamo” sarda, e l’istituzione del Parco naturale (voluta e finanziata fortemente dall’Europa) diviene finalmente realtà il 27 dicembre 1997 tramite il Governo Prodi. Chiusura che a distanza di anni, grazie soprattutto al processo sulla presunta ”trattativa mafia- stato, viene percepita come un patto oscuro tra le Istituzioni e la criminalità organizzata: quando si prova a rendere umane le carceri, chiudere quelle che non rispettano i diritti dell’uomo o mettere in discussione il 41 Bis , subito rispunta il fantasma della “trattativa”. Una spada di Damocle davvero insostenibile.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/15/asinara-cosi-gratteri-lo-vuole-riaprire/

Don Pino Puglisi

Don Pino Puglisi è assassinato la sera del 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno (era nato a Palermo, nel quartiere Brancaccio, il 15 settembre 1937), ucciso con un colpo di pistola alla nuca mentre torna a casa. Circa due mesi prima padre Puglisi aveva subito un’ intimidazione mafiosa: di notte gli avevano parzialmente bruciato la porta della Chiesa. Da alcuni anni era parroco della Chiesa di San Gaetano, a Brancaccio, feudo della famiglia Graviano, e insegnava religione al liceo classico Vittorio Emanuele di Palermo. In precedenza per 10 anni era stato parroco a Godrano, un piccolo comune del corleonese. Nella parrocchia di San Gaetano padre Puglisi aveva svolto una costante predicazione antimafia. A gennaio 1993 aveva inaugurato il centro “Padre Nostro”, diventato punto di riferimento per i giovani e le famiglie del quartiere. Il sacerdote dava fastidio alla mafia per il suo limpido apostolato, l’ azione contro i trafficanti di droga, le omelie di condanna a Cosa Nostra.

I pentiti hanno rivelato che a ordinare il delitto furono i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere. L’ agguato fu affidato a un ”commando” guidato dal killer Salvatore Grigoli che, dopo essersi pentito, ha accusato come suoi complici Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone, che avrebbero svolto funzioni di appoggio, e il ”reggente” della cosca Nino Mangano che avrebbe organizzato la spedizione di morte. Grigoli ha raccontato che, quando Don Pino Puglisi capì che stava per ucciderlo, disse ”me l’ aspettavo”, e sorrise al suo assassino.

La Cassazione ha reso definitive le condanne all’ergastolo per i fratelli Graviano, boss della borgata di Brancaccio, accusati di avere ordinato l’uccisione del sacerdote e quella a 16 anni per il killer pentito Salvatore Grigoli, che ha confessato di avere sparato a Puglisi. Condanne all’ ergastolo anche per Spatuzza, Lo Nigro, Giacalone e Mangano.

Nel 2006 i teologi consultori della congregazione delle cause dei Santi riconoscono nella morte di padre Puglisi ”i requisiti del martirio”, segnando una tappa importante nel processo di beatificazione del sacerdote.

La figura del sacerdote ucciso dalla mafia è ricordata nel film di Roberto Faenza ”Dritto sulle righe storte” nel quale Luca Zingaretti veste i panni di Don Pino. Alla figura di Puglisi si e’ liberamente ispirato anche ”Brancaccio”, un film tv trasmesso dalla Rai, diretto da Gianfranco Albano e interpretato da Ugo Dighero.

 

 

 

Fonte:

http://www.ansa.it/legalita/static/bio/puglisi.shtml

Quando ricordate Carlo Alberto Dalla Chiesa non dimenticatevi di via Fracchia, di Giancarlo del Padrone e della strage al carcere di Alessandria

Oggi ricorreva il 32° anniversario dalla morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia. Come ogni anno si è tenuta a Palermo la commemorazione: http://www.ansa.it/sicilia/notizie/2014/09/03/dalla-chiesa-commemorazione-a-palermo_e3539c1e-e0d5-464c-ac80-64a6b8d798b4.html

Cerimonia commemorazione eccidio Dalla Chiesa (foto: ANSA)

La memoria è indispensabile per la ricerca della verità ma quando è a senso unico rischia di divenire fuorviante. Scrivo questo perchè forse molti non sanno o non ricordano una parte della storia. Premettendo che i delitti mafiosi vanno in tutti i casi condannati, c’è da aggiungere che il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa non è solo una vittima di un omicidio di mafia. Il suo nome è legato a alcuni episodi di lotta al terrorismo e di repressione di rivolte carcerarie finite in tragedie. Mi riferisco all’eccidio di via Fracchia a Genova in cui quattro militanti delle Brigate Rosse, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli, Riccardo Dura e Annamaria Ludmann. furono uccisi nel sonno dai carabinieri del nucleo Antiterrorismo, guidati da Dalla Chiesa: qui un articolo di Paola Staccioli: https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/genova-1980-via-fracchia-non-lavate-questo-sangue/10151406445538264

33 anni fa il massacro di via Fracchia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel febbraio 1974 durante una rivolta nel carcere delle Murate, a Firenze, rimane ucciso dalla polizia il giovane Giancarlo del Padrone mentre nel maggio dello stesso anno, per fermare un sequestro da parte dei detenuti del carcere di Alessandria, un assalto giudato da Carlo Alberto Dalla Chiesa porta a sette morti.

Qui un articolo di Salvatore Ricciardi: http://contromaelstrom.com/2011/08/01/lo-stato-risponde-con-le-stragi-al-movimento-dei-detenuti-omicidi-e-affossamento-della-riforma-guidano-la-repressione-fanfani-e-moro/

 

Io credo che tutti, a prescindere da quali siano le nostre idee, quando pensiamo al generale Dalla Chiesa dovremmo ricordaci anche di queste stragi se non altro per riflettere sulle contraddizioni dello Stato.

 

D. Q.