SIRIA: LA VOCE DI MANBIJ

La voce di Manbij, prima della “liberazione”

Manbij, prima della guerra (Wikipedia)

(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Intrappolati “come uccelli in gabbia”, esposti ai bombardamenti della Coalizione filo-Usa, agli spari dei cecchini curdi e alle rappresaglie degli ultimi jihadisti dell’Isis rimasti in città: è il dramma che stanno vivendo i circa 150mila civili rimasti a Manbij, la città nella Siria settentrionale, tra Aleppo e Raqqa, alla cui periferia oggi sono entrate truppe arabo-curde con l’appoggio degli Usa.

“Non ci sono posti sicuri per proteggersi dai raid aerei. Ogni civile è considerato un terrorista dagli americani”, afferma, parlando al telefono con l’ANSA, Muhammad Khatib, ex consigliere comunale di Manbij, fuggito a nord di Aleppo ma ancora in contatto giornaliero con i familiari rimasti in città. I gruppi arabo-curdi “sono ancora lontani dal quartiere generale dell’Isis”, afferma Khatib.

Giovedì 21 luglio, le stesse forze vicine alla Coalizione avevano lanciato ai jihadisti un ultimatum di 48 ore, scaduto sabato 23 luglio alle 11 locali . La zona, tra l’Eufrate e il confine turco, è teatro da fine maggio di un’offensiva delle “Forze democratiche siriane”, guidate dall’ala siriana dei curdi del Pkk e sostenute dagli Stati Uniti.

L’assedio di Manbij, centro vitale tra Aleppo e Raqqa – “capitale” dell’Isis in Siria – è descritto da curdi e da Stati Uniti come parte della “guerra al terrorismo”. Ma non tutti la pensano così: “i curdi del Pkk, gli Stati Uniti e l’Isis sono tutti responsabili del dramma che stiamo vivendo”, afferma Mustafa H., avvocato di Manbij anch’esso costretto a fuggire prima dell’inizio dell’assedio.

L'assedio di Manbij (nel cerchio rosso) al 24 luglio 2015. In giallo le forze curdo-arabe filo-Usa; in grigio lo Stato islamico, in rosso le forze governative siriane (Schermata dal sito syria.liveuamap.com)

L’assedio di Manbij (nel cerchio rosso) al 24 luglio 2015. In giallo le forze curdo-arabe filo-Usa; in grigio lo Stato islamico, in rosso le forze governative siriane (Schermata dal sito syria.liveuamap.com)

L’avvocato conferma che in città rimangono circa 35mila minori, come aveva affermato nei giorni scorsi l’Unicef. “L’Isis si confonde tra i civili. Ci sono circa 400 miliziani in città, in mezzo a 150mila persone”. Le fonti affermano che molti jihadisti sono siriani, di Manbij, altri sono stranieri. “Ma moltissimi sono fuggiti a Raqqa”.

Per l’ex consigliere comunale Khatib, la situazione umanitaria è disperata: “E’ impossibile trovare acqua e farina. Chi può fa il pane in casa. Altri hanno scorte di cibo in scatola. E chi ha un pozzo vicino è ancora salvo”, afferma “Ma moltissimi non sanno come arrivare a fine giornata. Moriranno di fame e di sete”, sostiene Khatib.

Nei giorni scorsi, in bombardamenti della Coalizione filo-Usa a nord di Manbij, nel villaggio di Tukhar, un numero imprecisato di civili era stato ucciso. L’Unicef ha detto che nei raid sono morti più di 20 bambini. L’Isis aveva riferito di “160 morti”, la tv iraniana di “140”, l’agenzia siriana Sana di “120”. Attivisti di Manbij fuggiti a nord dicono di aver documentato “210 morti”. Anche ieri i bombardamenti della Coalizione sono stati intensi.

“Almeno 12 raid hanno colpito la città e sono stati colpiti tre ospedali: “l’Amal, il Qrishman e quello pubblico”, afferma Khatib. Manbij è tradizionalmente abitata da una popolazione araba, che non vede in modo favorevole la “liberazione” per mano curdo-americana e la conseguente annessione al nascente Kurdistan siriano.

La propaganda delle “Forze siriane democratiche” e dei loro alleati afferma che all’assedio di Manbij partecipano in prima linea “miliziani arabi” del “Consiglio militare di Manbij”. Per Khatib è “solo una manovra mediatica. Conosciamo questi miliziani. Sono di Manbij, ma sono gente poco affidabile. Si sono venduti al miglior offerente”.

Anche per questo, l’ex consigliere comunale non ha timore nell’ammettere che “ormai agli abitanti di Manbij non importa quale autorità li controlli. Siamo stanchi. Vogliamo solo vivere in pace, senza bombe e senza assedi”. (Ansa, 23 luglio 2016)

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/short-news/la-voce-di-manbij-prima-della-liberazione.html

Da Tripoli a Malmoe in 16 giorni e per 5mila euro

TOPSHOTS Migrants arrive on the shore of Kos island on a small dinghy on August 19, 2015. Authorities on the island of Kos have been so overwhelmed that the government sent a ferry to serve as a temporary centre to issue travel documents to Syrian refugees -- among some 7,000 migrants stranded on the island of about 30,000 people. The UN refugee agency said in the last week alone, 20,843 migrants -- virtually all of them fleeing war and persecution in Syria, Afghanistan and Iraq -- arrived in Greece, which has seen around 160,000 migrants land on its shores since January, according to the UN refugee agency.  AFP PHOTO / ANGELOS TZORTZINISANGELOS TZORTZINIS/AFP/Getty Images ORG XMIT:

(di Lorenzo Trombetta, ANSA). Dalle coste libanesi alla Svezia in 16 giorni e per un costo di circa 5mila euro: Ahmad N., siriano in fuga dalla guerra nel suo Paese, ha trovato lavoro dopo pochi giorni dal suo arrivo rocambolesco nei sobborghi della cittadina svedese di Malmo. E ai parenti e amici rimasti oltremare ha inviato dal suo telefonino foto e racconti di un inaspettato “successo” in terra straniera.

Da un’altra terra straniera, il Libano, Ahmad è scappato a metà agosto con uno dei figli. Oltre alla moglie e ad altri due figli, il 33enne manovale siriano ha lasciato dietro di sé una tenda di plastica e cartone dove da due anni era stato costretto a sopravvivere dopo la sua fuga disperata da Homs.

Un tempo terza città siriana e principale polo industriale del Paese, Homs dal 2012 è stata devastata dalla repressione governativa delle manifestazioni popolari che un anno prima erano scoppiate inedite in varie città siriane.

Il conflitto che ne è seguito è costato la vita, secondo stime Onu, a oltre 220mila persone e ha causato l’esodo di milioni di siriani.

Il vaso dei Paesi confinanti che hanno dovuto subire l’afflusso massiccio di profughi è ormai debordato e sta invadendo il Mediterraneo e l’Europa.

“Il viaggio inizia a Beirut”, racconta all’ANSA Nidal, parente di Ahmad, ancora in attesa di partire dal nord del Libano. “Ci si ritrova di notte per andare con i mezzi pubblici fino a Tripoli”, continua Nidal riferendosi al principale porto nel nord del Paese. Da qui inizia l’avventura per mare. “All’inizio – prosegue Nidal – su ogni barca c’erano 20-25 passeggeri. Nelle ultime settimane, visto che l’affare funziona e le richieste si sono moltiplicate le barche partono anche con 125 persone a bordo”.

In Libano, paese grande quanto l’Abruzzo e con una popolazione di meno di quattro milioni di abitanti, ci sono più di un milione di siriani. I politici al governo a Beirut, direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto siriano, hanno per anni fatto finta di non vedere il problema.

Le inevitabili ripercussioni sul delicato equilibrio libanese si sono fatte sentire. E nei mesi scorsi Beirut ha introdotto delle norme draconiane per limitare l’afflusso e la presenza dei siriani in Libano.

Solo ad agosto, centinaia di famiglie di profughi accampate sul litorale vicino Tripoli sono state sgomberate con la forza dai militari libanesi. Molte famiglie, con donne e bambini anche molto piccoli, hanno dormito per settimane all’addiaccio, altre si sono spostate in montagna ma sempre in condizioni disperate.

“Non ci vogliono in Libano. In Siria non possiamo tornare, prenderemo la via del mare”, avevano detto alcuni di loro lo scorso luglio. “La prima tratta in nave, fino a Mersin, in Turchia, dura venti ore”, riprende Ahmad mentre consulta il gruppo creato su WhatsApp di amici e parenti in attesa di partire.

“Per arrivare fino in Svezia ci vogliono 5.300 euro e 16 giorni. Si passa per l’isola di Samo, poi Atene, la Macedonia, Belgrado, l’Ungheria. Quindi Austria e Germania e c’è chi continua fino alla Svezia”.

Ahmad dice che voleva partire, ma anche che non aveva soldi. “Mi hanno offerto di guidare la barca. Lo scafista non sale a bordo, indica la rotta e ti dice di andar sempre dritto, indicando col dito un punto nell’orizzonte dove dovrebbe esserci la costa turca”.

Il cellulare di Ahmad lo avverte di nuovi messaggi da oltremare. “Mi raccontano di attese interminabili su isole greche, attorno a una chiesa. Di barche ferme per ore in mezzo al mare perchè è finita la benzina”.

Ma anche di “sentieri nel bosco in Serbia”, c’è “chi si perde e torna mille volte al punto di partenza” e chiama ridendo gli amici: “pazienza, domani riuscirò a passare il confine!”. (ANSA, 9 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/short-news/da-tripoli-a-malmoe-in-16-giorni-e-per-5mila-euro.html

SIRIA: LE BOMBE DI OBAMA E QUELLE DI ASSAD

(di Lorenzo Trombetta*, Pagina99“Guarda guarda! Tua moglie ti tradisce nel bosco!”, grida un signore al suo amico. E l’amico: “Non è un bosco, sono solo pochi alberi!”. Con questa freddura, che mostra come l’amico tradito sposti l’attenzione dal tradimento a un dettaglio del racconto, molti siriani hanno deriso stamani l’atteggiamento assunto dal regime del presidente Bashar al Assad di fronte ai raid aerei della coalizione straniera guidata dagli Stati Uniti, e di fronte all’abbattimento da parte di Israele di un caccia siriano sulle Alture occupate del Golan. “Mentre la nostra sovranità nazionale viene violata in modo flagrante, il regime mette le mani avanti, parlando di coordinamento con gli americani e dicendo di esser stato informato dei bombardamenti”, scrive Nizar Mrad.

Per oltre tre anni, Damasco e i suoi alleati regionali e internazionali, hanno usato l’argomento della “sovranità nazionale” per mostrarsi vittime di un “complotto” ordito dai Paesi del Golfo, in primis dall’Arabia Saudita, e dall’Occidente. Adesso, sottolineano in molti in Siria, l’Occidente e i Paesi del Golfo attaccano regioni della Siria con la benedizione, di fatto, sia del regime di Assad sia dei suoi sponsor esterni. E per cercare di nascondere questa contraddizione ribadiscono che gli Usa hanno informato preventivamente Damasco e che esiste “coordinamento” in nome della “lotta al terrorismo”.

“Scusate, ma non capisco qual è la differenza tra ‘aggressione’ e ‘coordinamento’”, si domanda ironico Anas Muslim, dalla regione nord-occidentale di Idlib. “E’ meglio telefonare al ministero degli esteri siriano”, aggiunge in riferimento a linguaggio usato nei comunicati provenienti dal dicastero del regime.

Il responsabile della diplomazia siriana, Walid al Muallim, aveva a fine agosto ribadito il mantra di Damasco: ci uniremo a chiunque ci aiuti a sconfiggere il terrorismo. Dal 2011, il regime indica come “terroristi” chiunque osi mettere in discussione l’autorità della famiglia Assad, al potere da quasi mezzo secolo. Proprio oggi, il raìs ha ripetuto il concetto: “Da anni, la Siria combatte una guerra lanciata dal terrorismo in ogni sua forma… ci uniamo agli sforzi internazionali per combattere il terrorismo”.

Yusuf Musa è un altro siriano comune che si è espresso oggi sui social network. “In che mondo viviamo?”, si è domandato con disperazione. “Il regime terroristico di Assad chiede di partecipare alla coalizione che colpisce il terrorismo nel suo stesso Paese…”.

Perché alcuni siriani definiscono “terrorista” il regime siriano? Michel Shammas, noto avvocato per i diritti umani a Damasco, risponde con un esempio fresco di cronaca odierna e relativo agli incessanti bombardamenti dell’aviazione di Assad su quartieri e sobborghi della capitale: “Oggi è il giorno del terrore. Aerei si accaniscono con missili e mitragliatori dai cieli di Dweila [quartiere a sud di Damasco]. Mia figlia, terrorizzata, è sbiancata… pensava che la casa fosse stata colpita!”.

La repressione poliziesca e militare del regime siriano contro la rivolta prosegue senza sosta dal marzo 2011. Dopo le proteste pacifiche dei primi mesi, la sollevazione si è armata e, nel corso del 2012 e del 2013 si è radicalizzata in senso islamico. Per gli Assad è stato dunque assai più facile legittimare l’uso della forza contro le roccaforti della rivolta affermando che si tratta di “combattere il terrorismo” e “l’estremismo takfira”. In questo quadro, l’aviazione e l’artiglieria lealiste continuano incessantemente a bombardare i sobborghi di Damasco e altre zone dominate dall’insurrezione armata. La novità è che questi attacchi avvengono ora in contemporanea con i raid della coalizione arabo-sunnita filo-Usa.

A tal proposito, Ghassan Yassin, ricorda che “venticinque raid del regime si sono abbattuti sul Qalamun [a nord di Damasco], mentre la coalizione internazionale bombarda il nord della Siria. E’ proprio una guerra contro il popolo siriano… una guerra contro la sua rivoluzione!”. I raid aerei della coalizione non si sono abbattuti solo su postazioni jihadiste nelle regioni del nord e del nord-est ma anche contro basi dell’ala qaidista siriana, la Jabhat an Nusra, nella regione di Idlib.

Ma la Nusra, a differenza dello Stato islamico, combatte apertamente contro le forze lealiste e da mesi è in aperto contrasto con il fronte jihadista. Per questo, è da molti siriani percepita come una componente della ribellione armata anti-Assad. E il fatto che gli Stati Uniti stiano colpendo la Nusra è per molti una prova dell’intesa sottobanco tra Washington e Damasco. “Decine di raid su Idlib… gli Usa offrono copertura aerea ad Assad”, scrive Abdel Qader da Idlib, dove oltre dieci civili sono morti nei raid della coalizione straniera. Gli fa eco Obada da Homs: “E’ cominciata la campagna crociata per salvare Assad!”.

In pochi però a Idlib si rendono conto che quella che loro descrivono come una “campagna crociata” è in realtà lanciata in modo massiccio dai Paesi del Golfo, nominalmente musulmano-sunniti. Ecco perché altri siriani comuni hanno accusato direttamente le monarchie del Golfo che, assieme alla Giordania, partecipano ai bombardamenti in Siria. Tra queste spiccano l’Arabia Saudita e il Qatar, rivali degli Assad e sostenitori, almeno a parole, della rivolta siriana. “Perché prendersela con gli Stati Uniti? Pensano solo ai loro interessi… dovremmo guardare invece agli Stati della coalizione: l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati, il Bahrain, la Giordania”, scrive Muhammad Hammud. “Solo a Idlib venti civili… con esplosioni che rimbombano in ogni angolo della Siria…Un massacro così nemmeno Assad era riuscito a compierlo! Che gli arabi siano maledetti! E che si fottano l’Arabia Saudita, il Qatar e chiunque partecipa all’attacco. Fanculo tutto e tutti!”.

Più pacata l’osservazione di Muhiy ad Din Isso, attivista del movimento pacifico di protesta: “Per me non c’è differenza tra il regime di Assad, lo Stato islamico, la Jabhat Nusra e tutte le altre fazioni estremiste che tagliano la testa e contribuiscono a far sbranare i siriani. Un terzo degli abitanti siriani è in fuga a causa del terrorismo di due Stati, lo Stato di Assad e lo Stato islamico. Per me la patria non è cumulo di macerie. Ma libertà, dignità e cittadinanza”. Qualcuno, dunque, non dimentica gli slogan della sollevazione popolare del 2011. (Pagina99, 24 settembre 2014)

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*Zanzuna (pseudonimo) ha contribuito a questo articolo raccogliendo diverse testimonianze.

Citato in http://www.sirialibano.com/siria-2/non-bosco-pochi-alberi.html

Leggi anche quest’altro articolo sempre di Lorenzo Trombetta:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-bombe-nuove-bombe-vecchie.html

 

SIRIA, QUEI GIORNALISTI UCCISI CHE IN POCHI RICORDANO

Muhammad al Khatib, uno dei giornalisti siriani uccisi (Rsf)

                                                       (di Lorenzo Trombetta). Non decapitati ma freddati con colpi di arma da fuoco alla testa, torturati a morte, sequestrati e mai più tornati a casa: sono le centinaia di giornalisti e fotografi arabi, per lo più siriani, uccisi nelle violenze in corso in Siria e molto spesso dimenticati dai grandi media, più attenti a raccontare le storie dei reporter occidentali morti nel martoriato Paese mediorientale.

Secondo l’Ordine siriano dei giornalisti, formato da operatori dell’informazione non allineati al regime di Damasco, dal 2011 a oggi sono stati uccisi 244 cronisti e fotoreporter, siriani e arabi. Ben quattro, tre siriani e un egiziano, sono morti nel giugno scorso. Reporters Sans Frontiers conta decine di giornalisti locali uccisi dall’inizio dell’anno.

Il regime siriano e i jihadisti dello Stato islamico sono indicati dalle fonti come i principali mandanti ed esecutori di questi crimini. Una delle vittime, il 21enne Mutazbillah Ibrahim, lavorava a Raqqa, nel nord, come reporter per il gruppo editoriale Shaam quando membri dello Stato islamico lo hanno rapito, torturato per due mesi e poi giustiziato il 4 maggio scorso.

La salma è stata consegnata alla madre tre giorni dopo l’uccisione. Ahmad Hasan Ahmad, aveva 29 anni e lavorava come fotografo per l’agenzia di notizie cinese Xinhua. E’ morto a Damasco in circostanze mai chiarite colpito da colpi di arma da fuoco alla testa il 4 giugno 2014. Il suo collega egiziano, il reporter Nuri Abdellatif, era arrivato nella capitale per seguire i festeggiamenti per la “rielezione” del presidente Bashar al Assad.

E’ stato colpito da un colpo di mortaio sparato da miliziani contro un corteo lealista. Il 27 giugno scorso è stato invece ucciso a Daraa, nel sud della Siria, Muhammad Taani, reporter dell’agenzia di notizie locale Smart. Si è spento dopo sei giorni di coma passati in un ospedale giordano dove era stato ricoverato per le ferite riportate durante un bombardamento aereo del regime.

I jihadisti dello Stato islamico hanno ucciso nel giugno scorso Bassam Rayyes, 27 anni, che lavora come reporter nelle zone attorno a Damasco solidali con la rivolta. Il suo corpo, con segni di tortura e un foro di arma fa fuoco al petto, è stato ritrovato il 30 del mese assieme ad altri corpi senza vita in un’abitazione alla periferia nord-orientale della capitale, dove si erano acquartierati i jihadisti prima di ritirarsi cacciati da insorti locali.

E’ invece morto sotto tortura in una delle prigioni del regime il 33enne Muhammad al Khatib (foto in alto). Era stato arrestato l’8 gennaio 2012 a Damasco dopo che aveva incontrato membri della commissione d’inchiesta della Lega Araba, giunta in Siria in quel periodo. Torturato a lungo nel carcere di Saydnaya, vicino la capitale, Khatib è morto il 18 giugno 2014. La salma non è mai stata consegnata ai suoi cari, che hanno ricevuto dalle autorità siriane solo la carta d’identità del giovane reporter. (ANSA, 3 settembre 2014)

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-quei-giornalisti-uccisi-in-pochi-ricordano.html

SIRIA: ISIS E L’INFIBULAZIONE DEI CERVELLI

Dal blog di Asmae Dachan:

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Cosa può legittimare e giustificare il silenzio del mondo di fronte al genocidio in corso in Siria, che in 40 mesi ha causato più di 200 mila vittime accertate, tra cui oltre 15 mila bambini? Nulla, assolutamente nulla e allora è importante creare un capro espiatorio. L’aviazione di bashar al assad sta bombardando le città siriane con i barili Tnt, distruggendo interi quartieri, ospedali, acquedotti, scuole e luoghi di culto, provocando la fuga di oltre 4 milioni di persone (3 milioni si trovano nella condizione di profughi nei paesi limitrofi e circa 1 milione sono partiti per altre destinazioni) e generando 9 milioni di sfollati interni (gente senza più una casa) “perché sta colpendo i terroristi”. Già, perché secondo quanto riportano i media siriani e chi sostiene ancora il regime di Damasco in Siria è scoppiata un’improvvisa epidemia di terrorismo che ha contagiato i bambini, le donne, i giovani, gli anziani, per cui tutti meritano di morire. Via allora, si rada al suolo l’intero paese, si proceda con l’arresto, la tortura e l’uccisione degli oppositori pacifici e di quelli che hanno disertato per non uccidere il proprio stesso popolo e al contempo si liberino tutti quei criminali detenuti da anni per reati legati al terrorismo. Questi ultimi si sono organizzati, sono stati pagati e armati, con il bene placito del regime e la complicità di servizi segreti internazionali e governi che hanno tutto l’interesse a mantenere lo stato di instabilità sociale, politica, economica in Siria.

E così i civili siriani, che nel 2011 hanno dato il via ad un movimento pacifico, laico, eterogeneo, comprensivo di tutte le componenti etniche e religiose della società siriana, oggi si trovano a dover subire i bombardamenti e le incursioni del regime da un lato e dall’altro le aggressioni, le violenze, le barbarie dei terroristi di daesh/isis il cui capo si è anche autoproclamato califfo.

I media internazionali che alla Siria non hanno mai riservato lo spazio che questo dramma richiede, i media che hanno sempre giustificato il fatto di non condividere e diffondere video girati da citizen reporter che documentano in tempo reale la situazione negli ospedali da campo, nelle città colpite dai barili, nelle tendopoli perché “non si possono verificare le fonti”, continuano a citare le agenzie del regime e a dare la più ampia visibilità possibile a isis e al suo capo criminale al baghdady (evidentemente considerato attendibile). In questo modo, sulla Siria si sente solo parlare del giuramento di assad per il prossimo settennato e al contempo delle minacce alle minoranze religiose e alle donne del famigerato isis/califfato. Quindi? La conclusione, per chi della Siria sa poco o nulla, sarà quella di dire che “assad non è poi così male e così cattivo ed è sempre meglio lui che i terroristi fondamentalisti persecutori”. Concetti che vengono ripetuti e argomentati anche da personaggi nostrani…

In questo quadro delirante trovano voce solo quelle che per milioni di siriani e di donne e uomini liberi nel mondo – che non ci stanno a farsi prendere in giro – sono le due facce della stessa medaglia: assad e il suo terrorismo di stato, isis e il terrorismo internazionale in finti abiti religiosi. A tal proposito basta ammirate le vignette disegnate da artisti siriani, come quelli di Kafranbel (https://www.facebook.com/kafrev?fref=ts) per capire cosa pensi veramente la Siria su questo argomento.

Non ci si dimentica di nulla? Già, ma è una dimenticanza “collaterale” … in fondo cosa sono milioni di civili inermi? Da che mondo è mondo in ogni conflitto sono i civili, gli ultimi, i dimenticati a pagare e lo fanno in silenzio, per cui anche ai siriani tocca la stessa sorte. Qualcuno sa quante persone sono cadute ieri in Siria? No, perché i media non ne parlano, non fa più notizia, non ha mai fatto notizia (non dimentichiamo che l’Onu ha cessato la conta dei morti e questo la dice lunga…). Nessuno mostra le immagini dei bombardamenti, che arrivano incessantemente attraverso la rete, nessuno mostra le immagini dei civili pelle e ossa nelle città assediate, nessuno raccoglie le denunce dei medici che di fronte a più di 1 milione di feriti, tra cui circa 650 mila mutilati e a migliaia di casi di malati oncologici, diabetici ecc. rimasti senza cure non sanno più cosa fare, nessuno ascolta gli appelli delle donne che non hanno più nemmeno acqua potabile per dissetare i propri figli. La gente non deve sapere del dolore e delle sofferenze dei civili. La Siria deve morire e deve farlo in silenzio.

Si alzano così solo le bandiere e gli inni all’odio; le preghiere per la pace e le richieste d’aiuto cadono nel vuoto. Così l’alter ego del regime, isis/califfato si è invece guadagnato le copertine dei media di tutto il mondo con la sua nuova uscita: infibulazione alle donne di Iraq e Siria. Come se le donne di questi due paesi non abbiano già subito abbastanza: senza più una casa, senza più alcun sostegno, stuprate, rese vedove, costrette a tumulare i propri figli a causa delle violenze del regime, ora si trovano minacciate da questa nuova barbara, disumana, blasfema sentenza. Blasfema, sì, perché ormai dovrebbero saperlo anche i muri che l’infibulazione è una pratica abominevole che nulla ha a che vedere con l’islam, ma evidentemente dire che è un insegnamento del Profeta (bestemmia) è funzionale ad alimentare il clima di odio anti-islamico e a ritrarre il criminale al baghdady come l’incarnazione dell’”islam fondamentalista, persecutore misogino e criminale che il bravo assad combatte a suon di bombe”.

È evidente che questi criminali non conoscono la Siria e i siriani se pensano che avranno campo libero nel voler allungare le loro insulse mani sulle donne: gli uomini e le donne siriani pagheranno anche con la vita pur di non farli avvicinare. Ma in fondo è quello che loro vogliono, nuove vittime, nuove morti. L’infibulazione non fa parte della cultura siriana ed è un’abominevole violenza che non trova alcun riscontro negli insegnamenti dell’islam e questo bisogna ripeterlo fino allo sfinimento perché la gente capisca. Bisogna che la politica, la società civile, gli intellettuali comprendano che questi terroristi sono funzionali ai regimi liberticidi e che catalizzando su se stessi e sui loro deliri l’attenzione del mondo tolgono importanza al dramma taciuto di un popolo che continua a morire sotto le bombe, che continua a fuggire e che spesso, cercando di raggiungere l’Europa, non trova altro che la morte in mare.

Ma la cosa forse più importante è che la notizia di questo decreto, ripresa, amplificata, pubblicata e commentata ovunque, si basa su un fake. A tal proposito si legga la ricostruzione minuziosa e approfondita del collega Lorenzo Trombetta: http://www.sirialibano.com/short_news/infibulate-tutte-le-donne-come-un-falso-fa-notizia.html. L’ennesima bufala mediatica, come quella della crocifissione dei cristiani (vedi http://www.diariodisiria.wordpress.com/2014/05/10/siria-sulla-croce-lumanita-intera/) costruita ad arte per distogliere la già flebile attenzione sul dramma dei civili e alimentare nella gente la convinzione che in Siria sia in atto un’offensiva contro le minoranze a cui il regime si trova a dover rispondere. Naturalmente molti discutibili personaggi hanno colto la palla al balzo per far parlare di sé denunciando questo famigerato proclama, pur non essendosi mai interessati al genocidio in atto da più di tre anni in Siria.

Anche in questo caso, le macchinazioni del regime e dei suoi sostenitori, compresi quindi coloro che questi mercenari barbari li stanno pagando, hanno prodotto un’infibulazione dei cervelli e delle coscienze della gente. Quella gente che ora grida giustamente contro l’infibulazione ma che in 40 mesi non si è accorta degli stupri e delle torture subite dalle donne, persino dalle bambine per mano degli uomini di assad. Quella gente che ora applaude soddisfatta dicendo “come volevasi dimostrare, l’alternativa ad assad è solo il terrorismo fondamentalista”. Quella stessa gente che è pronta a gridare il suo dissenso per altri drammi che si stanno consumando nel mondo, come il genocidio a Gaza, ma che sulla morte quotidiana di civili siriani non si pronuncia e arriva persino a negare ciò che sta accadendo.

La Siria sta morendo con i suoi figli, i suoi giovani, le sue donne e i suoi uomini, la sua storia, le sue città. Non fingiamo di non saperlo. Bisogna gridare contro l’infibulazione e contro tutti i crimini commessi ai danni dei civili, ma non farlo a spot, farlo prendendo una posizione ferma e urgente, chiedendo che si parli del dramma dei civili e si ascoltino le loro voci, senza lasciarle soffocare dalle grida dei violenti guerrafondai. I piccoli angeli morti nella sacralità delle loro case, i giovani uccisi in piazza mentre cantavano libertà, gli innocenti inghiottiti dal mare mentre tentavano di fuggire dalla morte, meritano rispetto e considerazione, non di finire nel dimenticatoio o, peggio ancora, di essere inseriti nell’elenco degli “effetti collaterali di una guerra”. La guerra è crimine contro l’umanità intera.

 

 

Fonte:

http://diariodisiria.wordpress.com/2014/07/24/siria-isis-e-linfibulazione-dei-cervelli/

SIRIA: STORIA DI UNA PERCENTUALE ‘BULGARA’

4 giugno 2014

 

Hafez al Asad, al potere dal 1970 al 2000

 

Bashar al Asad rimane formalmente presidente della Repubblica araba di Siria fino ad almeno il 2021, ottenendo l’88,7% dei voti alle “elezioni” svoltesi il 3 giugno 2014. L’affluenza alle urne è stata del 73%.

Secondo i conteggi ufficiali non verificabili in maniera indipendente, sono undici milioni i siriani che hanno votato. Lo stesso numero di siriani aveva detto “sì” nel 2007 al referendum confermativo per la rielezione di Asad.

Per la prima volta dopo decenni, non è più un nove la prima cifra delle decine della percentuale della vittoria di un Asad ai vertici del regime.

L’altra novità di queste “elezioni” è stata rappresentata dalla presenza di altri candidati: Maher Hajjar (4,3%) e Hasan Nuri (3,2%) si sono prestati a interpretare il ruolo di “sfidanti” per assicurare quel pizzico di “pluralismo” alle consultazioni.

Andando a ritroso nella storia delle “vittorie elettorali” degli Asad, al potere dal novembre del 1970, si scopre che fino a oggi la percentuale più bassa si era registrata sette anni fa: per Asad c’erano stati ‘solo’ il 97,6% dei “sì”.

Nel 2000, il novantanove-virgola-sette-per-cento. Quella era però la “prima” di Asad figlio dopo la morte del padre Hafez (foto in alto), il “duce immortale”. Difficile pensare a una percentuale più bassa.

Ma Hafez era stato confermato presidente solo un anno prima, nel 1999, con la cifra tonda del 100%. Così andò anche nel 1991 e nel 1985. Mai sotto il cento-per-cento dal 1985 al 1999: non male.

Per registrare una leggera inflessione bisogna tornare al 1978: 99%. Un altro ‘imperfetto’ 99% si registrò nel marzo del 1971, quando Asad padre si presentò per la prima volta al “popolo” per chiedere la conferma della decisione del Baath e del parlamento.  Era solo l’inizio.

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/short-news/storia-percentuale-bulgara.html

 

SIRIA: SULLA CROCE, L’UMANITA’ INTERA

Dal blog di Asmae Dachan

1399182009-ipad-267-0Uomini crocefissi, bendati, esposti allo sguardo disattento dell’umanità intera. La terribile immagine che li ritrae fa presto il giro del mondo, corredata di didascalia: cristiani crocefissi in Siria. Il 2 maggio arrivano le parole del Papa: “Ho pianto quando ho visto le immagini di cristiani crocefissi in un certo paese non cristiano”. I media dormienti sul dramma siriano, sulle oltre 150 mila vittime, i 9 milioni di sfollati interni, i 3 milioni di profughi, i bombardamenti quotidiani, d’improvviso si svegliano e tutti parlano di Siria, per gridare alla persecuzione dei cristiani, alcuni tornando persino a tessere le lodi di bashar al assad quale tutore delle minoranze contro la minaccia del terrorismo fondamentalista. Media iraniani, anch’essi ferrei sostenitori di assad, dicono invece che le persone crocefisse siano sciiti, gridando a loro volta alla persecuzione, omettendo di dire che da tre anni le milizie hezbollah, così come quelle di al qaeda, si sono infiltrate in Siria per combattere una loro guerra parallela, ai danni dell’inerme popolazione civile.

Le persone su quelle croci sono state vittime di un’atrocità ignobile, da condannare. Ma su quelle croci, dopo essere stati uccisi, non c’erano dei cristiani, bensì dei musulmani sunniti. Lo hanno affermato fonti locali, smentendo sul web quanto circolava ormai in modo inarrestabile sul circuito mediatico internazionale, che evidentemente non si è preoccupato di fare la dovuta verifica delle fonti, ma ha preferito alimentare la paura della deriva settaria, con l’inevitabile aggravarsi della disaffezione dell’opinione pubblica sul dramma siriano. Tramite contatti locali, avviando le dovute verifiche, io stessa ho avuto la conferma che non si trattava di cristiani – anche se la cosa non è di certo meno grave – e il 4 maggio ho twittato: “#Siria: uomini uccisi e crocefissi in piazza dai terroristi dell’isis. I media parlano di cristiani, ma sono giovani musulmani della resistenza”.

Nello stesso giorno il collega @Fouad Roueiha scriveva sulla sua pagina Facebook Houna Souria: “Ho realizzato un’intervista con uno degli animatori della campagna “الرقة تذبح بصمت Raqqa is Being Slaughtered Silently” (Raqqa viene sgozzata nel silenzio). Eccovene un breve riassunto.
Le esecuzioni risalgono a tre giorni fa, dodici in tutto di cui sette solo nella città di Raqqa, le altre nei dintorni e tutte per mano di ISIL. Tra i 7 di Raqqa, 5 erano minorenni e dopo la fucilazione (cui hanno assistito anche i famigliari, inermi) i cadaveri sono stati restituiti, il più giovane aveva 12 anni.  I due crocefissi erano adulti, si trattava di due combattenti dell’esercito libero arrestati tempo addietro, i loro corpi sono stati esposti in piazza per tre giorni, appesi a quelle croci.L’accusa per tutti era quello di aver tentato di piazzare ordigni in città (accusa destituita di ogni fondamento, i 5 minori erano civili e gli altri due erano prigionieri), e si trattava di mussulmani sunniti, per quel che conta(…)”.

Una puntuale e precisa ricostruzione dei fatti è arrivata l’8 maggio sul sito SiriaLibano di Lorenzo Trombetta, che tra l’altro riporta le parole di un sacerdote intervistato dall’Agenzia Fides “Tali notizie servono a diffondere terrore, soprattutto hanno l’obiettivo di innescare una guerra settaria”. http://www.sirialibano.com/short-news/quando-morire-i-cristiani.html

Dunque ad essere crocifissi in Siria sono stati siriani sunniti. Qualcuno si sente forse meglio? Non so chi piangerà per loro, se mai arriverà una rettifica, una dichiarazione che dica che la loro è comunque una morte ingiusta, atroce, che fa piangere, anche se non fanno parte di una minoranza. In mezzo a tanto clamore e tanta confusione mediatica, in mezzo a tanta strumentalizzazione, c’è una sola certezza: la popolazione siriana, in tutte le sue componenti etniche e religiose, continua ad essere massacrata nel silenzio e nell’indifferenza nel mondo. Si parla di Siria solo con riferimento alle armi chimiche e alla deriva settaria, trascurando gli allarmi che riguardano la situazione dei civili, in particolare dei bambini. Intanto, assad il prossimo 3 giugno, dopo le ennesime elezioni farsa, si autoproclamerà presidente della Siria, continuerà ad occupare la sua poltrona mentre i civili muoiono, fuggono, soffrono per le privazioni. Il regime usa la fame come arma e ogni giorno sgancia sui centri abitati decine di barili esplosivi, mentre le bande di terroristi armati proseguono impunite a sterminare la popolazione e la resistenza armata è sempre più fragile, ma tutto ciò non fa rumore.

E allora dico: su quella croce, in Siria, è finita l’umanità intera. Ci sono finiti in primis i siriani in Siria, quelli che nel 2011 hanno dato vita alle manifestazioni pacifiche per chiedere la fine del regime e che hanno subito per questo una sanguinaria repressione; ci sono finiti anche quelli che, vittime della loro paura, sono rimasti succubi del potere centrale: gli uni, come gli altri, hanno pagato con il sangue e oggi non hanno più una patria. Ci sono finiti i siriani della diaspora, che dopo mezzo secolo di regime e oltre tre anni di genocidio ancora non sanno dialogare serenamente, né costruire un’opposizione forte, pluralista, unita. Ci sono finite le persone che hanno rinunciato ad indignarsi, a provare a cercare una verità che andasse oltre le ideologie, guardando al dramma siriano dal punto di vista dei civili inermi, assistendo, invece, immobili al loro genocidio. Ci è finita la verità, che come in ogni guerra è la prima vittima ad essere sacrificata. Su quella croce, che al di là dello specifico significato religioso, indegnamente strumentalizzato e offeso dalle azioni dei terroristi, è diventata per molti il simbolo del sacrificio e della passione, sono finiti il sogno di libertà del popolo siriano e con esso il sogno di una lotta pacifica e disarmata per rovesciare un tiranno.

Cosa fare, allora, per capire cosa accade in contesti così complessi? Bisogna partire dal ripudio di tutti gli integralismi, gli estremismi, i fanatismi, di qualunque tendenza siano e ragionare come figli di una stessa umanità, con tutte le sue sfumature, per evitare che civili inermi vengano strumentalizzati e continuino a pagare per i giochi di potere. Voglio dire che la Siria è anche un paese cristiano, essendo stato la culla delle più antiche comunità cristiane del mondo, così come è un paese islamico, con l’80 per cento della popolazione di fede musulmana sunnita, ma soprattutto è un Paese maidani, termine che letteralmente significa civile, con cui i siriani indicano un modello di società pluralista, partecipata, ugualitaria e laica. Ho fatto mie, parafrasandole, le parole del caro Padre Paolo Dall’Oglio, perché sono “Innamorata di Gesù e credente nell’Islam”, pensando a lui e a tutti quelli che credono, amano, rispettano l’altro e vengono perseguitati, minacciati, uccisi da chi strumentalizza il nome di Dio. Per il bene di tutti, per rendere onore a chi è morto per la libertà, per rendere onore a chi è morto senza un nome, senza un perché, dobbiamo lavorare per un’unica finalità: il rispetto dei diritti umani, quale fondamento di ogni libertà e di ogni società civile.
Fonte:

http://diariodisiria.wordpress.com/2014/05/10/siria-sulla-croce-lumanita-intera/