Intervista a callme_effe_, drag performer “demoniaco”

(Immagine mia)

1)     Tu sei, da qualche tempo, un drag performer. Come sei arrivato a cimentarti in questa forma d’arte?

Un po’ per caso, un po’ per passione. Fin da quando ero bambino ho sempre fatto teatro, il primo ruolo a 6 anni, poi le esperienze nella scuola secondaria ed infine tanti anni di spettacolo trascorsi con una compagnia teatrale amatoriale fondata con alcune persone amiche (ahimè, ormai sciolta). Insomma, sono stato più su un palco che sul divano di casa. Per me fare teatro è da sempre stato un modo per esprimere il proprio sé tramite quell’armatura che è il personaggio. Nel 2020, subito dopo le prime riaperture post-pandemiche, mi sono avvicinato al mondo del clubbing queer: prima come fotografo, poi come presentatore/vocalist ed infine come performer. Il richiamo del palco cominciava ad essere molto forte. Quell’anno eravamo già alla dodicesima stagione di Drag Race, l’arte drag era diventata un fenomeno mainstream (con tutti i vantaggi e svantaggi che questo comporta) e allora mi sono detto: perchè non cimentarsi con questa particolare forma d’arte? Perché non creare un personaggio mio? Anziché continuare ad interpretare i personaggi creati da qualcun altro. Perché no? E da quel momento è cominciata la gestazione di Effe, il mio personaggio drag.

2)     Il tuo è un personaggio particolare. Ci racconti com’è nato e perché?

Effe non è il tipico personaggio drag con sembianze femminili, outfit coloratissimi, parrucche esagerate e accessori stravaganti. Effe è un demone agender uscito direttamente dall’inferno, il mio inferno personale. Insomma, non credo ci sia bisogno di dirlo, ma io ho visto tutti i film di Tim Burton e le serie di Ryan Murphy! E durante l’adolescenza ero anche un po’ emo! Come molte persone queer durante l’adolescenza ho capito di essere diverso. Vivevo nel mio paesino d’origine che non potrei definire diversamente se non democristiano, e non solo perché ha dato i natali a Giulio Andreotti, ma perchè lì vige la regola perentoria del “si fa, ma non si dice”. Il mio problema, però, era che io non ci facevo, io c’ero. Anche se all’epoca non avevo ancora fatto coming out, e non conoscevo neanche i termini adatti per descrivermi, sprizzavo ambiguità da tutti i pori dilatati per l’acne giovanile. Rispetto a molte persone queer che affermano di sentirsi “sbagliate”, io non ho mai faticato ad accettare la mia identità sessuale, però, mi sentivo “malvagio”. Si, malvagio, un misto tra il senso di colpa per essere diverso e la consapevolezza che la mia diversità avrebbe fatto soffrire le persone a me care. Con il coming out di fatto è andato così. Mi sentivo così intimamente malvagio che ogni tanto mi facevo il segno della croce giusto per essere sicuro di non essere posseduto dal diavolo. Questa percezione di me come creatura malvagia me la porto avanti da tutta la vita. Effe non è altro che una sintetizzazione di questi sentimenti. In pratica ho preso il demone che mi sentivo interiormente e l’ho portato all’esterno tramite il trucco e gli outfit di scena. Mi sono ribaltato come un piumino double face. Portare Effe al di fuori è stato un processo di catarsi, ho partorito e liberato l’idea che avevo di me. Stare a contatto e mostrare la mia interiorità (non interiora) mi aiuta ad esorcizzare la paura che ho di me stesso. Effe è il ritratto nascosto in soffitta dell’anima di Fabrizio. Tant’è che quando guardo le mie foto in drag mi riconosco tanto, se non di più, di quando guardo le foto di Fabrizio.

3)     Il tuo è un drag estetico, politico o entrambe le cose? Ti reputi un attivista?

Il drag è sempre politico, anche se non lo si fa intenzionalmente. Il drag è una performance di genere, si gioca con la propria identità e con i costrutti sociali relativi al genere (il sistema binario uomo/donna), quindi, che lo si voglia o no, il drag è intrinsecamente politico. Non credo sia un caso che i conservatori reazionari di tutto il mondo temono i performer drag come Superman teme la kryptonite rossa (vedi quello che sta accadendo in USA con le restrizioni contro gli spettacoli drag). Il drag rappresenta un elemento di rottura in quell’ordine artificioso che è il binarismo di genere. Per questo terrorizza tutte quelle persone reazionarie che, in nome di un fantomatico ordine, vorrebbero mantenere in vita artificiosamente quel costrutto sociale che è il binario uomo/donna, che per inciso ormai fa acqua da tutte le parti. Nel 2023 chi glielo va a spiegare ad una bambina che dovrebbe ambire a fare l’infermiera e non l’ingegnera? Questo è accanimento terapeutico. Io sono a favore dell’eutanasia, accompagniamo il binarismo di genere verso una morte dignitosa!

L’estetica infine è solo un mezzo con cui cerco di dare forma ai sentimenti e alle idee che mi frullano in testa, che per lo più riguardano i temi civili e sociali che mi stanno a cuore.

Io al massimo mi posso definire un divulgatore. Attivista è un termine che da qualche anno a questa parte mi imbarazza. Quando penso alle persone attiviste di una volta (oddio che frase da vecchio!) la mente va subito a persone come Marsha P. Johnson, Sylvia Rivera, Harvey Milk, Mario Mieli, Angelo Pezzana, Massimo Consoli, Mariasilvia Spolato, Porpora Marcasciano, Marco Bisceglia, Fernando Aiuti. Persone fortemente connesse con la loro comunità, che si prendevano cura di quest’ultima. Quando penso alle persone che fanno attivismo oggi mi viene da definirle piuttosto influencers. Persone totalmente concentrate su se stesse e i loro traumi, sulla polemica del giorno, i likes, e che tra un callout e l’altro cercano sempre di rifilarti il loro libro. La comunità non viene più vista come costituita da sorelle, fratelli e siblings, l’altrə è solo un nuovo potenziale follower. Intendiamoci, ciò non è colpa di chi fa l’influencer parlando di certe tematiche, dai movimenti del 60 in poi ci sono stati più di 60 anni di liberismo e l’avvento dei social che hanno esacerbato una certa tendenza occidentale all’individualismo. Per me le vere persone che fanno attivismo sono quelle che si ritrovano a fare volontariato nelle associazioni. Quelle che quando vengono invitate sul palco del Festival di Sanremo salgono con la tshirt della taglia sbagliata a fare da sfondo all’influencer milionaria Chiara Ferragni vestita haute couture.

4)     Nei tuoi spettacoli e negli eventi a cui partecipi sfoggi solitamente un look kink con abbigliamento in latex. E’ soprattutto un’esigenza di scena o anche un tuo fetish?

Come detto, il mio drag è molto intimo e personale. Io sono una persona kinky e questo non poteva che manifestarsi anche nel mio drag. Ciò mi ha creato anche qualche problemino con le serate queer, perché questo gigante oscuro (sono alto 187 centimetri senza scarpe) stonava in mezzo a quell’arcobaleno che sono gli spettacoli drag classici. In Italia sono uno dei pochi performer drag a lavorare nel clubbing fetish e BDSM e ad aver costruito e incentrato la propria estetica intorno al latex (rubber o lattice). Chi frequenta gli ambienti fetish sa che occorre seguire un codice, una giacca non è mai una semplice giacca, ma deve essere realizzata in un certo modo, con certi dettagli, certi colori, avere un certo taglio, etc. Io prendo questi elementi codificati e li abbino, rimescolo e decostruisco in funzione dello spettacolo o del messaggio che voglio portare sul palco. Includendo accessori e oggetti di scena tipici delle pratiche BDSM. Nel mio piccolo cerco di queerizzare i codici estetici del fetish.

Per il latex provo una sincera attrazione sensoriale. Non è moltissimo che ho scoperto questo materiale, ma me ne sono subito innamorato. Il mio primo approccio è stato durante un fashion show del brand Black Crystal Latex durante la premiere del Torture Garden 2022, in cui mi sono esibito. La prima volta che l’ho indossato sono stato colpito subito dal suo odore e dalla sensazione della pelle a contatto con questa membrana estremamente liscia. Quando indossi un abito in latex sei vestito e contemporaneamente nudo. Nonché, dalla sua lucidità. I capi che indossavo erano di un nero profondissimo e pur così luminoso. Lo trovo misterioso, oscuro, suadente e ovviamente sensuale, che poi è anche lo stile del mio personaggio.

5)     C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

Comprate accessori fetish, è un regalo che vi fate e che donate agli altri. Divertitevi, esploratevi, decostruite le vostre convinzioni sul genere, cercate di essere persone libere per quanto possibile e per rimanere aggiornati sui prossimi eventi fetish e queer seguitemi sul mio canale Instagram: @callme_effe_

Intervista a Marco Bastian Stizioli su Infezioni Sessualmente Trasmissibili, Salute Sessuale e Prep

Foto mia scattata al Mattatoio di Roma durante la Mostra per i 40 anni del Circolo Mario Mieli

1)          Da qualche anno ti occupi di divulgazione sui social network dove parli specialmente circa i diritti sessuali, le IST e la PREP. Com’è nata quest’attività?

Ho sempre avuto difficoltà a trovare informazioni sulla salute sessuale, ma soprattutto non sapevo mai a chi rivolgermi. Pensando di non essere l’unicə ad

avere questa difficoltà, ho deciso di mettere a frutto le mie competenze digitali per condividere informazioni, scrivere la newsletter e fare le grafichette su

Instagram a tema prevenzione.

Immagino che dall’esterno la mia comunicazione online si possa definire

divulgazione. Preferisco però definirmi come operatore alla pari (o community- based come si dice in inglese). Non sono infatti un operatore sanitario che cala le informazioni dall’alto, ma un membro della comunità LGBTQIA+ che prova a

  • utilizzare i social per raggiungere e supportare la sua comunità dando informazioni su dove fare i test IST e su come proteggersi;

prima del test HIV o con Plus Roma e PrEP in Italia dove tra le tante cose ci occupiamo anche di fare ricerche sui centri PrEP, per mostrare alle

istituzioni quanto sono carenti i servizi sul territorio;

  • fare formazione per trovare insieme la risposta alla domanda “come prenderci cura della salute sessuale”.

2)          Cosa s’intende quando si parla di PREP? Quando e perché si usa? Va bene sia per le persone con il pene sia per quelle con la vagina? Ci sono differenze tra i sessi?

PrEP sta per Profilassi Pre Esposizione, un farmaco che protegge dall’HIV. Si

può usare sempre: sia se si hanno rapporti sessuali senza preservativo, sia se si vuole una protezione in più. L’unica differenza tra persona con pene e con

persone con vulva è nella modalità di assunzione.

Si assume infatti una compressa al giorno e dopo sette giorni sarai protettə dall’HIV.

Se hai un pene, puoi iniziarla anche con 2 compresse due ore prima di un rapporto sessuale e interromperla due giorni dopo l’ultimo rapporto sessuale.

Se hai una vulva, devi invece interromperla sette giorni dopo l’ultimo rapporto sessuale. Il farmaco ha infatti bisogno di tempo per essere efficace nei tessuti vaginali.

Il confronto con l’infettivologo può aiutare a capire quale è la modalità migliore per noi. Da poco la PrEP è diventata gratuita. Sul nostro sito puoi trovare i centri che la prescrivono.

All’interno del protocollo PrEP sono previsto inoltre controlli periodici per

infezioni come gonorrea, clamidia e sifilide così da prenderci cura della propria salute a 360 gradi.

Ricordo che la PrEP serve se facciamo sesso con persone delle quali non conosciamo lo stato sierologico (se vivono con HIV o meno).

Non abbiamo bisogno della PrEP se facciamo sesso con una persona che vive con HIV e segue la terapia. Grazie alla terapia infatti la carica virale del virus diventa non rilevabile e dunque non trasmissibile. In gergo si dice U=U, Undetectable = Untrasmittable (Non rilevabile = Non trasmissibile).

Non avrebbe senso usare la PrEP se già la terapia fa in modo che non ci trasmettano il virus.

3)          L’uso del preservativo è il solo modo efficace per contrastare la diffusione della maggior parte delle infezioni sessualmente trasmissibili (IST), quindi non solo dell’HIV? Vale solo per i rapporti penetrativi? Cosa fare se si rompe durante un rapporto? E come possiamo porci nei confronti del fenomeno del bareback (rapporti sessuali senza preservativo) in un modo non paternalista e moralista?

Il preservativo è sicuramente uno strumento super importante, ma ne esistono anche altre due:

  • testarsi periodicamente perché infezioni come clamidia, gonorrea e sifilide sono spesso asintomatiche e si trasmettono anche con il sesso          orale. Pochissime persone usano protezioni per il sesso orale, dai!
    • avvisare lə partner se si ha un’infezione in modo tale che si testino, inizino la terapia in caso di test positivo e fermino così la catena dei contagi.

Se il preservativo si rompe, entro 48 ore dobbiamo andare in un pronto soccorso di un ospedale che abbia un reparto di malattie infettive e chiedere

della PEP, la profilassi post esposizione: un farmaco d’emergenza che evita che HIV si replichi nell’organismo.

Per il bareback potremmo provare a porci queste domande:

  • c’è consenso quando le persone fanno bareback?
    • si sentono tranquillə e in pace con se stessə dopo averlo fatto?
    • si testano periodicamente e nel loro territorio ci sono centri dove possono accedere alla PrEP e/o a dei test IST?

Se a tutte le domande rispondiamo sì, direi che chi fa bareback è una persona responsabile che vive la sua sessualità come vuole.

Se invece ad alcune rispondiamo no, dobbiamo lavorare per far sì che ogni

persona faccia sesso quando e come vuole e creare una società non giudicante che offre servizi per la salute sessuale che siano accessibili a tuttə.

4)          Quali sono i posti dove testarsi e richiedere consulenza gratuita sulle IST e come funzionano?

Ho preparato una lista che trovi a questo link. In generale il test HIV è sempre gratuito e anonimo. Nei centri gestiti da associazioni viene offerta anche una consulenza per capire come proteggersi al meglio.

5)          Quali sono i vaccini finora esistenti contro le IST e per chi sono consigliati?

Mi autocito ché ho da poco dedicato una newsletter alle epatiti.

Il vaccino Epatite A è raccomandato a gruppi a rischio come: chi viaggia in zone dove è endemica; chi potrebbe esporsi al virus per motivi professionali;

persone che hanno determinate patologie; maschi che fanno sesso con maschi (MSM). Questo perché la trasmissione dell’epatite A avviene quando le feci

vengono a contatto con la bocca e nel rimming (sesso orale all’ano) e nel sesso anale posso rimanere invisibili tracce di feci. È chiaro che non solo gli MSM fanno queste pratiche, ma in alcuni casi la gestione della salute pubblica deve fare valutazioni di costi-efficacia e sensatezza degli interventi. Tuttə possono

leccare e fare sesso con l’ano, ma è innegabile che

  • il culo è più usato da noi MSM;
  • tra il 2016 e il 2017 in Europa c’è stata un’epidemia di Epatite A tra

MSM: questo anche perché è una comunità semi chiusa ed è difficile che il virus circoli al di fuori. In Italia nel 2022 il 42,9% degli uomini sessualmente attivi che ha contratto l’Epatite A ha riportato rapporti

MSM, come da dati SEIVA (Sistema epidemiologico integrato dell’epatite virale acuta).

Offrire gratuitamente questo vaccino a tutta la popolazione sessualmente

attiva credo sarebbe davvero una spesa inutile, anche a fronte del fatto che l’Epatite A ha un tasso di mortalità intorno allo 0,2%. A volte la cura è capire che certe persone e certe comunità sono più colpite di altre.

Il vaccino dell’epatite B è invece offerto gratuitamente a tutte le persone natə dal 1980.

Il vaccino per l’HPV è gratis per chiunque fino ai 18 anni, in alcune regioni per

le persone con utero fino ai 25, in altre anche per i MSM. Questo perché gli MSM    non facendo sesso con persone con utero non godono della protezione

indiretta che può avere un maschio etero. Su haiprenotatovero.it puoi scoprire se nella tua regione il vaccino HPV è gratuito.

Intervista ad Alithia Maltese, insegnante di shibari ed educatrice di sessualità alternativa

DSC_4017-2 Credits VazkorAlithia 1

Credits Vazkor

1)      Com’è nato il tuo interesse per la sessualità alternativa e il bondage in particolare?

Da piccola amavo legare le cose. Usavo quella che doveva essere una corda per saltare: sedie, tavoli, bottiglie, niente poteva stare al suo posto. Costruivo fortini, tende, castelli. Raggiunta la maturità sessuale ho iniziato a fantasticare di legare le persone. Nel giro di poco tempo la fantasia è diventata realtà. Sentivo, però, che mancava qualcosa. Usare sciarpe e cinture non era così soddisfacente. Giocare con la cera e fare sesso estremo con le persone che frequentavo non raccontava tutto di me. Inoltre avevo bisogno di parlare con qualcuno che avesse i miei stessi istinti, avevo bisogno di confronto. Così ho chiesto consiglio a un’amica che sapevo avere i miei stessi interessi e lei mi ha suggerito di iscrivermi a FetLife, un social network dedicato al BDSM che conta quasi nove milioni di iscritti in tutto il mondo. Qui ho scoperto dell’esistenza della comunità torinese, dei party e dei corsi di bondage. Mancava ancora un evento dedicato ai più giovani e così ho deciso di impegnarmi in prima persona fondando il TNG Torino, l’aperitivo informale dedicato al BDSM per persone tra i 18 e i 35 anni. A un certo punto mi è capitato di essere invitata a eventi pubblici, come il Fish&Chips Film Festival del cinema erotico, a parlare di temi quali il consenso, la violenza, il BDSM. Sono stata chiamata in quanto organizzatrice di eventi a tema sia come persona con un bel po’ di esperienza alle spalle. Non mi andava di arrivare a questi incontri impreparata, così ho cominciato a studiare educazione sessuale e a sviluppare un metodo personale per trattare argomenti connessi alla sessualità alternativa. Così ho avviato la mia attività di insegnante di shibari. Collegata all’attività di educazione e divulgazione è venuta fuori l’esigenza di accostare alla teoria la pratica e non avrei potuto scegliere altro strumento che le corde.

2)    Essendo un’educatrice di sessualità alternativa quali sono le tematiche che tratti nei tuoi corsi?

Il tema principale è sempre la comunicazione. Che stia tenendo una conferenza sul consenso o un workshop sul bondage per l’intimità, la comunicazione col partner è alla base di tutto. La comunicazione è uno strumento potentissimo attraverso cui possiamo esercitare in modo efficace il nostro consenso e che quindi permette di condurre una sessione BDSM in modo genuinamente soddisfacente. E il dialogo con l’altro passa soprattutto attraverso il corpo, anche se non siamo abituati a farci caso. E la comunicazione passa soprattutto attraverso il corpo. Per me legare vuol dire avere un dialogo. Trasmetto il mio stato d’animo, comunico i miei desideri alla persona che sto legando e contemporaneamente mi metto in ascolto. Il corpo parla, basta saperlo osservare.

3)      Quanto è ancora forte il tabù verso le pratiche BDSM?

Dal mio punto di vista il tabù è ancora molto forte e temo che per questo si debba ringraziare per questo l’immagine mainstream del BDSM, che è fuorviante e per nulla rappresentativa del mondo che vorrebbe mostrare. Troppo spesso il cinema e la letteratura d’intrattenimento hanno dipinto chi pratica BDSM come persone violente, con traumi irrisolti. Finché questo mondo verrà guardato dal buco della serratura, parlandone con pregiudizio e senza reale interesse nel comprendere di che cosa si tratti, questa visione persisterà. A me non interessa che il BDSM venga accettato o considerato normale. Quello che mi piacerebbe è che chi vuole avvicinarsi a questo mondo possa avere la possibilità di farlo in maniera consapevole. Sarebbe preferibile che il BDSM non venisse rappresentato per nulla invece che mostrato come una patologia psichiatrica.

4)      Perché in tanti credono che il BDSM sia violenza?

Alla base di tutte le pratiche del BDSM c’è il consenso. La violenza è, per definizione, un’azione volontaria esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà. Questo rende BDSM e violenza mutualmente esclusivi.

5)      Il bondage è meramente connesso alle pratiche sessuali kinky o può essere considerato anche un’arte a sé stante?

Intanto dovremmo chiederci se tutte le pratiche kinky sono necessariamente sessuali e in che senso. Questa domanda ha molte risposte. Molti ti direbbero che non giocano con persone con cui non andrebbero a letto. Qualcuno pratica solo col proprio partner. In effetti alcune pratiche sono esplicitamente sessuali. Personalmente per me il BDSM non è per forza collegato al sesso o al mio desiderio sessuale ma senza ombra di dubbio ha a che fare con l’intimità e con la ricerca del piacere, di qualunque tipo esso sia. Il bondage è una pratica BDSM, è proprio lì, nella prima lettera dell’acronimo. Gioco spesso con alcune delle persone per me più care, mi piace condividere con loro momenti di intimità unici e irripetibili, ci piace prenderci cura gli uni degli altri anche attraverso queste pratiche, soprattutto nelle corde. Per me chi dice che il bondage è un’arte a sé mente sapendo di mentire. Probabilmente lo fa per renderlo più accettabile agli occhi della società. Il bondage, dicevo, è una pratica BDSM. Se si lega qualcosa o qualcuno per altri motivi, con altri obiettivi, artistici o promozionali per esempio, allora non rientra più nel BDSM e non è più bondage: è performance, è altro.

6)    Il termine shibari è un sinonimo o una tipologia di bondage?

Il bondage è la pratica in cui si limita o si impedisce temporaneamente la possibilità di movimento di una persona e/o la sua capacità sensoriale. Il rope bondage è il bondage fatto con le corde. Lo shibari, chiamato anche kinbaku, è il bondage giapponese: lo strumento principale sono le corde, le legature realizzate seguono la tradizione, l’estetica e la filosofia giapponese. Se mettessimo a confronto due foto, una di western bondage (rope bondage all’occidentale) e una di shibari anche chi non ha mai preso una corda in mano sarebbe in grado di capire che, pur trattandosi comunque di rope bondage, ci sono delle nette differenze tra le due pratiche, già a partire dall’estetica.

7)    Da persona facente parte di ambedue i contesti, come consideri il rapporto tra la comunità LGBTQ+ e il mondo BDSM?

Sono bisessuale, vengo dall’associazionismo LGBTQ+, non posso fare a meno di continuare a guardare a quel mondo, di cui faccio parte e con il quale collaboro. Negli anni ho riscontrato una certa resistenza da parte della comunità LGBTQ+ a interagire con la scena BDSM. Una resistenza sempre minore, per fortuna; negli ultimi anni molte persone giovani, soprattutto bisessuali, si stanno avvicinando a questa realtà. La mia percezione è che le persone LGBTQ+ talvolta pensino di trovare un ambiente non accogliente, anzi, magari anche discriminante, soprattutto per via degli stereotipi che il BDSM si porta addosso. La letteratura e la cinematografia alla quale siamo esposti sono ancora infarcite di cliché e storture: il masterone maschione seduce e sottomette la giovane e bella ragazza inesperta, la mistress in latex frusta violentemente un uomo, possibilmente di mezza età. La pornografia non ci viene in aiuto. Tutte le scene sono estremizzate, le interazioni sessualizzate in modo eteronormato o secondo il gusto eteronormato. Chiunque ci penserebbe due volte prima di rischiare di trovarsi in un ambiente composto da macchiette. La verità è che non siamo così. Certo, questi stereotipi da qualche parte sono saltati fuori, e forse dovremmo guardare più a romanzi come Histoire d’O (romanzo pubblicato nel 1954 e film realizzato nel 1975) che alle opere del Marchese de Sade o di Leopold Von Sacher-Masoch per cercare una spiegazione. La letteratura rosa, con quelle storie di procaci maschioni rapitori di svenevoli fanciulle, gli Harmony, così vicini alle casalinghe degli anni Ottanta, il successo delle 50 sfumature e il caso dei 365 giorni hanno contribuito a fare in modo che il vecchio immaginario BDSM, tanto basato sul genere e sui ruoli, si perpetrasse anche nell’epoca contemporanea. In un’intervista che mi ha rilasciato Rita Pierantozzi su scena BDSM e comunità LGBTQ+ https://www.alithiamaltese.com/scena-bdsm-e-comunita-lgbtq/, lei mi diceva che “molta della comunità GLBTQ+ è chiusa in un tentativo di normalizzazione che percorre vie eteronormate e fa fatica ad accettare realtà alternative. Si fa fatica ad accogliere bisessuali, persone trangender e non binary, figuriamoci persone kinkster. Il doppio stigma è difficile da portare”. Molto spesso persone LGBTQ+ mi chiedono: “Come posso fare ad avvicinarmi al BDSM in un ambiente queer?” In realtà il nostro aperitivo è queer. Io e Médou, che organizza con me il TNG Torino, siamo bisessuali, un altro degli organizzatori è non binary, ci sono molte persone LGBTQ+ e speriamo che, un po’ col passaparola, un po’ grazie ai miei interventi nelle associazioni LGBTQ+, ce ne siano sempre di più. È giusto che tutte e tutti abbiano uno spazio sicuro di confronto in cui poter sperimentare e conoscere persone.

8)    Secondo te quanto c’è ancora da fare per diffondere un’autentica cultura del consenso?

C’è un unico modo perché si diffonda la cultura del consenso: fare della propria vita il proprio attivismo. Non basta parlare di consenso se poi non ci impegniamo a mettere in pratica tutto quello che ci diciamo durante le dirette instagram o su twitch. La divulgazione, la diffusione della cultura del consenso è molto importante ma abbiamo bisogno di gesti concreti, quotidiani, per fare in modo che l’idea di consenso attecchisca. E poi c’è un altro aspetto che per me è strettamente legato al consenso, ovvero l’autodeterminazione. Sono convinta che nel momento in cui ci autodeterminiamo riconosciamo il nostro valore e questo riconoscimento ci rende più forti, rende più forte il nostro messaggio, rende più forti i nostri sì e i nostri no. Senza dubbio è importante continuare a lavorare sulla società ma non dobbiamo dimenticarci di lavorare prima di tutto su noi stessi.

9)    C’è qualcosa che vorresti aggiungere al termine di quest’intervista?

Sì, consigli per chi vuole avvicinarsi al BDSM.

A chi volesse saperne di più o volesse iniziare la propria esplorazione in questo mondo consiglio di informarsi sugli eventi presenti nella propria zona ed entrare in contatto con la comunità locale. Conoscere dal vivo persone già esperte o che si stanno affacciando a questo mondo permette di confrontarsi, farsi un’idea non solo sul tipo di pratiche che ci possono interessare ma anche sul tipo di rapporto che vogliamo avere con quelli che saranno i nostri compagni di viaggio. Inoltre far parte di una comunità ti dà la possibilità di avere informazioni di prima mano sulle persone con le quali ti rapporti, cosa che non sarebbe possibile con l’online dating. Questo è il motivo per cui ho fondato il TNG Torino.

Premesso che non mi interessa cercare di convincere le persone a entrare a far parte di questo mondo, ritengo che anche chi non ne ha mai sentito parlare potrebbe prendere come esempio per la propria vita personale e di coppia alcuni aspetti del BDSM, per esempio l’educazione al consenso o come esplorare più liberamente le proprie fantasie. Chi lo pratica ha come obiettivo la ricerca del piacere e durante la sessione di gioco è possibile portare avanti questa ricerca con i mezzi più disparati. All’interno della pratica possiamo esplorare i nostri desideri e condividerli con la persona con cui giochiamo. Possiamo provare vergogna, piangere, rilassarci, godere, avere paura, lasciare il controllo in totale libertà, senza preoccuparci del giudizio di chi è lì con noi in quel momento. Questo ci permette di avvicinarci, di entrare maggiormente in intimità con il/la partner. Non condivido con te solo il mio corpo ma apro una finestra sui miei segreti e ti permetto di vedere cose di me che in altre occasioni non mostro. In più, come singole e singoli, praticare il BDSM ci porta a domandarci che cosa cerchiamo in una relazione (che duri nel tempo di una sessione di gioco o che sia il rapporto con il/la partner), chi siamo, che cosa vogliamo. Insomma, dal mio punto di vista è uno strumento di autodeterminazione in piena regola.

Intervista a Luca Borromeo, escort di alto livello bisessuale

  • Luca Borromeo                   Tu ti definisci un escort di alto livello. Cosa intendi con ciò?
  •       Il discorso sull’alto livello potrebbe essere una locuzione che mi serve per specificare che svolgo quest’attività in modo professionale. Anche il mio nome d’arte è stato scelto guardando alle strategie di marketing. Cerco sempre di usare delle parole che facciano capire che mi pongo in maniera professionale e anche elegante. Poi quello che si fa privatamente non è detto che sia pure elegante.
  •        Cosa ti ha spinto ad intraprendere questa professione?

            Come ho dichiarato in altre interviste, a differenza di altre cose che nascono dalla necessità, ho cominciato a fare questo lavoro per gioco. Un mio amico mi ha fatto visitare un sito dove c’erano non solo donne ma anche uomini. Fino ad allora non sapevo che anche gli uomini potessero fare questo lavoro in modo professionale, pensavo fosse qualcosa di relegato solo a casi cinematografici come al film American gigolò con Richard Gere o a Ragazzi di vita di Pasolini. Avevo un’amicizia cameratesca con questo mio amico. Ci iscrivemmo a quel sito e cominciai come una sfida col mio amico a chi ricevesse più telefonate. Ma a differenza del mio amico che ricevette telefonate ma aveva paura di presentarsi agli appuntamenti, io decisi di andarci e trovai la cosa divertente. Le persone con cui mi incontravo pensavano che lo facessi da tanto tempo. Penso che non basti essere belli e discreti ma che bisogna avere anche un certo livello di disinibizione, per sentirsi a perfetto agio in intimità con sconosciuti. A proposito io penso di avere un dono, come una sorta di talento. All’inizio l’aspetto economico non era fondamentale ma poi è diventato un vero e proprio lavoro, anche ben remunerato, e continua ad esserlo, covid permettendo.

          Mi capita spesso che certuni mi chiamino per chiedermi consigli per fare questo lavoro solo perché rimasti disoccupati. In questi casi io cerco di far capire che questo non è un lavoro che si può improvvisare, per farlo bisogna essere convinti per non sentirsi a disagio e non far sentire a disagio le altre persone.

  • Che ruolo occupa il tuo orientamento sessuale nel tuo lavoro?

       Io faccio tesoro della mia bisessualità nel mio lavoro. Sono credente e penso di poter ringraziare Dio di essere bisessuale perché questo mi permette di fare il mio lavoro sia con uomini che con donne, sia passivamente che attivamente. Penso che se non fossi stato bisessuale e non avessi avuto la possibilità di mettere in atto diverse fantasie, sarei stato io stesso un cliente di lavoratori sessuali.

         Mi è capitato che mi abbia contattato un mio collega eterosessuale che fa questo lavoro non con piacere ma in attesa di essere selezionato per qualche casting di reality show. Io non considero un bene fare questo lavoro solo per soldi o in attesa di altro. A me piace il confronto, sono molto combattivo e non me ne faccio un problema se qualcuno mi insulta se scopre quello che faccio. Ma chi non è combattivo come me può sentirsi male se non fa questo lavoro andando fino in fondo. Poi a me non interessa che mi si giudichi perché vado sia con gli uomini che con le donne, non considero un problema avere una clientela variegata.

  • Da chi è costituita, nello specifico, la tua clientela?

      Uomini, donne. L’età varia da persone giovani a persone anziane. C’è chi mi chiama per avere una prima esperienza sessuale o chi, persone di 30, 40, 50 anni, mi chiamano perché vogliono avere la loro prima esperienza gay ma non vogliono viverla in altro modo perché sono sposati e non vogliono correre rischi di essere scoperti o ricattati se si fanno l’amante.

  • Quando accompagni persone legate sentimentalmente ad altri ciò avviene in segretezza o con il consenso dellu altrui partner?
  •       Può avvenire sia in segretezza sia con il consenso dei partner. Mi capita anche di essere contattato da coppie sposate, da coppie di amanti e anche da coppie separate che vogliono vivere in questo modo la trasgressione. C’è una coppia separata, per esempio, che mi viene spesso a trovare, in cui lui si eccita a guardarmi mentre ho rapporti sessuali con lei e partecipa solo passivamente. Ci sono coppie etero in cui la donna ha la fantasia di andare con due uomini e quindi si rivolge a me. Poi ci sono le persone gay latenti che hanno piacere di vedere me mentre scopo le loro donne perché in quel momento si sostituiscono mentalmente alla loro compagna e vivono l’appagamento gay in questa forma sublimata.  Io nel mio lavoro mi limito a fare quello che mi viene richiesto senza chiedermi il perché o se sia strano. Mi chiedo solo se sono in grado di soddisfare quella specifica fantasia che in quel momento mi viene richiesta, ovviamente nei limiti del codice penale.
  • Come escort maschio percepisci minore il rischio di slut-shaming rispetto alle colleghe donne?

       È interessante questa domanda. Di solito dagli uomini eterosessuali vengo visto come una specie di mito perché ho rapporti sessuali e ci guadagno. C’è una certa ammirazione da parte degli uomini. Da parte delle donne mi è capitato di essere visto come un uomo possente, non necessariamente dotato, interessante ma sentono di non poter accettare del tutto un uomo che fa questa professione, perché loro vedono sempre in prospettiva di una relazione. Lo slut-shaming l’ho subito da parte di alcuni gay. Paradossalmente i gay possono vedere l’uomo che fa l’escort solo come un marchettaro e provano un certo astio o competizione. Mi fa specie che a volte, non sempre ovviamente, proprio i gay abbiano questo tipo di atteggiamento con cui o ti considerano una feccia o ti mettono su un piedistallo. Poi ci sono alcuni gay che sono contro i bisessuali perché li considerano come dei gay latenti o persone in una situazione transitoria. Ma mi fa specie che questo tipo di considerazioni provengano più spesso da gay che dagli etero. Mi piacerebbe che, così come c’è stata l’emancipazione delle donne e il riconoscimento dei diritti civili, nel 21° secolo si instauri un certo livello di tolleranza da parte dei gay verso chi si dichiara bisessuale.

  • Pensi che ci sia bisogno di una legge per regolamentare e soprattutto tutelare i e le sex workers dimodoché il vostro sia riconosciuto a tutti gli effetti un lavoro come un altro?

       Sì, certo. Questa è una cosa che mi è stata chiesta tante volte e penso che sarebbe giusto che ci sia. C’è, per fare un esempio semplice, il problema fiscale. Io non posso con la mia partita iva dichiarare tutto quello che guadagno. Poi io spesso per lavoro devo viaggiare ma non posso dichiarare i miei viaggi per lavoro. Inoltre, essendo con il mio lavoro più esposto alle malattie veneree, se ci fosse una legge potrei avere delle tutele sanitarie anche in quel senso. Io non sono per la riapertura delle case chiuse. Si potrebbero creare delle agenzie. La mia vita sarebbe tutelata e la mia professione sarebbe riconosciuta a livello sociale, senza essere presa per un passatempo e senza passare come uno che si è montato la testa emulando modelli cinematografici. Credo che il mio sia un lavoro socialmente utile. Non sono io che vado a cercare i miei potenziali clienti, sono loro che mi cercano. Se c’è una domanda, una richiesta evidentemente c’è bisogno anche di una figura del genere. Una volta mi è capitata una persona che, avendo dei blocchi psicologici, dopo essere stata da un analista, questi le avrebbe suggerito di farsi aiutare anche da un professionista sessuale. Credo, pertanto, che il riconoscimento del mio lavoro debba essere un atto dovuto perché non è una cosa che mi sono inventato io.

 

 

Intervista a Carmen Ferrara, attivista non-binary e ricercatrice in formazione

 

Carmen Ferrara

Io: Ti definisci un’attivista per i diritti LGBTI non-binary. Ti va di spiegarci cosa significa?

C.F.: Certo. Io sono una persona non binaria, non colloco la mia identità di genere in maniera binaria, non sono un mix di maschile e femminile, rifiuto proprio di definirmi in relazione a questi parametri. Per convenzione e per una scelta politica utilizzo i pronomi femminili. Rispetto alla mia identità di attivista, innanzitutto ci tengo a dire che non si fa attivismo, ma si è attiviste. Quando ero al terzo anno di liceo mi sono innamorata della mia compagna di banco. Non ho fatto coming-out come lesbica, perché questo presupponeva che io fossi donna. Ho semplicemente detto di provare dei sentimenti per una ragazza. Provengo da un piccolo paese vesuviano e non avevo internet a casa, ma lo usavo a casa di amici. Tramite un sito di incontri ho scoperto l’esistenza di associazioni e ho iniziato a frequentare Antinoo Arcigay Napoli, ormai quasi dieci anni fa. Ho preso consapevolezza dei miei diritti e delle ingiustizie sociali, per cui è stato naturale iniziare ad impegnarmi attivamente.

Io: Rispetto al tuo percorso di studi, cosa ti ha spinto al punto da voler intraprendere un dottorato di ricerca nell’ambito degli studi di genere?

C.F.: Ho fatto un liceo delle scienze umane, che all’epoca di chiamava socio-psico-pedagogico. Per la mia famiglia era strano che dopo il liceo volessi fare l’Università perché provengo da un contesto umile. La mia famiglia non aveva possibilità economiche e mi sono mantenuta facendo vari lavori: il call center, la cameriera, le pulizie, la badante. Sapevo che studiare era un modo per migliorare la qualità della mia vita, per prendere le distanze da modalità violente che caratterizzavano l’ambiente in cui sono cresciuta e soprattutto per potermi difendere. Sia alla triennale che alla magistrale ho studiato Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, volevo comprendere la società e imparare l’inglese per ampliare le mie opportunità. Durante la stesura della tesi mi sono approcciata alla ricerca e me ne sono appassionata. La prima è stata sui migranti LGBTI, la seconda è stata sulla pianificazione strategica delle politiche di inclusione a Malta. Dopo di che ho iniziato a collaborare con un think tank, spin-off dell’Università di Cambridge che si chiama GenPol- Gender & Policy Insights. Un dottorato in studi di genere mi sembrava la naturale evoluzione del mio percorso e quindi ho fatto domanda per un dottorato transdisciplinare dal titolo “Mind, Gender and Language” sempre alla Federico II di Napoli.

Io: Nel libro che hai pubblicato sottolinei l’importanza dell’intersezionalità, cos’è e perché è importante?

C.F.: L’intersezionalità è un concetto spesso abusato, ma se applicato con criterio consente di rendere visibili forme di oppressione che altrimenti sarebbero neutralizzate. Nel caso delle donne trans nere, ad esempio, è fondamentale adottare un approccio intersezionale per comprendere le discriminazioni che possono subire. Facciamo il caso che in un progetto per l’inclusione lavorativa delle persone trans e delle persone migranti i datori di lavoro accettino di assumere solo persone trans bianche e persone migranti cisgender. Cisgender, per intenderci, è il contrario di transgender. Come ci insegna Kimberlé Crenshaw, che è colei che ha teorizzato questo concetto, se una donna trans nera non viene assunta da nessuna azienda e per leggere l’accaduto si utilizza la lente dell’identità di genere, i datori di lavoro potranno dire che non hanno fatto alcuna discriminazione di genere, perché loro hanno assunto delle persone trans. Se guardiamo alla razza, loro diranno che non sono stati razzisti, perché hanno assunto persone migranti. Però non hanno assunto nessuna donna trans nera e questa discriminazione può essere vista solo se si osservano contestualmente le dimensioni del genere e della razza e il  loro punto di intersezione. Nelle pratiche politiche è importantissimo adottare un approccio intersezionale, perché non ci si può battere per i diritti delle persone LGBTI senza considerare le persone LGBTI migranti e/o disabili e, aggiungo, è controproducente impegnarsi per i diritti di una minoranza senza fare fronte comune.

Io: C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

C.F.: Sì, un altro aspetto importante da considerare è legato alla povertà, alla lotta di classe. E quando parlo di povertà ovviamente parlo di povertà economica, educativa, deprivazione materiale e affettiva. Noi che siamo meridionali lo sappiamo bene. In questo momento, tra le varie cose, mi sto occupando di una particolare forma di violenza di genere, che è la violenza domestica nelle relazioni con partner LGBTI ed è sconvolgente il numero di survivors senza fissa dimora, per cui non esistono servizi, né rifugi. Questo è un dato che come associazione conosciamo bene, ma supportare la ricerca vuol dire raccogliere dati e avere contezza di un fenomeno consente di fare pressione sul legislatore e di porre in essere politiche e servizi che tengano conto dei bisogni specifici.

Raccogliere informazioni è propedeutico alla creazione di una società più giusta. Poi credo sia importante che chiunque lo faccia (come te hai un blog, da poco ne ho aperto uno anch’io) per sensibilizzare in più ambiti possibili.
In conclusione vorrei dire che in questo momento di pandemia, è fondamentale più che mai non dimenticare tutte le persone che vivono ai margini, in spazi senza privacy e senza poter accedere ai paracaduti sociali, pensa alle sex workers senza cittadinanza.
Io sono senza dubbio una persona privilegiata sotto tanti punti di vista e, tra l’altro, posso dirti che oltre ai legami di sangue che lasciano il tempo che trovano se non coltivati, per molte persone queer come me la comunità diventa la tua famiglia. Quando sono stata a Malta per il periodo di ricerca etnografica non conoscevo nessuno, ma il fatto che fossi un’attivista mi ha fatto trovare lì una comunità che mi ha accolta come se mi conoscesse da sempre. Mi ritengo veramente una persona molto fortunata.

Intervista a Martina Donna, attivista, scrittrice e blogger omodisabile

Martina Donna

Ho intervistato Martina Donna, attivista per i diritti lgbt+, scrittrice e blogger affetta da tetraparesi spastica dalla nascita, autrice del  romanzo IO SONO MARTINA una ragazza, una sedia a rotelle, un amore, un’avventura. Questo il suo profilo Instagram:
Ecco, di seguito, l’intervista:
  • Tu ti definisci omodisabile. Ti va di parlarmi di questo doppio canale con cui vivi la tua identità e il tuo attivismo?

Tante persone mi chiedono se penso di essere detentrice di due diversità e come mi sento. Penso di esserlo, ma usare la parola diversità oppure normalità non mi piace.  Mi domando invece: Che cos’è la diversità? Che cos’è la normalità? Semplice. Ognuno di noi può decidere che cosa considerare diverso oppure no, che cosa definire normale oppure no.  Non credo affatto di avere dei limiti o sfortune, a detta di alcuni. Sono convinta invece di possedere delle carte uniche e vincenti, che mi consentono di vivere una vita piena e appagante. Mi definisco attivista da quando sono stata nominata rappresentante della categoria e mi sento davvero onorata. Tutto ha avuto inizio quando mi è stato dato l’enorme privilegio di parlare sul palco del Milano Pride 2019. Amo interagire con le persone e essere attivista mi ha facilitato ulteriormente in questo. Il mio obbiettivo è raggiungere il cuore di chi lo desidera e dare così l’aiuto di cui si ha bisogno. Inoltre voglio lasciare una traccia positiva del mio passaggio su questa terra e fare il possibile per annullare pregiudizio e discriminazione.

  • Ti capita di subire discriminazioni? Se sì, avviene più spesso per la tua disabilità, per l’orientamento sessuale o in egual modo per entrambe le condizioni?

Sì, nella vita mi è capitato durante l’adolescenza. Gli anni della scuola, soprattutto le medie, sono stati anni difficili e duri. Venivo bullizzata a causa della mia disabilità, in quegli anni non era iniziato il mio processo  di accettazione e sono convinta che questo abbia facilitato gli atti di bullismo subiti. Riguardo il mio orientamento sessuale, invece, non ho subito alcun tipo di discriminazione. Piuttosto ho provato un totale senso di inclusione e accettazione all’interno dell’intera comunità LGBT+

  • Parlare della sessualità delle persone disabili è, purtroppo, un tabù diffuso. Disabilità e omosessualità insieme rappresentano un tabù nel tabù?

È un tabù sfortunatamente, non perché realmente lo sia, ma perché la nostra società è da sempre abituata a considerare questi due fattori tabù in quanto la persona con disabilità viene percepita ancora oggi come asessuata. Dunque essere anche omossessuali crea un ulteriore choc sociale. Uno dei miei obbiettivi come attivista è proprio quello di distruggere definitivamente questo tabù, perché non rispecchia la realtà, ma la distorce alimentando in maniera costante pregiudizio e discriminazione. I disabili fanno sesso, eccome se lo fanno! Hanno una sessualità normale, anzi a volte addirittura migliore di quella dei normodotati. Poi mi domando in ultimo quale diritto ha un normodotato di presumere o anche solo pensare che la persona con disabilità sia asessuata perché disabile? È perché non si pensa o si presume la stessa cosa per voi cari normodotati?

  • Nella società abilista ed eteronormata in cui viviamo, cosa potremmo fare per sensibilizzare sempre di più all’accettazione e valorizzazione dei corpi e delle sessualità non conformi?

Premetto che usare la parola abilista è discriminatorio verso tutte le persone disabili. Peraltro il termine abilismo è finalmente all’interno della Treccani. Perciò utilizzeremo la parola società normodotata, o ancora meglio nella società di persone non disabili. Per far sì che la sensibilizzazione funzioni è necessario interrompere la catena del pregiudizio mediante l’informazione. Dove non c’è informazione nascono i pregiudizi. È un circolo vizioso che deve essere spezzato. Bisogna ricordare come detto all’inizio che il diverso viene visto tale perché lo si vuole vedere in quel modo. Lo stesso vale per sessualità e corpi non conformi. La diversità, il problema, sta sempre negli occhi di chi vuole e continua a considerarlo come tale.

  • Quanto è importante, secondo te, l’intersezionalità delle lotte per i diritti umani?

L’intersezionatilità è importante ma non fondamentale. Ciò che conta a mio avviso sono le azioni compiute dal singolo individuo per portare a compimento l’obbiettivo prefissato. Possono esserci disabili eterosessuali, persone non disabili omosessuali oppure persone omodisabili come nel mio caso. Questo non rende diverso o meno importante l’impegno di tutti riguardo i diritti umani. Certo una persona con entrambe le cose può avere in alcuni casi una maggior apertura, ma non è affatto scontato.

  • Il sesso, nel senso di vivere anche fisicamente la sessualità, è un diritto? Perché?

Certamente! È un diritto e un bisogno per qualunque essere umano. I disabili sono persone con desideri e pulsioni eguali a quelle dei non disabili. Come già detto sopra. Per questo sarebbe fondamentale in Italia una legge che regolamenti la figura professionale dell’assistente sessuale, già regolamentata in Belgio, Svizzera, Danimarca, Germania, Olanda e Svezia. Negli USA questa figura è un connubio tra terapeuta, sessuologa e assistente personale. In Italia viene spesso associata alla prostituzione, ma non è affatto così. L’assistente sessuale non può praticare sesso in modo completo con il proprio assistito. Tale figura professionale si occupa non solo dell’aspetto fisico ma soprattutto dell’aspetto emozionale, aiutando la persona che assiste a trovare una sua dimensione sessuale. Il disegno di legge fortemente voluto da Sergio Lo Giudice (PD) e dalla parlamentare Monica Cirinnà rimane fermo al 2014. È disumano negare la sessualità a chi ne sente il bisogno, solo perché disabile.

  • Qualche giorno fa ricorreva la Giornata Mondiale della Disabilità? Ritieni utili simili iniziative?

Sì, il 3 dicembre era proprio la Giornata Mondiale Per Persone Con Disabilità. Questa data è importantissima e il suo obbiettivo è quello di sensibilizzare sul tema della disabilità ma soprattutto sul tema dei diritti. Purtroppo esistono ancora molte discriminazioni verso le persone con disabilità e questa giornata contribuisce all’abbattimento di tali discriminazioni. È inoltre concepita in un’ottica di dignità umana, perciò ritengo che questa data non sia soltanto utile ma fondamentale.

  • In quanto donna, disabile e lesbica, ritieni che il ddl Zan in contrasto al’omolesbobitransfobia, alla misoginia e all’abilismo, qualora approvato, cambierebbe l’impegno collettivo verso una sempre maggiore inclusione di tutte le soggettività?

Anche la legge Zan a mio parere è di fondamentale importanza e nutro la speranza che venga approvata anche al Senato. Sono fiduciosa che potrebbe cambiare l’impegno collettivo, ma soprattutto contribuirebbe ad un’apertura mentale a livello sociale della quale abbiamo estremamente bisogno, per poter essere una società sempre più inclusiva e sempre meno predisposta ad un qualunque tipo di discriminazione e pregiudizio.

  • C ‘è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

Siate sempre fieri di voi stessi e di ciò che fate. Non vergognatevi mai delle vostre scelte, non abbiate paura di chiedere ciò che ancora non conoscete o semplicemente vi incuriosisce. Andate oltre i vostri limiti e le vostre paure, solo così riusciremo a creare una società migliore e potremmo essere sempre un passo avanti. Fate sempre sentire il vostro grido al mondo.

D. Q.

 

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Intervista a Ella Bottom Rouge, performer di burlesque lesbica

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Shooting metro Pasteur e Parco Nord 1-6-20

Nelle foto Ella Bottom Rouge

 

Ciao, Ella. Sono Donatella Quattrone. Grazie per aver accettato di fare quest’intervista.

1)    Tu sei una performer di burlesque. Cosa spinge una donna verso questa forma d’arte?

Dalla curiosità a dire il vero, molto semplice! Avevo visto degli spettacoli e mi avevano fatto dire: “cos’è sta figata, voglio farla subito!!” Così cercai un corso e cominciai dalla base come tutti. Molte allieve arrivano anche per una voglia di cambiamento, dopo un figlio, dopo una rottura, qualcuna in estrema rivolta, dopo il cancro. E ovviamente c’è chi arriva per riscoprire quel sapore retrò della seduzione e degli abiti d’altri tempi.

2)    Il burlesque è un’arte che risale al periodo vittoriano ed è andata via via modernizzandosi. Secondo te, è questa fusione tra vintage e modernità ad attrarre in queste performance?

Assolutamente. Si è attratti dai costumi, dall’estetica, dalle musiche e anche dalla riscoperta del potere seduttivo che ognuno ha. Uomini e donne.

3)    In un burlesque show prevale la sensualità, l’ironia o c’è un giusto mix fra queste componenti?

Mix è la parola vincente! Non dimentichiamoci che è uno spettacolo, deve intrattenere e avere il giusto ritmo per farlo. Se facessi la gattona per 5 minuti di fila la gente si annoierebbe. E sotto un altro punto di vista è questo che rende importante il messaggio del burlesque: sorridere e portare il pubblico a sorridere con noi dei nostri difetti, rotolini e smagliature è una forza.

4)    Da chi è composto solitamente il pubblico di un burlesque show?

Variegatissimo! Ma la parte femminile è sempre la percentuale più alta.

5)    In quali locali ti esibisci di solito?

 Precovid la vita era più facile e gli spettacoli tanti, ahimè. A Milano è rimasto il mio amato WET The Show, format nato ormai quattro anni fa sul legame dell’arte erotica e la cucina afrodisiaca. Si tiene tutti mesi a Lo Stacco, un ristorante con un palco veramente pazzesco, le prossime date sono il 25 settembre e il 9 ottobre, con un ospite veramente speciale. 

6)    Quale idea del femminile traspare da questi spettacoli?

 Sicuramente una persona forte, che sa quello che vuole e che non ha paura a prenderselo. Posso citare una delle mie grandi icone e artista preferita, Dirty Martini; “il burlesque è prendere uno spazio e farlo proprio.”

7)    Tu sei anche un’attivista per i diritti lgbtq+ lesbica. Nei tuoi spettacoli traspare il tuo impegno sociale?

Azz, attivista non lo so! Certamente ho le idee chiare su tante cose, e non sono una che sta zitta, ecco. Da adolescente mi sono interessata ai movimenti dei centri sociali e subito dopo Genova ho fatto un pezzo di rivoluzione anche io. Leggo, mi informo, cerco di incorporare la cronaca anche quando faccio il presentatore. Credo davvero che l’arte dell’intrattenimento sia un veicolo reale di informazione e denuncia, in un certo senso. È quello che faccio insieme a DRAMA, il Queer Cabaret che tra una risata e un lipsync parla di sessualità, pressione sociale, body positivity, body shaming e molto altro. 

8)    Che rapporto c’è in Italia, in generale, tra il mondo lgbtq+ e l’arte del burlesque?

Negli ultimi anni stiamo facendo dei passi in avanti! Quando nel 2018 il Pride mi ha commissionato uno spettacolo è sembrato un miracolo che 15 artisti da tutta Italia, più un headliner internazionale avessero “infettato” con boa e bumbs&grinds tutta Milano! Purtroppo è ancora un mondo eteroformato, dove la seduzione è a senso unico, femmina verso maschio, ma ci sono delle isole felici, e abbiamo bisogno del supporto degli Ally. Le scuole fanno tanto, con i corsi genderfree, idem i colleghi boylesquer. Ci vorrebbero più coming out, anche. Ma questa è un’altra storia.

9)    C’è qualcosa che vuoi aggiungere e/o un messaggio che vuoi lanciare al termine di questa intervista?

 

Siate onesti, siate voi stessi, e fate burlesque!

 

Ella Bottom Rouge
The Mediterranean Wave of Burlesque
 

 

Ti ringrazio per la disponibilità e il tempo che mi hai dedicato.

 

Donatella Quattrone

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Una drag queen in cucina: intervista a Peperita


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Dal profilo instagram peperitadrag_bakeoff8

Alcuni giorni fa ho intervistato Peperita, una drag queen con una passione per la cucina e la pasticceria. Qui di seguito l’intervista:

 

Ciao, Peperita. Sono Donatella Quattrone. Grazie per aver accettato quest’intervista.
1) Tu di giorno sei un impiegato e di notte ti trasformi in una drag queen. Come concili queste attività?
Ciao. Parto con il ringraziarti per questa opportunità di raccontarmi a voi. Le mie vite convivono, a fatica e con molti sacrifici, perfettamente, ho imparato ad organizzarmi mentalmente in modo da essere pronto a tornare dal lavoro e trasformarmi per far vivere il mio personaggio.

 

2)Il momento del travestimento, prima degli spettacoli, è già un entrare nel personaggio che si andrà a rappresentare o questo avviene solo nel momento in cui si calca il palco?
Sì, assolutamente, nel momento in cui apro il beauty dei trucchi inizio piano piano a nascondere Giacomo, perché mi chiamo così, e lascio vivere Peperita, che puntualmente torna a dormire subito dopo essermi struccato.

 

3)In quali locali ti esibisci di solito?
Ho la fortuna di girare tutta la nostra meravigliosa Penisola.

 

4)Da chi è composto solitamente il pubblico di un drag queen show?
Il mio pubblico è vario ma ci sono sempre tantissimi bambini e la cosa mi rende super orgoglioso… Sono loro il nostro futuro e fargli vivere il mondo dell’arte vuol dire aiutarli a diventare open mind.

 

5)A quale/i modello/i femminile/i ti piace ispirarti per i tuoi spettacoli?
Mi ispiro a molte donne della musica nazionale ed internazionale ma, quando entro in azione come cabarettista, l’unica fonte di ispirazione è la mia amata nonnina.

 

6)In che rapporti sei con il mondo lgbtq+ in generale? C’è una parte di attivismo nella tua arte?
Sono integrato nella comunità lgbtq+ ed in tutti i miei show porto il mio esempio di figlio, fratello, nipote e fidanzato in modo da far capire ai più quanto sia meraviglioso essere liberi di amare.

 

7)Oltre al mondo drag, sei anche un’appassionata di cucina e, in special modo, di pasticceria. Com’è nato questo amore per i fornelli?
Sempre da mia nonna, lei era una grande cuoca, mi ha insegnato quasi tutto quello che so, soprattutto i segreti della cucina pugliese.

 

8) Sei tra i partecipanti del programma di pasticceria Back Off Italia su Real Time Tv e la prima drag queen aspirante pasticcera. Cosa ti aspetti da quest’esperienza e cosa speri di tramettere nel programma?
Sono molto orgoglioso di far parte del cast dei concorrenti di Bake Off 8, voglio far capire a tutta l’Italia quanto è bella la bandiera rainbow e quanto sia importante considerare le drag dei veri artisti capaci si intrattenere, cucinare, sorridere ed essere sempre impeccabili. Essere una drag non vuol dire essere legata solo alle disco, pizzerie, ristoranti o piazze, una drag sta bene OVUNQUE.

 

9)Qual è la tua specialità in cucina?
Ormai è famosa la mia focaccia barese.

 

10) E il dolce che ti piace di più preparare?
Il dolce che preferisco preparare sono i dolci da forno: tipo croissant, pan di spagna, biscotti e frolle.
11)Se tu stessa fossi un dolce quale saresti?
IO SONO UN DOLCE: SONO UNA RAINBOW CAKE. Dall’ aspetto candido e forte ma dentro ho mille colori e sono tenerissima.

 

*

Ti ringrazio per la tua disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

Donatella Quattrone

 

Nota bene: la sera del 4 settembre 2020, in cui iniziava il programma Bake Off 8, Peperita ha purtroppo subito un infortunio ad un ginocchio proprio mentre si recava allo studio televisivo. Ha dovuto pertanto ritirarsi dalla gara di pasticceria prima ancora di cominciare. Quello di Peperita è però, come lei stessa ha pronunciato, solo un arrivederci. Da me il più sincero augurio di pronta guarigione e di poter presto realizzare il suo sogno di diventare pasticcera.

 D. Q.

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Intervista ad un drag king

Rivestimenti del ` s degli uomini Smoking con i baffi, i vetri, la barba, il tubo ed il cilindro Vestiti di Weddind con il farfal(Dal web: immagine libera da diritti)

Ciao, Nat Tasha. Grazie per aver accettato quest’intervista.

Ciao Donatella, grazie a te.

1) Tu sei una make up artist e drag king. La tua esperienza di performer nasce come un’evoluzione dell’attività di artista o le due cose sono sempre state interconnesse e andate di pari passo?

Penso siano sempre state interconnesse, sono sempre stata una bambina fuori dagli schemi, sceglievo spesso giochi e abiti maschili, senza un motivo specifico, semplicemente perché mi piacevano di più, io da piccola non me ne preoccupavo molto, ma questo agli occhi degli altri mi rendeva “ambigua” e per questo ho sempre fatto fatica ad identificarmi in un gruppo. Crescendo, ho intrapreso degli studi artistici, che mi hanno portato a focalizzarmi sullo studio di artisti “trasformisti”, mi sono sentita parte di quel gruppo e grazie a loro ho iniziato a capire che potevo dare una forma alla mia “ambiguità”, una forma d’arte, ne ho sentito l’esigenza, così nel tempo, certo non senza difficoltà, ho trovato il modo di esprimermi, dapprima con delle foto, sperimentando il trucco e cercando di riconoscerne la mia identità, poi nel 2007 uscendo allo scoperto o meglio, dicevo alle mie amiche “oggi esce Nat” e andavo in serata con il mio lato maschile e poi, attraverso le performance, il teatro e tutto ciò che offre il mondo dell’arte, ho continuato a giocare con il mio lato maschile e quello femminile Nat e Tasha appunto e tutte le loro sfaccettature.

2) I drag king sono meno conosciuti rispetto alle drag queen, almeno in Italia. Secondo te, perché? All’estero è diverso?

Secondo me, culturalmente siamo più abituati a vedere uomini che interpretano donne, anche perché per molti anni le donne non potevano recitare e quando poi hanno iniziato, certamente non potevano fare ruoli maschili, quindi la donna che interpreta l’uomo è arrivata molto tardi in teatro, ma anche nei libri non se ne parla molto. Oggi nel cinema, in tv, se ne vedono ancora poche, se ne parla di meno e se ne vedono meno, quindi sono meno conosciute, anche se iniziano ad essere più presenti. 

Il drag king poi è una forma d’arte meno evidente rispetto alla drag queen, all’estero sicuramente ce ne sono di più, li vediamo anche in alcuni Programmi o Serie Tv e alcuni sono anche più spettacolari, in Italia siamo in pochi e abbiamo meno modo di farci notare nei locali e nei teatri.

3) Le performance dei drag king hanno a che vedere solo con identità di genere/orientamento sessuale o anche con gli stereotipi sul genere?

Penso abbiano a che vedere con tutto il mondo maschile, ma anche femminile e non solo. Ho visto performance e anche conosciuto diversi drag king che interpretavano svariati ruoli, da chi tendeva a stereotipare l’uomo virile e forte, talvolta imitando anche personaggi famosi, a chi sceglieva di stare tra la metà uomo e la metà donna e a chi invece, in chiave sempre performativa, mostrava il seno o i bendaggi per il seno, i genitali veri o finti, usando la provocazione o l’ironia, sempre cercando comunque di esprimere la propria identità o di mandare un messaggio o di creare una mera spettacolarizzazione. 

4) I modelli maschili impersonati in un drag king show sono più spesso figure maschili dominanti o socialmente marginali?

Anche solo pensandolo, se ti dicessi, “ok ora fallo come lo farebbe un uomo”, il passaggio dal femminile al maschile apre una serie di porte, ci si sente in un certo senso più liberi, di poter dire o fare, ci si prende lo spazio con i piedi ben saldi a terra e per questo forse c’è la tendenza a pensare che si debba interpretare una figura maschile dominante, ma poi effettivamente come ogni uomo ha la sua identità, ogni drag king con la sua fisicità, il suo carattere e la sua personalità, si ritrova in uno o più personaggi, li fa suoi e li racconta in una o più storie.  

Personalmente Nat c’è sempre stato per me, ho un corpo minuto e atletico e un viso abbastanza mutevole, ho sempre giocato con le espressioni e con la mimica, quindi mi riconosco in personaggi che passano dall’essere un po’ vivaci e “twink” all’essere un po’ enigmatici e folli.

5) Il momento del travestimento è incentrato in modo particolare sull’abbigliamento, sul trucco e l’applicazione di barba o baffi finti oppure c’è anche un lavoro di destrutturazione del corpo?

Il travestimento, mutamento o trasformismo è un momento per me molto intimo ed evolutivo, mentre mi trucco inizio un lavoro mentale che mi porta a riconoscere l’arrivo di Nat con le sue caratteristiche e inevitabilmente la mimica del mio volto in un certo senso cambia, i movimenti del corpo, la postura, come se fossi in un’altra pelle. All’inizio davo molta importanza al nascondere il seno, invece ultimamente ha iniziato a non essere più un peso, talvolta posso anche non mettere baffi o barba se sento che può essere completo con pochi elementi, altre volte invece ho bisogno di tutto. Faccio ancora fatica a dargli una voce, forse perché in generale la uso poco e questo mi porta a trattenere una certa timidezza. 

Nat cresce con me come tutti i miei personaggi consolidati negli anni, li nascondo nel mio essere ibrido e quando serve li tiro fuori con tutto il lavoro di metamorfosi di cui hanno bisogno.

6) Quanto c’è di “politico” nell’essere un drag king?

Ho sempre pensato alla performance come uno spettacolo estetico visivo che può/deve però anche raccontare qualcosa e mi è sempre piaciuto cercare di fare performance che potessero trasmettere un messaggio più che politico, sociale, in difesa dei diritti LGBTQ+ e delle diversità, trattando varie tematiche annesse, a volte creando una storia personalmente e altre invece prendendo in prestito canzoni particolari o ispirandomi a personaggi dei film/libri.

7) Hai mai avuto difficoltà a far accettare il tuo lavoro ad un* eventuale partner?

Per fortuna no, mi hanno sempre tutte accettato per come sono, e anzi la mia attuale partner mi sostiene e incoraggia sempre, ormai conosce tutti i miei “personaggi” o quasi…

8) Ti esibisci da sola o in gruppo?

Per un bel po’ di anni mi sono esibita insieme ad un’altra ragazza, ci chiamavamo Nat&Rust “Funny Drag King”, le nostre performance erano di carattere spesso comico con un sottofondo sempre di attivismo, ci è capitato anche di performare insieme ad altr* artist*, e insieme ci siamo guadagnate il secondo posto al primo Festival Drag King di Roma.

Dopo un periodo diciamo di pausa o più crisi artistica, ho ripreso ad esibirmi da sola vincendo il terzo posto al Miss Drama Queen e ultimamente ho iniziato a collaborare con alcune drag queen. 

Ho un carattere solitario, ma sono sempre aperta alle collaborazioni, mi caricano di energia, mi fanno crescere e mi permettono di sperimentare.

9) Da chi è composto solitamente il pubblico di un drag king show?

Mi sono spesso esibita durante le serate o eventi queer di diversi club milanesi (Glitter, Toilet…) quindi un pubblico friendly, misto per età, sesso e genere.

10) C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista?

Ti ringrazio per avermi coinvolto in questo progetto e spero di poter essere stata d’aiuto a tutti i giovani Drag King.

Io: Ti ringrazio per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

Grazie ancora a te.

Natascia (Nat Tasha) Lapiana
Artist & Make Up Artist
 *
D. Q. 
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Relazioni e intersezionalità dei diritti da un punto di vista anche psicologico: ne parlo con hello_policose (Dott.ssa Dania Piras)

Il cervello umano ha fatto il ‹del †del ‹del †con le maniDal web (immagine libera da diritti)

Donatella Quattrone: Ciao, hello_policose. Grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
Tu sei psicologa ed attivista. Come concili le due cose?

Hello_Policose: grazie a te per avermi pensata e avermela proposta . All’inizio ho avuto mille dubbi su come fare, e ti confesso che non sono particolarmente diminuiti. Ciò che mi guida è la forte credenza che la psicologia non possa essere slegata dal tema dei diritti umani. Il mio è un lavoro di cura, di ascolto, di accoglienza, e non può prescindere dalla comprensione (e non semplice accettazione) della diversità. Ritengo necessario un approccio culturalmente umile a qualsiasi storia io incontri. Trovo questa modalità molto coerente con il mio essere attivista, dove non mi limito solo ad ascoltare, ma alzo anche la voce in difesa delle idee in cui credo. Il mio problema principale, al momento, è che su alcuni temi è faticoso mantenere un’immagine “decorosa” come viene richiesta dalla deontologia e allo stesso tempo esporsi in modo provocatorio per veicolari messaggi (ad esempio usando il corpo come territorio di protesta). Viaggio sempre sul confine e incrocio le dita.

Donatella Quattrone: Ti occupi, tra l’atro, di poliamore, tematiche Lgbtqia+, sex positivity. Quanto è difficile decostruire le convinzioni apprese per poter affrontare queste tematiche, in ambito psicologico, in una modalità il più possibile libera da pregiudizi?

Hello_Policose: Ho iniziato la mia decostruzione personale al liceo , quando ho scoperto la filosofia.
Negli anni mi sono sempre fatta domande, e grandissimi spunti sono arrivati all’università studiando sociologia e antropologia. Ho capito che il mondo che vediamo ogni giorno è solo uno dei tanti mondi che l’essere umano si è costruito nella Storia, e che ciò che crediamo vero o “normale” è assolutamente relativo alle nostre sovrastrutture culturali.
Essere nudi nel centro della foresta amazzonica non ha lo stesso significato che mostrarsi nudi in Europa. Il fatto che qui la nudità sia sessualizzata e scandalosa è una convenzione, il frutto di una serie di storie che si sono evolute e intrecciate, ma non esiste un meglio o un peggio. Lo stesso dicasi per le credenze sulla monogamia, gli orientamenti sessuali e altri concetti!
La parte più difficile della decostruzione è arrivata quando ho deciso di diventare un’attivista su Instagram, dove ho scoperto altre persone nel pieno del loro processo decostruttivo, che mi hanno insegnato tantissimo, sia come contenuti, sia come qualità delle domande che avrei potuto continuare a pormi. Il processo non è finito, ogni giorno scopro qualcosa di nuovo da riconsiderare sotto una nuova luce, e ad oggi posso dirti che è un’attività molto piacevole per me! Mi dà molta gioia. La parte complicata è riuscire a comunicare con chi questo processo non ha le forze o la voglia di iniziarlo.

Donatella Quattrone: Perché, secondo te, è importante l’intersezionalità nel femminismo?

Hello_Policose: Il femminismo è una teoria politica e filosofica complessa, composta da molte sfaccettature. Esistono vari femminismi, non ti nego che alcuni li temo un po’, come quello delle TERF. Esiste anche il femminismo liberale, che in sostanza desidera dare alle donne gli stessi privilegi degli uomini, per rompere il glass ceiling. L’errore fondamentale alla base di questo femminismo è che sembra il pianto di un bambin@ che dice “lo voglio anche io”, invece di rendersi conto che anche poter dire questa frase è un privilegio. Significa perlomeno che avresti la possibilità di ascendere nella tua posizione di classe, che puoi studiare, che sai leggere, che sei abile. Non tutte le donne del mondo hanno questa possibilità. Il femminismo intersezionale invece prende in considerazione l’intersezionalità dell’oppressione, e non si occupa solo di donne, ma vede un problema nel sistema, un sistema che opprime uomini e donne e anche persone non binarie, di qualsiasi etnia, con qualsiasi orientamento sessuale, con qualsiasi disabilità, con qualsiasi tipo di corpo.
E’ un femminismo che tende a decostruire per creare qualcosa di migliore, non per dare solo a chi riesce ad alzare meglio la voce perchè ha il megafono in mano. Oltre al fatto che essendo tutty vittime di varie oppressioni, nell’intersezionalità possiamo trovare una sorellanza e fratellanza che può veramente fare la differenza. Non è una gara a chi sta peggio.
Donatella Quattrone: Da psicologa, quanto consideri importante l’educazione affettiva e sessuale? Andrebbe affrontata nelle scuole e a partire da quale età?
Hello_Policose: Per me l’educazione sessuale e affettiva è FONDAMENTALE.
Vorrei citare un passo del Manifesto degli Esploratori Sessuali di Ayzad: “Non serve essere fini psicologi per capire che una vita sessuale irrisolta – derivante a sua volta da una cattiva o del tutto assente educazione all’affettività – sia all’origine di disagi di ogni scala, da quella individuale alla più ampia scala sociale. Coppie in difficoltà, violenze di genere, discriminazioni, soprusi, conflitti culturali, perfino intere crisi internazionali possono farsi risalire con impressionante evidenza a una grande infelicità erotica di fondo, esacerbata dall’ipersessualizzazione delle informazioni che ci bombardano costantemente.”
Credo che la gigantesca idiosincrasia di un mondo sessuofobico che ci vende persino gli yogurt alludendo al sesso sia veramente una delle cause maggiori di moltissimi problemi sociali. Per non parlare poi di tutto il tema del consenso e dell’attenzione all’Altro, che molte persone non sanno nemmeno cosa sia. Spesso i bimby vengono forzati a ricevere un bacio o un abbraccio, da un coetaneo o dalla zia di turno, e fatti sentire in colpa se rifiutano. Si comincia da qui, dalla prima infanzia, ad insegnare che il proprio corpo è un confine che può essere attraversato solo consensualmente, e che esplorarlo con curiosità, fare domande al riguardo, è assolutamente legittimo.
Ricordiamoci che se non diamo noi le risposte ai bambiny, loro le troveranno da altre parti, in altri modi, e non è detto che siano modi migliori. Per quello che riguarda gli adolescenty, senza ombra di dubbio, io ne farei una materia scolastica o perlomeno uno spazio settimanale di confronto e crescita dove parlare di emozioni, relazioni, comunicazione, sessualità, parità di genere, paure, futuro e studiare anche un minimo la storia delle relazioni nell’essere umano non sarebbe una cattiva idea. Ma io sono una sognatrice utopistica, forse.

Donatella Quattrone: Come si può imparare a riconoscere dipendenza affettiva e relazioni tossiche?
Hello_Policose: Non credo ci sia un metodo universale, ma sicuramente ci sono dei campanelli d’allarme.
Partiamo dal fatto che ognun@ di noi dovrebbe essere sufficientemente centrato e consapevole delle sue fragilità e dei suoi bisogni, ed esserne responsabile.
Ovviamente sarà difficile esserlo al 100%, ma diciamo che almeno in una buona parte… sarebbe auspicabile. Questo permetterebbe di non usare l’altra persona come oggetto con cui colmare i propri vuoti, su cui proiettare le proprie insicurezze, a cui chiedere di soddisfare i propri bisogni. L’Altro non ci appartiene, non ci deve nulla, deve poter scegliere ogni giorno di starci accanto: se resta perchè si sente in colpa, o perchè viene manipolato, o perchè viene ipercontrollato, sicuramente c’è qualcosa che non va. Lo stesso vale per noi, e sarebbe opportuno farsi sempre domande sulle nostre relazioni e sul perché vi restiamo dentro anche quando ci fanno sentire male. In particolare, nella nostra cultura c’è un alto livello di tossicità nel tema della gelosia, che normalizza il possesso e lo fa diventare una prova d’amore. Conosco molte coppie che a parole affermano di non essere possessive, ma poi nella pratica se l’altra persona non si mostra almeno un po’ gelosa, non si sentono amate. Scardinare questa normatività è un lavoro lungo e complesso.
Donatella Quattrone: Come consideri la gestione del tempo e delle energie da dedicare a se stess* e a tutt* i partner all’interno di una famiglia non-monogama?
Hello_Policose: La considero un’impresa titanica se non si impara a comunicare bene! La questione ovviamente non riguarda semplicemente il tempo e le energie, ma il significato che diamo ad esse. Se dedico più tempo a qualcun@, anche accidentalmente, sono consapevole di come potrebbero sentirsi gli altry?
Sono dispost@ a rassicurare, ascoltare, accogliere le eventuali emozioni altrui?
Sono capace di esprimere come mi sento senza essere passiv@-aggressiv@ quando mi sento trascurat@ oppure ho semplicemente un momento di insicurezza? Sono consapevole e responsabile delle mie emozioni, so darci un nome? So cosa mi triggera emotivamente, so spiegarlo?
Queste, e altre, sono le premesse fondamentali ad un buon equilibrio nella relazione, al di là del problema del tempo e delle risorse. Come noterai, non dovrebbero riguardare solo le non monogamie, ma un po’ tutti i tipi di relazione!

 
Donatella Quattrone: Che differenza c’è tra una relazione poliamorosa e una coppia aperta?

 
Hello_Policose: Appartengono entrambe al mondo delle non monogamie consensuali, ma la coppia aperta è più simile ad una coppia monogama che però non richiede esclusività sessuale. Questo può declinarsi in vari modi: si possono condividere partner sessuali oppure vivere una vita sessuale senza rendere conto all’altr@ (DADT: Don’t Ask, Don’t Tell). Resta però fondamentale l’esclusività sentimentale, quindi non si è aperti all’idea di relazioni con altre persone, nè al fatto che un@ dei due possa innamorarsi di altry.
Il poliamore invece esce un po’ da questa dinamica dell’esclusività sentimentale, ed è molto più fluido come modalità relazionale. Ci sono vari modi di “comporre” una relazione poliamorosa, per questo si parla in modo simpatico di “polecole”: sono tutte diverse l’una dall’altra e alcune sono molto complesse! E non è comunque detto che tutty debbano interagire o innamorarsi di tutty. La cosa fondamentale è comunque che si sta parlando di sentimenti, di amore, e di relazioni, e soprattutto di consenso. Si chiamano non monogamie consensuali per questo! 😉

(Non so se sono stata chiarissima in questa risposta).

 
Donatella Quattrone: Sei stata chiara. Come consideri il rapporto tra il movimento del poliamore e la comunità Lgbtqia+?

Hello_Policose: Penso sia un rapporto in evoluzione. Molte persone della comunità LGBTQIA+ sono anche parte della comunità poliamorosa, mentre molte altre no. Tra queste ultime, una parte (non so quanto significativa) ha alcune visioni un po’ radicali, ne cito un paio per capirci: 1) chi crede che la monogamia sia la norma e l’unico tipo di relazione valida (mononormatività) 2) chi non pensa che le persone poliamorose dovrebbero essere considerabili queer e, per esempio, partecipare al Pride (specialmente se sono eterosessuali!). I due punti non si escludono mutuamente, perciò qualcun@ sostiene entrambe le cose.
Fatta eccezione per queste “polemiche”, le due comunità si intersecano spesso e condividono il minority stress, ovvero il fatto di essere soggette a discriminazioni, stigma, patologizzazioni. Anche per questo sarebbe essenziale far fronte comune per la stessa causa, senza per questo smettere di legittimare le diverse identità.

Donatella Quattrone: Cosa si potrebbe fare, secondo te, per contrastare fenomeni come slutshaming e polishaming?

Hello_Policose: Oltre all’educazione affettiva e sessuale nelle scuole ed in famiglia, secondo me è necessario un movimento dal basso (che sta già avvenendo), una nuova rivoluzione sessuale che porti una narrazione diversa, incentrata sulla sex positivity, che smetta di interpretare i corpi e le libere scelte su di essi come qualcosa di giudicabile moralmente o di patologizzabile.
Una libertà consapevole, informata, dove ognun@ è soggetto e non oggetto passivo o vittima impotente. Una quotidianità dove i ruoli di genere vengono messi in discussione, dove gli stereotipi culturali perdono potere.
Per essere parte di questa rivoluzione penso che prima di tutto sia necessaria la forza di sopportare le conseguenze della ribellione… una forza che non è scontata, e averla è un privilegio, ricordiamocelo, perché questa è una battaglia contro un sistema potente, che non possiamo pensare di vincere in campo aperto. Quella che sta avvenendo attualmente è una guerriglia: sono piccoli sabotaggi, estenuanti, che molte persone stanno portando al sistema. Ad esempio, la rivendicazione della parola “puttana” come attributo positivo di una donna libera sessualmente e felice di godere è uno dei tanti modi che alcun@ attivist@ stanno usando per portare l’attenzione sullo slut shaming, sull’oggettificazione dei corpi femminili, sullo stigma che colpisce il mondo dell@ sex workers, sul problema che la società ha ancora con una persona che si dichiara libera di fare ciò che vuole con chi vuole.
Sembra una piccola cosa, ma è un ottimo innesco per aprire un discorso più ampio e complesso, e portare a farsi domande sul perchè le cose stiano come stanno.
Donatella Quattrone: C’’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista?

Hello_Policose: Ti ringrazio per le domande estremamente stimolanti. Vorrei aggiungere una riflessione sulla potenza dei social, che se usati bene portano davvero dei cambiamenti incredibili nelle vite dei singoli e anche – perché no – nella società.
La rete di attivist@ di cui ho parlato è in espansione e io non la vivo solo come una realtà virtuale. Sono persone vere, che spendono tempo (unica cosa che ci appartiene davvero, come dice Seneca) e grande energia per fare divulgazione. La maggior parte sono molto giovani e competenti, fanno letture impegnative, si mettono in gioco per dialogare e imparare da chi capita sulla loro pagina. Tutto questo mi riempie il cuore di gioia e onestamente mi dà molta fiducia nel futuro, perché prima di entrare a far parte di questa fetta di mondo mi sentivo un po’ una specie di Don Chisciotte senza speranza, oltre che priva di mezzi e incapace di sentirmi un agente efficace di cambiamento anche nel mio piccolo. Ora avverto la potenza di questo metterci la faccia, tutty insieme, e di non stare in silenzio o indifferenti di fronte alle cose ingiuste. Su di me, personalmente, tutto questo ha avuto un effetto terapeutico. Il mio augurio è che possa averlo per chiunque altr@ in questo momento si sente sol@ e scoraggiat@ come la sono stata io.

Grazie ancora per l’intervista,

Dott.ssa Dania Piras

Donatella Quattrone: grazie a te per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

D. Q.