Intervista alla redazione di Uniporn TV

Da web ( immagine libera da diritti)

1) Il vostro sito web si apre con la dicitura “la prima piattaforma italiana dedicata al porno etico e indipendente” Cosa s’intende, dal vostro punto di vista, con l’espressione “porno etico”?

Il porno è “etico” quando risponde a una serie di requisiti. Innanzitutto, le persone che vi hanno lavorato devono averlo fatto liberamente e previo consenso, senza coinvolgimento di minori. In secondo luogo, come per ogni lavoro, deve esserci stato un giusto riconoscimento economico o la scelta consapevole di farlo in forma di attivismo. In ogni caso che il film sia realizzato in un contesto libero da sfruttamento e forme coercitive o gerarchiche. Infine, ma non meno importante, tutte le sessualità, i desideri e i corpi possono essere rappresentati.


2) Come scegliete i film che proponete?

I film vengono scelti attraverso vari canali. Dai festival allo scouting vero e proprio. Sempre più spesso però veniamo contattati noi da regist* e performers che vorrebbero condividere i loro lavori sulla nostra piattaforma.


3) Secondo voi, come è cambiata la pornografia nei suoi passaggi dal cinema alle videocassette e infine al web?

Al passaggio dal cinema “a luci rosse” alle VHS e, infine, alle piattaforme di pornografia online abbiamo dedicato uno dei nostri primi articoli sul blog di Uniporn. Volendo tracciare una breve (e un po’ parziale) storiografia, possiamo dire che il cinema in quanto luogo pubblico, implicava un certo grado di esposizione, quindi il pubblico ovviamente era prevalentemente maschile. Allo stesso tempo costituiva anche un luogo di ritualità collettiva. Con le VHS la cosa cambia radicalmente, la pornografia entra nelle case, diventa più accessibile e si è meno esposti quando la si guarda. Infine, grazie a internet, questa accessibilità diventa ancora più ampia. Da un lato sicuramente il rischio è quello dell’assenza di un filtro, soprattutto nel caso di contenuti violenti, dall’altro lato però la rete ha implicato maggiore scambio e accessibilità a contenuti non mainstream, come ad esempio il porno etico.


4) Piattaforme come la vostra nascono con l’intento di essere alternative al porno mainstream o per allargare gli orizzonti della pornografia?

Preferiamo immaginarci più come possibilità che come alternativa. Anche nel porno mainstream c’è molta professionalità e ha avuto un ruolo importantissimo creando breccia in varie battaglie attraverso alcuni suoi personaggi di spicco. Solo crediamo che non basti e che non ci rappresenti tutt*.


5) Quanto conta l’intersezionalità dei temi all’interno di una pornografia che si definisce etica?

L’intersezionalità è un po’ la chiave di lettura principale. Sia in termini di rappresentazione dei corpi, dei desideri e delle identità sessuali, sia in termini di capacità di creare una vera e propria cultura del sesso. La pornografia ha a che fare con i rapporti di potere e con l’intimità, il corpo e il desiderio sono da sempre terreno di battaglia e allo stesso tempo strumenti di resistenza e di liberazione.

6) C’è qualcosa che vorreste aggiungere?

Una cosa che non ci stancheremo mai di ripetere è che la pornografia è uno strumento di produzione culturale con una grossissima responsabilità, perché contribuisce a creare gli immaginari legati alla sessualità delle persone. Non è quindi possibile pensare di combattere la violenza di genere senza ripensare la pornografia in senso etico, a partire dal riconoscimento dei diritti delle e dei sex workers.

Recensire sex toys attraverso video porno: il progetto di GaiaOnTop

Le seguenti foto sono state a me fornite per gentile concessione della persona interessata.

 

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  • Da alcuni anni ti occupi della vendita e sponsorizzazione di sex toys. Come è nata la passione per gli oggetti del piacere tanto dal volerne fare una professione?

 

E’ da circa dieci anni che sono in questo settore ma prima lavoravo per un’altra azienda. Da lì ho visto la possibilità di creare un mio marchio che è La Chiave di Gaia. Vendiamo prodotti con materiali certificati, di qualità. La passione verso questi oggetti c’è sempre stata, poi ne ho fatto un lavoro.

 

  • Ad un certo punto hai iniziato a produrre video su diverse piattaforme in cui mostri l’uso dei sex toys, provandoli su te stessa, quindi dei veri e propri contenuti pornografici. Come ti è venuta quest’idea?

 

Io ho sempre proposto i toys come strumenti di benessere. Sono stata tra le prime a proporre questi prodotti. Ad un certo punto, vedendo che il mercato era cambiato, ho deciso di provare un’altra modalità di promozione. Ho visto su Pornhub un’attrice francese che faceva video per un’azienda. Io avevo già un’azienda e ho deciso di provare pensando che le persone potessero sentirsi più vicine a me che ad un’attrice. Così è nata GaiaOnTop. La piattaforma che uso più spesso è Pornhub, poi uso anche altre piattaforme.

 

  • C’è qualcuno che ti aiuta nella tua attività?

 

Sì, ho mio marito che si occupa della parte di regia, della parte informatica che è la parte più difficile di questo lavoro, cioè gestire i social e occuparsi della qualità dei video. A volte bisogna lavorare di notte ed è necessario conoscere bene l’inglese perché Pornhub è americano. Se non avessi avuto mio marito avrei dovuto trovare un’altra persona che mi aiutasse nella parte pratica, perché io sono più portata per la parte creativa. Mio marito mi aiuta anche per la piattaforma di OnlyFans e per i social. C’è anche una mia amica che mi aiuta in questa parte del lavoro. Abbiamo anche un canale su YouTube. Questo perché non tutti sono abituati a cercare contenuti pornografici. Quindi ho voluto creare contenuti anche per un pubblico più femminile perché il pubblico di Pornhub è ancora molto maschile. Ho deciso anche di creare dei contenuti di coppia. Io sono la parte più dominante della coppia. Noi vogliamo comunicare che si può giocare, che non c’è nulla di male nell’usare i toys, anzi può essere divertente. In questi video io sono sempre la parte più protagonista.

 

  • Ti consideri una venditrice di sex toys che fa porno o una pornostar che vende sex toys? Ovvero il tuo è un lavoro più divulgativo o più sessuale?

 

Che bella domanda! Secondo me non c’è molta differenza. Sono sempre una sex worker. Lo ero anche prima perché parlavo di sesso anche se in quel momento lì non facevo porno. Non è mai stata solo una vera e propria vendita diretta perché parlavo con la gente. Quindi non c’è molta differenza con il lavoro che faccio adesso, solo che prima lo facevo soltanto con le parole e adesso anche con i video. Il lavoro di vendita è qualcosa che avviene di conseguenza. C’è anche gente che mi scrive dicendo di non aver mai usato toys ma che si è incuriosita con i miei video. C’è ancora tanto da lavorare sull’informazione in questo campo in Italia.

 

  • Come pensi di proseguire nel tuo progetto?

 

L’idea è quella di trovare sempre dei prodotti interessanti riguardo i toys. Nel frattempo sto creando nuovi contenuti e sto facendo anche delle collaborazioni. Per quanto riguarda il futuro, è difficile darsi una scadenza in questo lavoro. Parallelamente mi sto laureando in psicologia e conto di poter lavorare anche come psicologa oltre che come pornostar. Nell’immediato futuro spero di aumentare i numeri degli iscritti su Pornhub anche perché su questa piattaforma non sono molte le pornostar italiane.

 

  • C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

 

Per quanto riguarda la sessualità, credo che bisogna sempre lottare per la propria libertà d’espressione. Il fatto di essere moglie e madre è ancora molto limitante quando si fa porno.

   Una cosa che a me non piace è il darsi troppe etichette. Se oggi può esistere una sessualità di tipo fluido, secondo me, non dovrebbe essere necessariamente etichettata. Non mi piace il fatto di dovermi per forza definire bisessuale qualora abbia rapporti con una donna perché, secondo me, non viviamo la sessualità secondo le definizioni che ci diamo. Io cerco di portare quest’idea anche nei miei video.

   Trovo assurdo, parlando di inclusività, che un lavoro come quello dei vari tipi di sex workers non sia legittimato. Io mi sono trasferita nelle Canarie perché qui quando porto mia figlia a scuola non mi giudicano se faccio la pornostar. Invece in Italia spesso mi dicono di non condividere la mia professione. Io trovo assurdo il non condividere le professioni altrui. Cerco d’insegnare a mia figlia che non dobbiamo avere troppi stereotipi e che non dobbiamo giudicare. Nei miei video mi piace far vedere che anch’io posso prendere l’iniziativa e non solo mio marito. Le coppie posso funzionare in molti modi.

Links: gaiaontop.com 

onlyfans.com/gaiaontop_free 

Instagram : gaiaontop_official 

 

Intervista a Carmen Ferrara, attivista non-binary e ricercatrice in formazione

 

Carmen Ferrara

Io: Ti definisci un’attivista per i diritti LGBTI non-binary. Ti va di spiegarci cosa significa?

C.F.: Certo. Io sono una persona non binaria, non colloco la mia identità di genere in maniera binaria, non sono un mix di maschile e femminile, rifiuto proprio di definirmi in relazione a questi parametri. Per convenzione e per una scelta politica utilizzo i pronomi femminili. Rispetto alla mia identità di attivista, innanzitutto ci tengo a dire che non si fa attivismo, ma si è attiviste. Quando ero al terzo anno di liceo mi sono innamorata della mia compagna di banco. Non ho fatto coming-out come lesbica, perché questo presupponeva che io fossi donna. Ho semplicemente detto di provare dei sentimenti per una ragazza. Provengo da un piccolo paese vesuviano e non avevo internet a casa, ma lo usavo a casa di amici. Tramite un sito di incontri ho scoperto l’esistenza di associazioni e ho iniziato a frequentare Antinoo Arcigay Napoli, ormai quasi dieci anni fa. Ho preso consapevolezza dei miei diritti e delle ingiustizie sociali, per cui è stato naturale iniziare ad impegnarmi attivamente.

Io: Rispetto al tuo percorso di studi, cosa ti ha spinto al punto da voler intraprendere un dottorato di ricerca nell’ambito degli studi di genere?

C.F.: Ho fatto un liceo delle scienze umane, che all’epoca di chiamava socio-psico-pedagogico. Per la mia famiglia era strano che dopo il liceo volessi fare l’Università perché provengo da un contesto umile. La mia famiglia non aveva possibilità economiche e mi sono mantenuta facendo vari lavori: il call center, la cameriera, le pulizie, la badante. Sapevo che studiare era un modo per migliorare la qualità della mia vita, per prendere le distanze da modalità violente che caratterizzavano l’ambiente in cui sono cresciuta e soprattutto per potermi difendere. Sia alla triennale che alla magistrale ho studiato Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, volevo comprendere la società e imparare l’inglese per ampliare le mie opportunità. Durante la stesura della tesi mi sono approcciata alla ricerca e me ne sono appassionata. La prima è stata sui migranti LGBTI, la seconda è stata sulla pianificazione strategica delle politiche di inclusione a Malta. Dopo di che ho iniziato a collaborare con un think tank, spin-off dell’Università di Cambridge che si chiama GenPol- Gender & Policy Insights. Un dottorato in studi di genere mi sembrava la naturale evoluzione del mio percorso e quindi ho fatto domanda per un dottorato transdisciplinare dal titolo “Mind, Gender and Language” sempre alla Federico II di Napoli.

Io: Nel libro che hai pubblicato sottolinei l’importanza dell’intersezionalità, cos’è e perché è importante?

C.F.: L’intersezionalità è un concetto spesso abusato, ma se applicato con criterio consente di rendere visibili forme di oppressione che altrimenti sarebbero neutralizzate. Nel caso delle donne trans nere, ad esempio, è fondamentale adottare un approccio intersezionale per comprendere le discriminazioni che possono subire. Facciamo il caso che in un progetto per l’inclusione lavorativa delle persone trans e delle persone migranti i datori di lavoro accettino di assumere solo persone trans bianche e persone migranti cisgender. Cisgender, per intenderci, è il contrario di transgender. Come ci insegna Kimberlé Crenshaw, che è colei che ha teorizzato questo concetto, se una donna trans nera non viene assunta da nessuna azienda e per leggere l’accaduto si utilizza la lente dell’identità di genere, i datori di lavoro potranno dire che non hanno fatto alcuna discriminazione di genere, perché loro hanno assunto delle persone trans. Se guardiamo alla razza, loro diranno che non sono stati razzisti, perché hanno assunto persone migranti. Però non hanno assunto nessuna donna trans nera e questa discriminazione può essere vista solo se si osservano contestualmente le dimensioni del genere e della razza e il  loro punto di intersezione. Nelle pratiche politiche è importantissimo adottare un approccio intersezionale, perché non ci si può battere per i diritti delle persone LGBTI senza considerare le persone LGBTI migranti e/o disabili e, aggiungo, è controproducente impegnarsi per i diritti di una minoranza senza fare fronte comune.

Io: C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

C.F.: Sì, un altro aspetto importante da considerare è legato alla povertà, alla lotta di classe. E quando parlo di povertà ovviamente parlo di povertà economica, educativa, deprivazione materiale e affettiva. Noi che siamo meridionali lo sappiamo bene. In questo momento, tra le varie cose, mi sto occupando di una particolare forma di violenza di genere, che è la violenza domestica nelle relazioni con partner LGBTI ed è sconvolgente il numero di survivors senza fissa dimora, per cui non esistono servizi, né rifugi. Questo è un dato che come associazione conosciamo bene, ma supportare la ricerca vuol dire raccogliere dati e avere contezza di un fenomeno consente di fare pressione sul legislatore e di porre in essere politiche e servizi che tengano conto dei bisogni specifici.

Raccogliere informazioni è propedeutico alla creazione di una società più giusta. Poi credo sia importante che chiunque lo faccia (come te hai un blog, da poco ne ho aperto uno anch’io) per sensibilizzare in più ambiti possibili.
In conclusione vorrei dire che in questo momento di pandemia, è fondamentale più che mai non dimenticare tutte le persone che vivono ai margini, in spazi senza privacy e senza poter accedere ai paracaduti sociali, pensa alle sex workers senza cittadinanza.
Io sono senza dubbio una persona privilegiata sotto tanti punti di vista e, tra l’altro, posso dirti che oltre ai legami di sangue che lasciano il tempo che trovano se non coltivati, per molte persone queer come me la comunità diventa la tua famiglia. Quando sono stata a Malta per il periodo di ricerca etnografica non conoscevo nessuno, ma il fatto che fossi un’attivista mi ha fatto trovare lì una comunità che mi ha accolta come se mi conoscesse da sempre. Mi ritengo veramente una persona molto fortunata.

Intervista a Martina Donna, attivista, scrittrice e blogger omodisabile

Martina Donna

Ho intervistato Martina Donna, attivista per i diritti lgbt+, scrittrice e blogger affetta da tetraparesi spastica dalla nascita, autrice del  romanzo IO SONO MARTINA una ragazza, una sedia a rotelle, un amore, un’avventura. Questo il suo profilo Instagram:
Ecco, di seguito, l’intervista:
  • Tu ti definisci omodisabile. Ti va di parlarmi di questo doppio canale con cui vivi la tua identità e il tuo attivismo?

Tante persone mi chiedono se penso di essere detentrice di due diversità e come mi sento. Penso di esserlo, ma usare la parola diversità oppure normalità non mi piace.  Mi domando invece: Che cos’è la diversità? Che cos’è la normalità? Semplice. Ognuno di noi può decidere che cosa considerare diverso oppure no, che cosa definire normale oppure no.  Non credo affatto di avere dei limiti o sfortune, a detta di alcuni. Sono convinta invece di possedere delle carte uniche e vincenti, che mi consentono di vivere una vita piena e appagante. Mi definisco attivista da quando sono stata nominata rappresentante della categoria e mi sento davvero onorata. Tutto ha avuto inizio quando mi è stato dato l’enorme privilegio di parlare sul palco del Milano Pride 2019. Amo interagire con le persone e essere attivista mi ha facilitato ulteriormente in questo. Il mio obbiettivo è raggiungere il cuore di chi lo desidera e dare così l’aiuto di cui si ha bisogno. Inoltre voglio lasciare una traccia positiva del mio passaggio su questa terra e fare il possibile per annullare pregiudizio e discriminazione.

  • Ti capita di subire discriminazioni? Se sì, avviene più spesso per la tua disabilità, per l’orientamento sessuale o in egual modo per entrambe le condizioni?

Sì, nella vita mi è capitato durante l’adolescenza. Gli anni della scuola, soprattutto le medie, sono stati anni difficili e duri. Venivo bullizzata a causa della mia disabilità, in quegli anni non era iniziato il mio processo  di accettazione e sono convinta che questo abbia facilitato gli atti di bullismo subiti. Riguardo il mio orientamento sessuale, invece, non ho subito alcun tipo di discriminazione. Piuttosto ho provato un totale senso di inclusione e accettazione all’interno dell’intera comunità LGBT+

  • Parlare della sessualità delle persone disabili è, purtroppo, un tabù diffuso. Disabilità e omosessualità insieme rappresentano un tabù nel tabù?

È un tabù sfortunatamente, non perché realmente lo sia, ma perché la nostra società è da sempre abituata a considerare questi due fattori tabù in quanto la persona con disabilità viene percepita ancora oggi come asessuata. Dunque essere anche omossessuali crea un ulteriore choc sociale. Uno dei miei obbiettivi come attivista è proprio quello di distruggere definitivamente questo tabù, perché non rispecchia la realtà, ma la distorce alimentando in maniera costante pregiudizio e discriminazione. I disabili fanno sesso, eccome se lo fanno! Hanno una sessualità normale, anzi a volte addirittura migliore di quella dei normodotati. Poi mi domando in ultimo quale diritto ha un normodotato di presumere o anche solo pensare che la persona con disabilità sia asessuata perché disabile? È perché non si pensa o si presume la stessa cosa per voi cari normodotati?

  • Nella società abilista ed eteronormata in cui viviamo, cosa potremmo fare per sensibilizzare sempre di più all’accettazione e valorizzazione dei corpi e delle sessualità non conformi?

Premetto che usare la parola abilista è discriminatorio verso tutte le persone disabili. Peraltro il termine abilismo è finalmente all’interno della Treccani. Perciò utilizzeremo la parola società normodotata, o ancora meglio nella società di persone non disabili. Per far sì che la sensibilizzazione funzioni è necessario interrompere la catena del pregiudizio mediante l’informazione. Dove non c’è informazione nascono i pregiudizi. È un circolo vizioso che deve essere spezzato. Bisogna ricordare come detto all’inizio che il diverso viene visto tale perché lo si vuole vedere in quel modo. Lo stesso vale per sessualità e corpi non conformi. La diversità, il problema, sta sempre negli occhi di chi vuole e continua a considerarlo come tale.

  • Quanto è importante, secondo te, l’intersezionalità delle lotte per i diritti umani?

L’intersezionatilità è importante ma non fondamentale. Ciò che conta a mio avviso sono le azioni compiute dal singolo individuo per portare a compimento l’obbiettivo prefissato. Possono esserci disabili eterosessuali, persone non disabili omosessuali oppure persone omodisabili come nel mio caso. Questo non rende diverso o meno importante l’impegno di tutti riguardo i diritti umani. Certo una persona con entrambe le cose può avere in alcuni casi una maggior apertura, ma non è affatto scontato.

  • Il sesso, nel senso di vivere anche fisicamente la sessualità, è un diritto? Perché?

Certamente! È un diritto e un bisogno per qualunque essere umano. I disabili sono persone con desideri e pulsioni eguali a quelle dei non disabili. Come già detto sopra. Per questo sarebbe fondamentale in Italia una legge che regolamenti la figura professionale dell’assistente sessuale, già regolamentata in Belgio, Svizzera, Danimarca, Germania, Olanda e Svezia. Negli USA questa figura è un connubio tra terapeuta, sessuologa e assistente personale. In Italia viene spesso associata alla prostituzione, ma non è affatto così. L’assistente sessuale non può praticare sesso in modo completo con il proprio assistito. Tale figura professionale si occupa non solo dell’aspetto fisico ma soprattutto dell’aspetto emozionale, aiutando la persona che assiste a trovare una sua dimensione sessuale. Il disegno di legge fortemente voluto da Sergio Lo Giudice (PD) e dalla parlamentare Monica Cirinnà rimane fermo al 2014. È disumano negare la sessualità a chi ne sente il bisogno, solo perché disabile.

  • Qualche giorno fa ricorreva la Giornata Mondiale della Disabilità? Ritieni utili simili iniziative?

Sì, il 3 dicembre era proprio la Giornata Mondiale Per Persone Con Disabilità. Questa data è importantissima e il suo obbiettivo è quello di sensibilizzare sul tema della disabilità ma soprattutto sul tema dei diritti. Purtroppo esistono ancora molte discriminazioni verso le persone con disabilità e questa giornata contribuisce all’abbattimento di tali discriminazioni. È inoltre concepita in un’ottica di dignità umana, perciò ritengo che questa data non sia soltanto utile ma fondamentale.

  • In quanto donna, disabile e lesbica, ritieni che il ddl Zan in contrasto al’omolesbobitransfobia, alla misoginia e all’abilismo, qualora approvato, cambierebbe l’impegno collettivo verso una sempre maggiore inclusione di tutte le soggettività?

Anche la legge Zan a mio parere è di fondamentale importanza e nutro la speranza che venga approvata anche al Senato. Sono fiduciosa che potrebbe cambiare l’impegno collettivo, ma soprattutto contribuirebbe ad un’apertura mentale a livello sociale della quale abbiamo estremamente bisogno, per poter essere una società sempre più inclusiva e sempre meno predisposta ad un qualunque tipo di discriminazione e pregiudizio.

  • C ‘è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

Siate sempre fieri di voi stessi e di ciò che fate. Non vergognatevi mai delle vostre scelte, non abbiate paura di chiedere ciò che ancora non conoscete o semplicemente vi incuriosisce. Andate oltre i vostri limiti e le vostre paure, solo così riusciremo a creare una società migliore e potremmo essere sempre un passo avanti. Fate sempre sentire il vostro grido al mondo.

D. Q.

 

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Sessualità, esibizionismo e pornografia: ne parlo con Claudia Ska di agit-porn

Claudia_Ska_IamNakedOnTheInternet

 Claudia Ska per “I am Naked on the Internet” a cui vanno i crediti
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Ciao, Claudia. Grazie per aver accettato quest’intervista.
  1. Tu ti definisci un’“agitatrice” e curi un sito internet chiamato agit-porn. Com’è nato questo progetto?

L’idea di aprire un sito in cui parlare di sesso e pornografia è di alcuni anni fa. In partenza mi sarebbe piaciuto aprire una sorta di magazine online che fosse pop ma dove poter dare spazio a interventi anche di stampo accademico con persone specializzate, col tempo si è fatta strada l’urgenza di non raccontare tanto le cosiddette “notizie calde”, ossia le news del giorno o della settimana, ma di fare una narrazione di più ampio respiro, dove proporre delle riflessioni che non si basassero semplicemente sull’attualità. Ci tenevo inoltre che il sito fosse strutturato come uno spazio fisico, una casa aperta a chiunque e con un’area dedicata alle esposizioni, di qui l’idea di aprire al suo interno l’Open Space, curato da Gea Di Bella de La camera di Valentina.

2. Affermi di essere esibizionista e parli spesso di esibizionismo. Cosa intendi nello specifico con questi termini?

Intendo esattamente quello che significano, ossia mettersi in mostra. Per quanto mi riguarda il mio è un esibizionismo puramente estetico, fisico, carnale, mi piace essere guardata, ma quando, come e da chi voglio io, ecco perché scelgo con cura le modalità di questa pratica. Sui social e in generale su Internet il mio esibizionismo è talvolta frivolo, fine a sé stesso mentre in altre occasioni lo sfrutto per fare storytelling. Non c’è una regola. Il mio esibizionismo è un modo per dire “Guardatemi, esisto!”. Tutto sommato attirare l’attenzione delle altre persone non è così difficile, è mantenerla su di sé la vera sfida.

3. Secondo te, perché parlare, scrivere, occuparsi di sessualità suscita, per molti, imbarazzo?

Se ti dico “senso del pudore”, che significa etimologicamente “senso della vergogna”, basta? Nonostante si parli e si fruisca di contenuti a tema sessuale, siano essi educativi (o più spesso ambiscano a essere tali) o ludici (la pornografia), e nonostante la nostra epoca sia caratterizzata da quello che in Sociologia è definito come “pornification” – ossia la pervasività a più livelli e in differenti contesti di codici derivanti dalla pornografia – non si possono cancellare millenni di mortificazione del corpo e della sessualità, pertanto è diffuso provare imbarazzo e vergogna ad affrontare questi argomenti tanto nel privato quanto pubblicamente. Il sesso e ciò che a esso è connesso sono ancora grandi tabù.

4. Una recente norma firmata Pillon vorrebbe creare un filtro antiporno per tutelare i minori. La pornografia è sempre diseducativa?

Ovviamente no! Questo emendamento all’articolo 7 bis nel Decreto Legge Giustizia è scritto male sotto l’aspetto sia formale che contenutistico. È moralista e pensa di sapere cosa sia giusto e sano per le persone piccole, di fatto volendo creare un blocco per chiunque, veicolando il messaggio che la pornografia sia sempre e solo sbagliata, diseducativa e pericolosa. Anche se così fosse, non sarebbe di certo un filtro censorio a risolvere il problema ma piuttosto un lavoro educativo fatto da persone lungimiranti e di mentalità aperta, non di certo un tizio notoriamente sessuofobo e omofobo.

5. In tempi di pandemia come possiamo adattare le nostre abitudini sessuali?

Questa potrebbe essere l’occasione per sperimentare (di più) con la masturbazione, anche utilizzando dei toy. Inoltre, dato che la tecnologia è stata utile per unirci e non farci perdere di vista, perché non utilizzare dei sex toy che possano essere controllati e gestiti anche da remoto? Potrebbe rivelarsi una buona un’occasione per perdere il controllo in modo soft. Sono inoltre una grande fan del sexting, ovviamente con l’uso di alcune accortezze per farlo in modo rilassato e quanto più possibile sicuro anche con persone sconosciute. Direi che la difficoltà reale sia trovare persone con cui sia piacevole farlo.
Il sexting è come il sesso: è soddisfacente se ci sono ascolto, empatia, curiosità, disinibizione e serenità. Senza giudicare e giudicarsi. Si tratta pur sempre di relazioni, che vanno create nell’arco di una singola chat, magari, non importa. L’intesa dipende non solo dai punti in comune, dalla visione che si ha del mondo, ma anche da come ci si approccia a esso.
A chi ha la possibilità di avere accanto delle persone con cui fare sesso, suggerirei di cercare senza ossessione nuovi stimoli nel quotidiano, ponendo attenzione a gesti che non hanno apparentemente relazione col sesso.
Comprendo, e mi permetto di consigliare di non forzare la mano, se le preoccupazioni e le ansie indotte da questa precarietà sanitaria e socio-economica dovessero far calare la libido o farla assopire temporaneamente. Credo sia fisiologico anche questo aspetto e ogni persona dovrebbe trovare il proprio equilibrio a modo suo senza sentirsi sbagliata o strana.

6. Che rapporto c’è tra sessualità e femminismo intersezionale?

Premetto subito che non sono una studiosa di femminismo e quindi la mia formazione è in itinere, pertanto non vorrei dare informazioni sbagliate o poco pertinenti. Quello che sto imparando rispetto al femminismo intersezionale è che, a dispetto di quello cosiddetto radicale  o separatista, non è oltranzista e discriminatorio e soprattutto mette in relazione le oppressioni, perché sono correlate. La posizione nei confronti della sessualità è quindi aperta e curiosa.

7. C’è qualcosa che vuoi aggiungere?

Secondo me c’è da fare ancora un enorme lavoro e per farlo in maniera significativa bisogna che chiunque si metta in discussione e metta in discussione le proprie posizioni. Dobbiamo ridiscutere le premesse di molte nostre argomentazioni, perché spesso sono inficiate dal principio. Penso a temi come “sessualizzazione” e “revenge porn”, per esempio, ma anche il lavoro sessuale e in generale il concetto di mercificazione (del corpo).

 

Grazie per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

Donatella Quattrone

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Disabilità ed abilismo: ne parlo con Elena e Chiara del blog “witty_wheels”

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bandiera del Disability Pride creata nel 2019 da Ann Magill

 

Ciao, Elena e Chiara. Vi ringrazio per aver accettato quest’intervista.

1)    Sui social vi fate chiamare witty_wheels e trattate i temi della disabilità e del contrasto all’abilismo. Com’è nato il vostro progetto?

Essendo sorelle ed entrambe disabili abbiamo sempre avuto il privilegio di poter discutere e decostruire insieme le nostre esperienze specifiche di persone in carrozzina, quindi abbiamo semplicemente pensato di cominciare a mettere per scritto i nostri pensieri e appunto esperienze. Il blog è nato nel 2015 parallelamente allo studio autonomo sui Disability Studies e sul lavoro di attivisti soprattutto inglesi e americani.

2)    Come spieghereste il termine abilismo a chi lo sentisse per la prima volta?

È il sistema di oppressione verso le persone disabili in cui tutti siamo immersi: comprende lo stigma, la discriminazione e la violenza. In soldoni è l’equivalente del razzismo, è strutturale quindi può avere mille forme. Il termine inglese è ableism, ed è una visione del mondo in cui avere un corpo-mente non disabile è valutato positivamente e in cui la disabilità è un difetto invece che un aspetto della varietà umana.

Qualche esempio per essere più concreti: quando completi estranei per strada danno i buffetti alle persone disabili (molestie abiliste) o quando chi seleziona il personale fa un colloquio a una persona disabile e non la assume per quel motivo. L’inaccessibilità di edifici, trasporti, eventi, eccetera. Il sistema dei servizi sociali che fa sì che sia più semplice trovare assistenza per le persone disabili in strutture chiuse o centri diurni che con servizi che permettano loro di vivere in modo indipendente all’interno della società (ad esempio l’assistenza personale).

3)    Oltre alle barriere architettoniche, quali altre difficoltà ricorrenti le persone disabili si trovano a dover fronteggiare quotidianamente?

Proviamo a fare un quadro in poche righe. Si può parlare di una vera e propria segregazione delle persone disabili. C’è il problema dell’accesso agli spazi e all’informazione, quindi anche delle barriere sensoriali, e ci sono molte limitazioni nell’accesso al trasporto pubblico. Poi in generale le persone disabili hanno bisogni specifici (software, carrozzine particolari, veicoli attrezzati, ausili di vario tipo) che spesso devono essere pagati di tasca propria. Questo si traduce in varie spese extra, infatti la disabilità è spessissimo un fattore di impoverimento. Le persone non autosufficienti poi hanno bisogno di assistenti personali che le aiutino nelle azioni quotidiane e – nella quasi totale ignoranza dell’opinione pubblica – i fondi non sono minimamente sufficienti e la maggior parte delle persone riceve poche ore di assistenza o è costretta a vivere in struttura con gravi limitazioni della libertà o a farsi assistere da familiari, amici o partner. A questo possono aggiungersi la discriminazione a scuola, al lavoro, nei luoghi di divertimento. I tassi di occupazione sono molto bassi per le persone disabili, ed è difficile accedere all’istruzione superiore sia per la scarsità di fondi per assumere assistenti sia per altri bisogni che non vengono soddisfatti dalle università. Anche le persone con le cosiddette “disabilità invisibili” faticano molto a vedersi riconosciuti i propri diritti e bisogni. Queste sono alcune delle difficoltà concrete, poi ovviamente la segregazione fa sì che siano ancora forti i pregiudizi di vario tipo verso le persone disabili, anche se in questo senso le cose stanno lentamente migliorando.

4)    Cosa s’intende per abilismo interiorizzato?

Le persone disabili ricevono dei messaggi forti e costanti dalla società, e possono finire per crederci. Ad esempio l’idea di essere un peso e un disturbo per i propri amici, familiari e partner, che porta le persone disabili a scusarsi perché magari sono più lente. O il pensare di non essere dei partner validi, e quindi di doversi “accontentare”, cosa che porta ad essere potenzialmente più vulnerabili agli abusi. Le difficoltà oggettive a realizzarsi nel lavoro o nello studio (a causa degli ostacoli sociali) possono portare a credere che non ci si riesca per cause intrinseche alla disabilità. Sono solo alcuni esempi di abilismo interiorizzato e se ne può uscire solo prendendo consapevolezza delle oppressioni intorno a noi e attraverso un confronto con altre persone disabili.

5)    Spesso si tende a voler “normalizzare” le persone disabili pensando che questo sia inclusione. Secondo voi, in che modo si potrebbe rendere visibile la disabilità per quello che è, cioè senza edulcorarla, riconoscendone l’intrinseca dignità?

Lasciando parlare le persone disabili: sembra banale, ma ancora non viene fatto a sufficienza. Troppo spesso infatti non vengono messe al centro le voci delle persone disabili sulle questioni che le riguardano. Quando le opinioni delle persone disabili verranno valutate di più potremo avere davvero un dibattito serio e consapevole. Anche la rappresentazione sui media fa tantissimo: finché le persone non disabili credono che la disabilità sia quella di libri come “Io prima di te” (largamente criticato dagli attivisti disabili) non possiamo evolverci più di tanto. Dobbiamo fare in modo che le persone disabili raccontino le proprie storie e essere scettici di chiunque parli al posto loro.

6)    Cosa s’intende con il termine inspiration porn?

Sono immagini o storie che oggettificano le persone disabili cercando di ispirare e motivare chi non è disabile, facendolo sentire fortunato: è una forma di rappresentazione problematica, ce n’è un sacco sui social, sulla stampa e in tv. Tipo la foto di un atleta con una protesi e la scritta “tu che scusa hai?”. Il messaggio implicito è che se può “fare cose” lui – una persona disabile che per forza dovrebbe passarsela peggio (!) – puoi farle anche tu spettatore non disabile. Oppure le notizie delle persone disabili che si laureano. Di solito queste storie non includono le parole della persona disabile e raramente criticano la mancanza di supporti sociali che ha reso eventualmente difficile laurearsi. O quando si parla di coppie in cui c’è una persona disabile e una no, descrivendo quest’ultima come eroica e invitando tutti a commuoversi su queste “coppie speciali”.

In questo modo si fanno passare come eventi eccezionali cose normali e quotidiane e si sottovalutano implicitamente le persone disabili. Non abbiamo bisogno di queste storie, abbiamo bisogno di vivere in pace le nostre vite senza che nessuno faccia diventare i nostri partner eroi sui giornali.

7)    Per le persone disabili è più importante il livello di autonomia personale o di autodeterminazione?

L’autodeterminazione è imprescindibile per ogni persona: per alcune persone disabili è determinata dalla presenza o meno dei giusti strumenti, che per qualcuno possono essere l’assistenza personale, per altri dei software specifici, carrozzine adatte alle proprie esigenze….

L’importante è non valutare l’autonomia (se intesa come il “poter fare le cose da soli”) ad ogni costo. Molte persone disabili fanno tutto da sole, anche a costo di metterci ore, faticando moltissimo, rifiutando aiuto anche quando ne hanno bisogno. Questo per cercare di sottrarsi allo stigma e al giudizio, perché la società spinge continuamente le persone disabili a sembrare il “meno disabili” possibile: ci sono un sacco di messaggi che riceviamo che possono portarci ad agire contro il nostro interesse e benessere.

8)    Quanto è indietro l’Italia, nell’assistenza ai disabili e nel superamento di barriere architettoniche, sensoriali e culturali, rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea?

Beh, dipende a quale paese ci riferiamo: non è certamente il paese peggiore in Europa. Noi abbiamo vissuto a Londra e lì vivere la città è di gran lunga più facile per chi come noi usa carrozzine elettriche (rispetto a gran parte delle città italiane). Per la nostra esperienza si può accedere alla maggior parte dei luoghi salvo delle eccezioni; mentre ad esempio nelle Marche dove viviamo è il contrario: i luoghi sono in gran parte inaccessibili salvo eccezioni. Qui è molto facile sentirsi ingabbiati. Inoltre in Inghilterra i fondi per assumere assistenti personali sono una realtà più consistente e consolidata, e questo fa una differenza enorme.

9)    Cosa mi dite riguardo a sessualità e vita di coppia nella condizione della disabilità?

C’è tanto da dire. C’è un pregiudizio ancora forte secondo cui chi sta, esce o fa sesso con una persona disabile è un eroe o un santo o si “accontenta”, si “sacrifica”.

Inoltre ci sono ancora tante persone attratte da una persona disabile, ma che oltre a farci sesso e stare con lei nel privato non ci uscirebbero pubblicamente, per paura delle reazioni esterne e perché una persona disabile non è il “trofeo” che la società si aspetta da loro. Dinamiche simili accadono alle persone grasse, trans o nere (soprattutto donne in coppie etero). Non si tratta dunque, ovviamente, di essere meno “desiderabili”, ma di avere appiccicato addosso uno stigma.

Inoltre gli ostacoli concreti di cui abbiamo parlato prima inficiano anche le relazioni: se non sei autosufficiente e non hai abbastanza ore di assistenza personale e agli appuntamenti ti deve portare tuo padre è super complicato. L’abilismo si fa sentire anche in ambito medico, in questo caso quando si parla di salute sessuale; esistono ancora i medici che si stupiscono che le persone disabili fanno sesso.

Servono tante cose: un’educazione sessuale davvero completa (per tutti); combattere la segregazione delle persone disabili e promuoverne le opportunità per partecipare alla società alla pari delle persone non disabili; promuovere il supporto alla pari tra persone disabili, dato che sono le altre persone disabili della community che ti danno i migliori consigli su cose molto pratiche e concrete come le posizioni, i sex toys (in particolare quando hai poca mobilità), il dating, l’abilismo nelle relazioni, il ruolo facilitatore degli assistenti personali.

Detto questo, crediamo anche che essere disabile, dati i giusti strumenti, possa contribuire a renderti più “sex positive”, considerando che viviamo in una società che ha problemi con il sesso.

Non essere autosufficienti e dipendere fisicamente da altre persone ti insegna a comunicare meglio, a farti meno “elucubrazioni” mentali e ad essere più assertivi, diretti e schietti. Inoltre la disabilità, introducendoti a marginalizzazioni di vario tipo, può insegnare ad essere più empatici verso le specificità altrui e tutto ciò che non è considerato “standard”. Può renderti più accorto e consapevole delle “red flags” (i segnali di allarme) nelle relazioni, e al tempo stesso più spontaneo. La disabilità può essere infatti un’occasione per essere più liberi dagli standard imposti, non farci dire cosa dobbiamo essere e pensare fuori dagli schemi. O almeno questa è la nostra esperienza.

10) Nel vostro blog e nelle vostre pagine social parlate anche di femminismo, tematiche Lgbt+ e antirazzismo. Quanto è importante, secondo voi, l’intersezionalità delle lotte per il riconoscimento e la salvaguardia dei diritti umani?

È fondamentale, la matrice dell’oppressione è comune. La liberazione è di tutti o di nessuno.

11) C’è qualcosa che volete aggiungere e/o lanciare un appello a chi leggerà quest’intervista?

Visto che siamo in un blog femminista, facciamo un appello alle realtà femministe 😀 perché parlino sempre di più di disabilità e contrasto all’abilismo, ascoltando le voci delle persone disabili e non dei professionisti non disabili. “Niente su di noi senza di noi”, come recita un motto del movimento di liberazione delle persone disabili.

Inoltre ricordiamoci che le molestie abiliste non sono l’unico tema di cui parlare in ambito femminista. L’assistenza personale ad esempio è un tema che riguarda fortemente l’autodeterminazione (se non hai assistenti sufficienti non sei libero neanche di alzarti dal letto, cucinarti quello che vuoi o uscire) e anche le dinamiche di potere (se sei dipendente da altri puoi trovarti più facilmente in dinamiche di abuso), temi prettamente femministi.

*

Vi ringrazio per la disponibilità e per il tempo che mi avete dedicato.

Donatella Quattrone

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Relazioni e intersezionalità dei diritti da un punto di vista anche psicologico: ne parlo con hello_policose (Dott.ssa Dania Piras)

Il cervello umano ha fatto il ‹del †del ‹del †con le maniDal web (immagine libera da diritti)

Donatella Quattrone: Ciao, hello_policose. Grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
Tu sei psicologa ed attivista. Come concili le due cose?

Hello_Policose: grazie a te per avermi pensata e avermela proposta . All’inizio ho avuto mille dubbi su come fare, e ti confesso che non sono particolarmente diminuiti. Ciò che mi guida è la forte credenza che la psicologia non possa essere slegata dal tema dei diritti umani. Il mio è un lavoro di cura, di ascolto, di accoglienza, e non può prescindere dalla comprensione (e non semplice accettazione) della diversità. Ritengo necessario un approccio culturalmente umile a qualsiasi storia io incontri. Trovo questa modalità molto coerente con il mio essere attivista, dove non mi limito solo ad ascoltare, ma alzo anche la voce in difesa delle idee in cui credo. Il mio problema principale, al momento, è che su alcuni temi è faticoso mantenere un’immagine “decorosa” come viene richiesta dalla deontologia e allo stesso tempo esporsi in modo provocatorio per veicolari messaggi (ad esempio usando il corpo come territorio di protesta). Viaggio sempre sul confine e incrocio le dita.

Donatella Quattrone: Ti occupi, tra l’atro, di poliamore, tematiche Lgbtqia+, sex positivity. Quanto è difficile decostruire le convinzioni apprese per poter affrontare queste tematiche, in ambito psicologico, in una modalità il più possibile libera da pregiudizi?

Hello_Policose: Ho iniziato la mia decostruzione personale al liceo , quando ho scoperto la filosofia.
Negli anni mi sono sempre fatta domande, e grandissimi spunti sono arrivati all’università studiando sociologia e antropologia. Ho capito che il mondo che vediamo ogni giorno è solo uno dei tanti mondi che l’essere umano si è costruito nella Storia, e che ciò che crediamo vero o “normale” è assolutamente relativo alle nostre sovrastrutture culturali.
Essere nudi nel centro della foresta amazzonica non ha lo stesso significato che mostrarsi nudi in Europa. Il fatto che qui la nudità sia sessualizzata e scandalosa è una convenzione, il frutto di una serie di storie che si sono evolute e intrecciate, ma non esiste un meglio o un peggio. Lo stesso dicasi per le credenze sulla monogamia, gli orientamenti sessuali e altri concetti!
La parte più difficile della decostruzione è arrivata quando ho deciso di diventare un’attivista su Instagram, dove ho scoperto altre persone nel pieno del loro processo decostruttivo, che mi hanno insegnato tantissimo, sia come contenuti, sia come qualità delle domande che avrei potuto continuare a pormi. Il processo non è finito, ogni giorno scopro qualcosa di nuovo da riconsiderare sotto una nuova luce, e ad oggi posso dirti che è un’attività molto piacevole per me! Mi dà molta gioia. La parte complicata è riuscire a comunicare con chi questo processo non ha le forze o la voglia di iniziarlo.

Donatella Quattrone: Perché, secondo te, è importante l’intersezionalità nel femminismo?

Hello_Policose: Il femminismo è una teoria politica e filosofica complessa, composta da molte sfaccettature. Esistono vari femminismi, non ti nego che alcuni li temo un po’, come quello delle TERF. Esiste anche il femminismo liberale, che in sostanza desidera dare alle donne gli stessi privilegi degli uomini, per rompere il glass ceiling. L’errore fondamentale alla base di questo femminismo è che sembra il pianto di un bambin@ che dice “lo voglio anche io”, invece di rendersi conto che anche poter dire questa frase è un privilegio. Significa perlomeno che avresti la possibilità di ascendere nella tua posizione di classe, che puoi studiare, che sai leggere, che sei abile. Non tutte le donne del mondo hanno questa possibilità. Il femminismo intersezionale invece prende in considerazione l’intersezionalità dell’oppressione, e non si occupa solo di donne, ma vede un problema nel sistema, un sistema che opprime uomini e donne e anche persone non binarie, di qualsiasi etnia, con qualsiasi orientamento sessuale, con qualsiasi disabilità, con qualsiasi tipo di corpo.
E’ un femminismo che tende a decostruire per creare qualcosa di migliore, non per dare solo a chi riesce ad alzare meglio la voce perchè ha il megafono in mano. Oltre al fatto che essendo tutty vittime di varie oppressioni, nell’intersezionalità possiamo trovare una sorellanza e fratellanza che può veramente fare la differenza. Non è una gara a chi sta peggio.
Donatella Quattrone: Da psicologa, quanto consideri importante l’educazione affettiva e sessuale? Andrebbe affrontata nelle scuole e a partire da quale età?
Hello_Policose: Per me l’educazione sessuale e affettiva è FONDAMENTALE.
Vorrei citare un passo del Manifesto degli Esploratori Sessuali di Ayzad: “Non serve essere fini psicologi per capire che una vita sessuale irrisolta – derivante a sua volta da una cattiva o del tutto assente educazione all’affettività – sia all’origine di disagi di ogni scala, da quella individuale alla più ampia scala sociale. Coppie in difficoltà, violenze di genere, discriminazioni, soprusi, conflitti culturali, perfino intere crisi internazionali possono farsi risalire con impressionante evidenza a una grande infelicità erotica di fondo, esacerbata dall’ipersessualizzazione delle informazioni che ci bombardano costantemente.”
Credo che la gigantesca idiosincrasia di un mondo sessuofobico che ci vende persino gli yogurt alludendo al sesso sia veramente una delle cause maggiori di moltissimi problemi sociali. Per non parlare poi di tutto il tema del consenso e dell’attenzione all’Altro, che molte persone non sanno nemmeno cosa sia. Spesso i bimby vengono forzati a ricevere un bacio o un abbraccio, da un coetaneo o dalla zia di turno, e fatti sentire in colpa se rifiutano. Si comincia da qui, dalla prima infanzia, ad insegnare che il proprio corpo è un confine che può essere attraversato solo consensualmente, e che esplorarlo con curiosità, fare domande al riguardo, è assolutamente legittimo.
Ricordiamoci che se non diamo noi le risposte ai bambiny, loro le troveranno da altre parti, in altri modi, e non è detto che siano modi migliori. Per quello che riguarda gli adolescenty, senza ombra di dubbio, io ne farei una materia scolastica o perlomeno uno spazio settimanale di confronto e crescita dove parlare di emozioni, relazioni, comunicazione, sessualità, parità di genere, paure, futuro e studiare anche un minimo la storia delle relazioni nell’essere umano non sarebbe una cattiva idea. Ma io sono una sognatrice utopistica, forse.

Donatella Quattrone: Come si può imparare a riconoscere dipendenza affettiva e relazioni tossiche?
Hello_Policose: Non credo ci sia un metodo universale, ma sicuramente ci sono dei campanelli d’allarme.
Partiamo dal fatto che ognun@ di noi dovrebbe essere sufficientemente centrato e consapevole delle sue fragilità e dei suoi bisogni, ed esserne responsabile.
Ovviamente sarà difficile esserlo al 100%, ma diciamo che almeno in una buona parte… sarebbe auspicabile. Questo permetterebbe di non usare l’altra persona come oggetto con cui colmare i propri vuoti, su cui proiettare le proprie insicurezze, a cui chiedere di soddisfare i propri bisogni. L’Altro non ci appartiene, non ci deve nulla, deve poter scegliere ogni giorno di starci accanto: se resta perchè si sente in colpa, o perchè viene manipolato, o perchè viene ipercontrollato, sicuramente c’è qualcosa che non va. Lo stesso vale per noi, e sarebbe opportuno farsi sempre domande sulle nostre relazioni e sul perché vi restiamo dentro anche quando ci fanno sentire male. In particolare, nella nostra cultura c’è un alto livello di tossicità nel tema della gelosia, che normalizza il possesso e lo fa diventare una prova d’amore. Conosco molte coppie che a parole affermano di non essere possessive, ma poi nella pratica se l’altra persona non si mostra almeno un po’ gelosa, non si sentono amate. Scardinare questa normatività è un lavoro lungo e complesso.
Donatella Quattrone: Come consideri la gestione del tempo e delle energie da dedicare a se stess* e a tutt* i partner all’interno di una famiglia non-monogama?
Hello_Policose: La considero un’impresa titanica se non si impara a comunicare bene! La questione ovviamente non riguarda semplicemente il tempo e le energie, ma il significato che diamo ad esse. Se dedico più tempo a qualcun@, anche accidentalmente, sono consapevole di come potrebbero sentirsi gli altry?
Sono dispost@ a rassicurare, ascoltare, accogliere le eventuali emozioni altrui?
Sono capace di esprimere come mi sento senza essere passiv@-aggressiv@ quando mi sento trascurat@ oppure ho semplicemente un momento di insicurezza? Sono consapevole e responsabile delle mie emozioni, so darci un nome? So cosa mi triggera emotivamente, so spiegarlo?
Queste, e altre, sono le premesse fondamentali ad un buon equilibrio nella relazione, al di là del problema del tempo e delle risorse. Come noterai, non dovrebbero riguardare solo le non monogamie, ma un po’ tutti i tipi di relazione!

 
Donatella Quattrone: Che differenza c’è tra una relazione poliamorosa e una coppia aperta?

 
Hello_Policose: Appartengono entrambe al mondo delle non monogamie consensuali, ma la coppia aperta è più simile ad una coppia monogama che però non richiede esclusività sessuale. Questo può declinarsi in vari modi: si possono condividere partner sessuali oppure vivere una vita sessuale senza rendere conto all’altr@ (DADT: Don’t Ask, Don’t Tell). Resta però fondamentale l’esclusività sentimentale, quindi non si è aperti all’idea di relazioni con altre persone, nè al fatto che un@ dei due possa innamorarsi di altry.
Il poliamore invece esce un po’ da questa dinamica dell’esclusività sentimentale, ed è molto più fluido come modalità relazionale. Ci sono vari modi di “comporre” una relazione poliamorosa, per questo si parla in modo simpatico di “polecole”: sono tutte diverse l’una dall’altra e alcune sono molto complesse! E non è comunque detto che tutty debbano interagire o innamorarsi di tutty. La cosa fondamentale è comunque che si sta parlando di sentimenti, di amore, e di relazioni, e soprattutto di consenso. Si chiamano non monogamie consensuali per questo! 😉

(Non so se sono stata chiarissima in questa risposta).

 
Donatella Quattrone: Sei stata chiara. Come consideri il rapporto tra il movimento del poliamore e la comunità Lgbtqia+?

Hello_Policose: Penso sia un rapporto in evoluzione. Molte persone della comunità LGBTQIA+ sono anche parte della comunità poliamorosa, mentre molte altre no. Tra queste ultime, una parte (non so quanto significativa) ha alcune visioni un po’ radicali, ne cito un paio per capirci: 1) chi crede che la monogamia sia la norma e l’unico tipo di relazione valida (mononormatività) 2) chi non pensa che le persone poliamorose dovrebbero essere considerabili queer e, per esempio, partecipare al Pride (specialmente se sono eterosessuali!). I due punti non si escludono mutuamente, perciò qualcun@ sostiene entrambe le cose.
Fatta eccezione per queste “polemiche”, le due comunità si intersecano spesso e condividono il minority stress, ovvero il fatto di essere soggette a discriminazioni, stigma, patologizzazioni. Anche per questo sarebbe essenziale far fronte comune per la stessa causa, senza per questo smettere di legittimare le diverse identità.

Donatella Quattrone: Cosa si potrebbe fare, secondo te, per contrastare fenomeni come slutshaming e polishaming?

Hello_Policose: Oltre all’educazione affettiva e sessuale nelle scuole ed in famiglia, secondo me è necessario un movimento dal basso (che sta già avvenendo), una nuova rivoluzione sessuale che porti una narrazione diversa, incentrata sulla sex positivity, che smetta di interpretare i corpi e le libere scelte su di essi come qualcosa di giudicabile moralmente o di patologizzabile.
Una libertà consapevole, informata, dove ognun@ è soggetto e non oggetto passivo o vittima impotente. Una quotidianità dove i ruoli di genere vengono messi in discussione, dove gli stereotipi culturali perdono potere.
Per essere parte di questa rivoluzione penso che prima di tutto sia necessaria la forza di sopportare le conseguenze della ribellione… una forza che non è scontata, e averla è un privilegio, ricordiamocelo, perché questa è una battaglia contro un sistema potente, che non possiamo pensare di vincere in campo aperto. Quella che sta avvenendo attualmente è una guerriglia: sono piccoli sabotaggi, estenuanti, che molte persone stanno portando al sistema. Ad esempio, la rivendicazione della parola “puttana” come attributo positivo di una donna libera sessualmente e felice di godere è uno dei tanti modi che alcun@ attivist@ stanno usando per portare l’attenzione sullo slut shaming, sull’oggettificazione dei corpi femminili, sullo stigma che colpisce il mondo dell@ sex workers, sul problema che la società ha ancora con una persona che si dichiara libera di fare ciò che vuole con chi vuole.
Sembra una piccola cosa, ma è un ottimo innesco per aprire un discorso più ampio e complesso, e portare a farsi domande sul perchè le cose stiano come stanno.
Donatella Quattrone: C’’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista?

Hello_Policose: Ti ringrazio per le domande estremamente stimolanti. Vorrei aggiungere una riflessione sulla potenza dei social, che se usati bene portano davvero dei cambiamenti incredibili nelle vite dei singoli e anche – perché no – nella società.
La rete di attivist@ di cui ho parlato è in espansione e io non la vivo solo come una realtà virtuale. Sono persone vere, che spendono tempo (unica cosa che ci appartiene davvero, come dice Seneca) e grande energia per fare divulgazione. La maggior parte sono molto giovani e competenti, fanno letture impegnative, si mettono in gioco per dialogare e imparare da chi capita sulla loro pagina. Tutto questo mi riempie il cuore di gioia e onestamente mi dà molta fiducia nel futuro, perché prima di entrare a far parte di questa fetta di mondo mi sentivo un po’ una specie di Don Chisciotte senza speranza, oltre che priva di mezzi e incapace di sentirmi un agente efficace di cambiamento anche nel mio piccolo. Ora avverto la potenza di questo metterci la faccia, tutty insieme, e di non stare in silenzio o indifferenti di fronte alle cose ingiuste. Su di me, personalmente, tutto questo ha avuto un effetto terapeutico. Il mio augurio è che possa averlo per chiunque altr@ in questo momento si sente sol@ e scoraggiat@ come la sono stata io.

Grazie ancora per l’intervista,

Dott.ssa Dania Piras

Donatella Quattrone: grazie a te per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

D. Q.