Il Ban di Trump e la Guerra Santa del nerd canadese

31 gennaio 2017

Pubblicato da

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. L’ordine mondiale è scosso dal Ban di Trump, che impedisce l’ingresso negli Stati Uniti a i cittadini di Iran, Iraq, Libya, Somalia, Sudan, Syria and Yemen. Sulla prima pagina del New York Times tiene banco il conflitto istituzionale circa la nomina del nuovo Attorney General, in relazione alla legalità del Ban e dell’opportunità che i legali del Dipartimento della Giustizia lo dichiarino ammissibile. La nostra agenda ci porta, però, in Canada, a Quebec City, appresso ad una notizia che sta riscuotendo attenzione molto inferiore alla portata del fatto, di gravità pari, se non superiore a vari altri che abbiamo seguito e discusso. Si tratta dell’attentato alla moschea locale, nel corso del quale sono morte sparate sei persone e otto altre sono rimaste ferite. Il fatto, del quale si trova traccia soltanto nei tagli bassi delle testate di tutto il mondo, avrebbe di certo suscitato una diversa attenzione, qualora l’obiettivo fosse stato altro, cioè uno dei riferimenti dell’occidente libero e democratico e l’attentatore fosse stato un musulmano qualunque, uno di quelli che urlano “Allah Akbar”, per capirci, che poi hanno spesso e volentieri urlato altro, come s’è detto e ridetto. Gli elementi di interesse, almeno per noi, sono moltissimi. Prima di tutto il profilo di questo Alexandre Bissonnette, un vero freak da tutti i punti di vista, poi il fatto che questo episodio abbia luogo in Canada all’inizio dell’era Trump, in relazione alla posizione liberal che Trudeau ha assunto sulla questione dell’immigrazione, quindi, forse soprattutto, il tema della “Guerra Santa”, che, misteriosamente, non affiora a titoloni cubitali sulle prime pagine dei giornali. Anche limitandoci allo squallido teatrino di casa nostra viene soprattutto da domandarsi dove sia l’editoriale di Panebianco, dove siano i memi di Oriana che aveva previsto tutto e perché oggi la guerra santa non “la fa l’ACI” (lo so, ce lo devo mettere ogni volta, è un po’ un tormentone, ma fa troppo ride’). Inoltre, e questo è l’aspetto che ci ricollega a tutta la questione delle fake news, nelle prime ore seguenti l’attentato circolava nei mezzi d’informazione la notizia che l’autore dell’attentato fosse un marocchino non meglio identificato, di quelli che appunto urlano “Allah Akbar” prima di ammazzare la gente.

Lorenzo. Mettiamo due cose una dietro l’altra, concedendoci il tempo di fare quello che abbiamo fatto con Masharipov, Amri e tutta la compagnia. E ripetendo il mantra delle 36 ore, prima delle quali dire qualcosa di sensato è sostanzialmente inutile e dopo le quali è quasi del tutto inutile dire qualcosa, perché le idee e le emozioni sul fatto si sono già ampiamente formate. Primo: appiccico un po’ di cose su questo “allah akbar”, riguardo al cui uso e alla cui diffusione in quanto meme – lo ricordo anche qui – ho già abbondantemente dato (e quindi un knowledge base purchessia ce l’ho). Al centro commerciale di Monaco il 18enne tedesco-iraniano aveva urlato “sono tedesco, turchi di merda” ma un testimone giurava di averlo sentito urlare “allah akbar”. Chi sa il tedesco afferma che l’assassino avesse anche un certo accento del sud. Nell’agguato nella metropolitana, sempre a Monaco, uno squilibrato aveva urlato davvero “Allah Akbar” ma non era neanche lontanamente mai stato musulmano, né aveva mai avuto un legame famigliare con quel mondo. Non sappiamo se dimostrasse di avere un qualche accento particolare. Di Amri, l’assassino di Berlino abbattuto a Sesto S. Giovanni, si era detto che avesse urlato “allah akbar” ma invece poi fu confermato che aveva detto “poliziotti bastardi”. Questa volta un testimone afferma che l’attentatore aveva un forte accento del Quebec e urlava “allah akbar”. La nota sull’accento rende il testimone credibile. In più la cosa avviene in una moschea, un luogo dove è abbastanza facile che ci siano persone che “Allah Akbar” lo dicono un bel po’ di volte al giorno, poiché pregano. Ricordando poi un numero elevato di casi in cui l’espressione è stata usata per scopi che vanno dallo scherzo stupido al sarcasmo pesante, giungo a pensare che il Gemello abbia davvero urlato “Allah akbar”, per un suo qualche oscuro motivo. Ciò certifica definitivamente, se ce ne fosse bisogno, che il lanciare l’urlo “Allah Akbar” prima di un fatto violento non segnala assolutamente niente di rilevante al fine di stabilire le responsabilità ultime dell’atto, almeno dal punto di vista delle affiliazioni ideologiche, cosa che va tanto per la maggiore quando bisogna dire che siamo soldati crociati ecc. in stile Panebianco. Resta da capire, se l’ha fatto, perché Alexandre Bissonnette l’ha fatto. Ma diciamo che a questo punto ci può interessare il giusto, cioè niente. Però è da segnalare che a un certo punto ieri si è capito che questo killer con l’ISIS non c’entrava davvero una mazza e dunque i giornali online hanno iniziato a togliere dai titoli quell’”allah akbar” (sbagliando, secondo me, ma va bene). A quel punto c’è stato, come il commentatore di un pezzo di Repubblica, chi ha sollevato dubbi e paventato gombloddi. Arrivando tardi alla lettura del pezzo “Sikomoro” scrive: “Perchè non è stato scritto, come su tutti gli altri giornali, che gli attentatori gridavano Allah Akbar? Si vuole per caso nascondere qualcosa? Si vuole per caso influenzare l’opinione?”. La parola che trovo – ricordo che la usava Jaime intorno al 1988 – per definire tutto questo è “inquietante”.

Anatole. Tragicamente inquietante, ma la cosa che, per usare un’altra espressione del tempo, è ancora più flesciante è il rilievo che la notizia assume nell’opinione pubblica. Cioè, detto senza mezzi termini, appare confermato che se spari dentro una moschea e ammazzi sei persone non gliene frega letteralmente un cazzo a nessuno! E questo fatto sembrerebbe contraddire anche le tradizionali leggi del giornalismo, secondo le quali “cane morde uomo” dovrebbe interessare meno di “uomo morde cane”. Ora, volendo anche applicare questo criterio utterly incorrect alla situazione attuale, ma con trump al potere e i nazi alla casa bianca va di moda, senza meno un canadese bianco, pallidissimo anzi, con nome e cognome da film dei Cohen, per dire, che spara in una moschea dovrebbe essere “uomo morde cane”, stante l’agenda corrente, no? Eppure niente, non fa notizia. Il che dimostra che la forte polarizzazione ideologica ha smantellato le regole basilari dell’attenzione, la legge di mercato della comunicazione, a vantaggio di un meccanismo di allarme orientatissimo, e lo dico anche in senso proprio etimologico (occidentatissimo sarebbe il contrario, diciamo). Come dice Alessandro Lanni qua:

Una ventina d’anni fa, il giurista Cass Sunstein poneva la questione in questi termini: il web prima e i social network poi stanno peggiorando la qualità della democrazia perché ci fanno vivere dentro bolle ermetiche che escludono voci diverse da quelle che condividiamo. Se il filtro siamo noi, se siamo noi a scegliere la nostra dieta informativa tendenzialmente lasciamo fuori ciò che mette in crisi le nostre opinioni che diverranno man mano sempre più cristallizzate e granitiche. Il risultato è la polarizzazione e la radicalizzazione delle opinioni politiche, scrive Sunstein nel suo libro ormai classico Republic.com.

Il filtro informativo individuale opera in una direzione secondo la quale le notizie vere, quelle “uomo morde cane”, non fregano a nessuno, poiché obbligano a fare un ragionamento del tipo di quello che stiamo facendo noi da un anno, dunque a preoccuparsi di una situazione che stiamo contrastando con strumenti inadatti, con guerre sbagliate, eleggendo figure pericolosissime, in ragione dell’incapacità di identificare i problemi in ordine ai quali la situazione corrente si viene a determinare, tanto sul piano economico che su quello sociale, che ancora su quello culturale.

Lorenzo. Passo alla seconda che consiste nel ricordare che c’è un assassino solitario di massa occidentale dal profilo molto simile: Anders Behring Breivik. Ho letto un bel po’, ieri, su Bissonnette e noto, con crescente senso di inquietudine, che i tratti in comune sono fin troppi. Entrambi hanno un curriculum di destra molto “classico”, una destra stile Trump se si guarda agli Stati Uniti, e una destra nazionalista se l’attenzione cade sull’Europa, oggi soprattutto in Francia. Una destra che però guarda a Israele con una certa ammirazione: entrambi i profili ci raccontano questo (qui Bissonnette, qui Breivik). Anche nel caso di Bissonnette dire “nazista” o “neonazista” è un po’ riduttivo, non è proprio esattissimo. C’è quel quid di islamofobo e ultraliberistissimo che ci riconduce agli stereotipi di – chessà – un Salvini e di un Borghezio e financo di un Beppegrilllo. Insomma non un antisemita dichiarato, lo definirei un criptoantisemita in un certo senso. Uno che sul modello antisemita fonda un suo nazismo ufficialmente non-antisemita, stavolta islamofobo. Certamente c’è un aggiornamento del profilo, data l’età. Bessonnette, ad esempio, è il classico troll del cazzo che ti entra nella tua pagina normale, in cui dici cose belle, per disturbare e far perdere tempo alle persone brave.

Anatole. Da quello che si capisce si tratta comunque di uno di quei coglioni che ci vanno sotto alla propaganda di destra (estrema o no, è tutta uguale) sugli immigrati. Molto attivo sui siti xenofobi, grande fan della Le Pen, era stato anche a sentirla durante la sua visita in Quebec. È anche preparato quanto basta da sostenere gli argomenti classici della destra che ci circonda, grazie ad un curriculum di studi a cavallo tra Scienze Politiche e Antropologia, un tempo bastione dell’ultrasinistra, ma oggi, per ragioni che abbiamo più volte sottolineato (ad esempio qua), praticatissimo anche da quella destra che ha fatto benchmark sull’ultrasinistra (tipo Spencer, per capirci). Cioè, un matto sicuro, non meno lupo solitario degli altri, magari integrato in un sistema di relazioni labili e liquide, come avrebbe detto Bauman, attorno alle quali un’identità te la crei, certo, ma sempre molto da solo, in quella solitudine che, come abbiamo detto in tutte le salse, si consuma nella rete telematica, offrendo un’ombra di appartenenza a persone bisognose di attenzione. Di sicuro: «He was not a leader and was not affiliated with the groups we know», come ha spiegato François Deschamps, il job counselor di Carrefour Jeunesse, un’organizzazione che aiuta a trovare lavoro, ma anche attivista di Bienvenue aux Réfugiés, che ha avuto modo di tracciare l’attività di pubblicista anti-immigrazione dell’attentatore.

Lorenzo.  Sulla questione dell’estremismo di destra in Canada è uscito un bell’articolo, molto documentato sul Montreal Gazzette: “L’effetto Trump e la normalizzazione dell’odio in Quebec”. Vale la pena dargli una letta e visionare la tabella, molto esplicativa:
1111-city-hate-gr1

Certo oggi i destrorsi operano in un contesto “garantito” a tutti gli effetti dalla presidenza americana. Cioè, c’è Steve Bannon nel Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti d’America, per dire. Non a caso Richard Spencer non ha perso l’occasione di trollare Trudeau a proposito del suo discorso ispirato a seguito della sparatoria alla moschea di Quebec City, rilanciando l’analogia con la Francia, anche in cerca di simpatie transoceaniche:

 

specer

 

Anatole. Il quadro in cui questi figuri operano oggi è molto diverso, ma non dissimile da quello che si ricostruisce attorno al classico attentatore islamico. Voglio dire che c’è un quadro di riferimento istituzionale rispetto al quale questi personaggi si sforzano di apparire conformi, l’ISIS per gli uni, gli USA di Trump, Bannon e Spencer per gli altri. Lo si poteva già vedere nel corso della campagna elettorale americana con i bersagli accesi dalla propaganda antiliberal, soprattutto nel formato del Pizzagate, di cui abbiamo già parlato qua. Il qualcunismo omicida non è più una semplice forma di appartenenza contro i valori liberal che stanno abbattendo le frontiere tra ciò che “la tradizione” (un costrutto ideologico folle, come sappiamo, una cosa mai esistita) ci ha consegnato come una cosa che ci appartiene e tutto quello che invece no e quindi deve restarsene fuori dal posto che identifichiamo come ”casa nostra”, anche se poi a casa nostra i siriani non ci vengono e non ne abbiamo mai visto uno manco per sbaglio. È quello che capita quando la destra nazi prende il potere, che i mezzi matti si sentono appartenenti ad una milizia che opera in un quadro di ”legalità”. lo si vedeva già all’indomani dell’elezione di Trump, con le migliaia di piccoli atti di bullismo rivoltante ai danni di ebrei, musulmani, neri, omosessuali, donne di ogni razza e ceto sociale, perpetrati da maschi bianchi, ritornati in pieno controllo di una prospettiva identitaria ”forte”. In sostanza, una cosa molto simile al fascismo.

Lorenzo. Esatto. Il modulo è quello del lupo solitario, forse ancor più di prima, perché oggi anche lo xenofobo fascista ha il suo quadro di riferimento ideale proiettato in uno scenario istituzionale.

Anatole. Penso che alla fine quello che abbiamo detto e ridetto, che cioè questa guerra santa la stanno combattendo un pugno di mezzi matti sobillati da altri mezzi matti (i Panebianco di tutto il mondo, per capirci) è una cosa vera. Quello che oggi è cambiato è che, come dici tu, alcuni di questi mezzi matti, della prima e della seconda categoria, sono oggi al potere in tutto il mondo. Ma non mi sembra un messaggio rassicurante sul quale concludere.

Lorenzo. Possiamo peggiorare la visione, rendendola ancora più fosca.

Anatole. Facciamolo.

Lorenzo. Ragioniamo anche un po’ sulla ricezione del fatto, voglio dire. L’altra volta dicevo delle vittime del Reina, che erano più o meno tutte di origine musulmana, tranne mi sembra due canadesi (dei quali non conosciamo l’appartenenza religiosa). Dicevo che c’è stato questo intitolarsi le vittime, questo parlare di crociate mentre, come dicevi all’inizio, oggi non vedo quest’ansia di intitolatura, anzi. Quindi, giusto per mettere un po’ le cose in chiaro, completerei – dopo aver citato l’articolo sul Canada – il ragionamento con questo progetto sulla mappatura dell’islamofobia negli Stati Uniti e quest’altro sull’islamofobia in Europa. Cioè, detta fuori dai denti: i nostri simpatici amici teorici del conflitto di civiltà, i crociati da poltrona in pantofole, hanno effettivamente contribuito ad elaborare un paradigma di crociato che trova riscontro nella società. Ma ciò facendo non hanno descritto una cosa che esiste come tale di per sé. Cioè, nessuno dei potenziali crociati è di per sé un crociato, così come nessuno dei potenziali estremisti del cosiddetto jihad islamico lo è in quanto è nato così o perché le sue condizioni di esistenza lo portano naturalmente a diventarlo. È il quadro ideologico di riferimento, elaborato dai nostri amici del conflitto di civiltà, quelli che la Guerra Santa “la fa l’ACI”, che offre un contesto all’interno del quale situare azioni come quelle sulle quali ragioniamo da più di un anno. Quindi, perlomeno, la prossima volta, evitino di parlare di timidezze e buonismi, di occidenti pavidi e altre idiozie, ché manca poco all’aperto incitamento all’odio razziale. E, quasi quasi, sembrano aver letto i manuali di Abu Mus’ab al-Suri (sistema vs organizzazione, del quale dicevamo l’altra volta). Qui, come abbiamo detto ormai fino alla noia, il tema sarebbe un altro, collegato, come abbiamo ripetuto alla nausea, al dramma identitario in cui sprofonda la piccolissima borghesia promossa dal debito e messa in ginocchio dalla crisi.

Anatole. A questo proposito abbiamo prodotto un congruo pregresso.

Lorenzo. Talmente congruo che, come alcuni nostri detrattori auspicano, ce la potremmo anche far finita.

Anatole. Sarei d’accordo con loro, se solo si alzasse ogni tanto mezza voce da qualche parte a far notare le cose che stiamo ripetendo. Personalmente avrei anche da fare, diciamo. Mi blinderei volentieri nel XII secolo, per dire.

Lorenzo. Eh, infatti, a chi lo dici. E vi sono segnali che dimostrano quanto ripetitivi stiamo diventando.

Anatole. Forse perché diciamo una cosa vera? Potrebbe anche darsi.

Lorenzo. La verità è ripetitiva, questo di sicuro. E noiosa.

Anatole. Infatti abbiamo chiuso questo pezzo in un’ora. Per noia.

Lorenzo. Speriamo che si sia capito il concetto.

Anatole. Io penso di sì. E sinceramente me la farei finita volentieri, se non temessi che  l’episodio di oggi potrebbe essere solo uno dei primi accenni di una cosa sinistra che sta per accadere. Non l’ho mai pensato fino ad ora, ma la strizza a questo punto sale per davvero. Non già la paura di una Guerra Santa, quanto piuttosto il terrore che questi qualcunisti, quelli di casa nostra soprattutto, abbiano trovato un’identità forte dietro la quale nascondere il loro microscopico cazzetto, ecco. Perché a questa cosa dell’allarme democratico non ci avevamo alla fine mai creduto davvero, diciamolo. Oggi forse un po’ di più ci crediamo, sinceramente. Leggendo questo, ad esempio, non mi viene da ridere. Ne mi tranquillizza questo, pur straordinario, capolavoro artistico:

 

capitan america

 

Lorenzo. No, neanche a me. Sì, c’è una certa strizza e anche una certa rabbia per come le cose sono state fatte deteriorare. Forse dobbiamo capire, nei prossimi tempi, se proprio siamo circondati, se le cose sono già andate avanti troppo, se c’è un rimedio.

Anatole. La Women’s March è il rimedio. L’unico vero. Forse. Speriamo. Perché il movimento femminista è l’unica forza capace di metterti in discussione per quello che sei, per come vivi davvero, invece che per quanto figo ti senti su un social network o dove che sia. In quest’epoca qualcunista è davvero un ancoraggio straordinario ad un piano di verità basata su scelte di vita, sincerità di quello che provi, coraggio di affrontare gli aspetti meno evidenti e più scomodi della realtà che ti disegni attorno. Per questa ragione è probabile che sia l’unica forza propulsiva di un rinnovamento democratico progressista, capace di demistificare i meccanismi di idealizzazione del quotidiano grazie ai quali la demagogia populista fa presa, ritraendo maschi disperati e miserabili come campioni dell’emancipazione di masse inascoltate, che in realtà non hanno niente da dire. Sono donne come Kamala Harris e Cecile Richards che devono stare davanti oggi, in America e in tutto il mondo, e tutti quelli che vogliono combattere questo orrore devono limitarsi a sostenerle.

Lorenzo. …. [sgrana gli occhi]

Anatole. …. [guarda altrove, un po’ come se questa cosa che ha appena detto non l’avesse detta lui]

Lorenzo. Si è riaccesa la luce della stanza. Proprio mi sono visto davanti questo libro di Valentina Fedele che indaga sui modelli maschili nel mondo islamico, specie nelle comunità di migranti maghrebine in Europa. “Islam e mascolinità”. Cose di cazzetti piccoli se vogliamo metterla così. Fuori dallo stupidario delle robe che girano, davvero.

Anatole. Ecco.

Lorenzo. Daje.

Anatole. Daje sì.

 

 

Fonte:

https://www.nazioneindiana.com/2017/01/31/ban-trump-la-guerra-santa-del-nerd-canadese/

La «banda Bellini» perde anche Andrea, protagonista degli anni 70

Dopo il fratello Gianfranco, scomparso quattro anni fa, se ne è andato un altro del Casoretto. Aveva 65 anni. Uno dei leader dell’estrema destra, Valerio «Giusva» Fioravanti, cercò di ucciderlo in un agguato

di Matteo Speroni

Andrea Bellini
Andrea Bellini

La notizia è circolata lunedì nel tardo pomeriggio sui social network e ha subito suscitato il cordoglio di tanti amici e «compagni»: per un male incurabile è morto, a 65 anni, Andrea Bellini, noto a Milano perché tra i fondatori, negli anni Settanta, della cosiddetta «banda Bellini» o «banda del Casoretto», gruppo movimentista spontaneo nato, appunto, nella zona del Casoretto, tra Lambrate e via Padova. Non etichettabile politicamente in modo preciso, la banda Bellini si muoveva, soprattutto con azioni collettive di piazza e di strada, all’interno della galassia comunista ma con spirito autonomo e libertario. Guidata dai fratelli Andrea e Gianfranco Bellini (scomparso nel 2012), la banda era considerata tanto pericolosa dai nemici politici da muovere uno dei leader dell’estrema destra, Valerio «Giusva» Fioravanti, a tendere un agguato ai fratelli armato di fucile e appostato sotto casa loro in un’ambulanza per tre giorni: l’episodio è descritto nel libro «La banda Bellini» di Marco Philopat (edito da Einaudi nel 2007 e ora uscito di nuovo per Agenzia X), che ha raccolto i racconti di Andrea Bellini. «Andrea — dice Philopat — ha sempre cercato di tramandare la memoria di quegli anni ai più giovani, narrando la sua storia e quella della “banda” con i tratti dei film western alla Sam Peckinpah o Sergio Leone. Con la metafora cinematografica è riuscito a creare la mitologia di un’epoca».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Fonte:
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/16_dicembre_27/banda-bellini-perde-anche-andrea-protagonista-anni-70-ec1acc90-cc0f-11e6-89aa-18ad6a6eb0ec.shtml

La questione delle cose fasciste pubblicate dagli agenti che hanno ucciso Anis Amri

  • 24 dicembre 2016

Sulle pagine Facebook e Instagram di Cristian Movio e Luca Scatà, ora inaccessibili, sono state trovate cose di cui non andar fieri

movio_ape

Luca Scatà e Cristian Movio sono i due agenti di polizia del commissariato di Sesto San Giovanni che venerdì mattina, nel corso di un normale controllo di documenti, hanno ucciso Anis Amri, l’uomo che ha guidato un camion attraverso un mercatino di Natale a Berlino lunedì 19 dicembre, uccidendo 12 persone. Amri, dopo essere stato fermato dai due agenti, ha tirato fuori una pistola e ha sparato, prima di essere ucciso: ha ferito alla spalla in modo non grave il 36enne Cristian Movio, capo pattuglia e agente con diversi anni di esperienza, ed è stato ucciso da un colpo al torace sparato da Luca Scatà, 29enne che da nove mesi lavorava come “agente in prova”.

Scatà e Movio sono stati molto celebrati per il loro lavoro e ringraziati pubblicamente dai loro superiori, dal ministro degli Interni Marco Minniti e dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Nel corso della giornata di ieri, tuttavia, hanno cominciato a girare online screenshot di alcuni loro post pubblicati su Facebook e Instagram, molti dei quali con riferimenti e frasi razziste o inneggianti al fascismo. In particolare sul profilo di Luca Scatà sono stati trovati tre diversi post che inneggiavano al fascismo e a Mussolini (in uno di questi si vede lo stesso Scatà fare il saluto romano), mentre sulla pagina Facebook di Movio sono stati trovati diversi post razzisti e contenuti del sito xenofobo “tuttiicriminidegliimmigrati.com”. I profili sui social network dei due agenti sono stati resi inaccessibili nel corso della giornata di venerdì, per ordine – dice la Stampa – del questore di Milano Antonio De Iesu, per «tutelare l’immagine dei nostri agenti». La decisione del ministro Minniti di diffondere i nomi di Scatà e Movio aveva ricevuto inizialmente qualche critica, per la possibilità che i due subissero ritorsioni.

Le foto pubblicate sui social network da Scatà e Movio:

Fonte:
*
Dalla pagina Facebook Informazione Antifascista:

Ecco l'”eroe” che ieri a Milano ha sparato al tunisino sospettato di essere l’autore dell’attacco terrorista a Berlino.
Uno dei tipici prodotti delle caserme nostrane: ragazzini semianalfabeti con le sopracciglia ad ali di gabbiano, infarciti di fascismo, pregiudizi e sessismo da operetta.

L'immagine può contenere: 1 persona, sMS

 

 

 

20 Dicembre 1973: ETA giustizia Carrero Blanco

Martedì 20 Dicembre 2016 10:03


409243_2805043175570_1543372364_2909022_1934148799_n

Da diversi anni ormai, la dittatura fascista del generale Francisco Franco è scossa da un crescente malcontento sociale, che trova nelle mobilitazioni operaie la valvola di sfogo nei confronti di quello che è diventato il più longevo stato europeo guidato da un’esecutivo dichiaratamente reazionario e conservatore. La lettura di quegli anni, propagandata dal regime, parlava infatti di una crescente tolleranza nei confronti dei conflitti sociali, in un’ottica che aveva come obiettivo quello di smarcare il Governo spagnolo dal ricordo, ancora troppo vivo, degli orrori che i regimi nazionalsocialisti avevano perpetrato nella seconda Guerra Mondiale.

 

Al contrario però, mai come in quegli anni, Franco decide di attuare una feroce repressione contro tutti i suoi oppositori politici, concentrandosi con particolare accanimento nei confronti della popolazione basca in Euskal Herria. Dal 1961 fino alla morte del Caudillo, nel novembre del 1975, il Paese Basco viene sottoposto ben 9 volte allo stato di emergenza nel giro di neanche 13 anni, vivendo un totale di 4 anni e due mesi in condizioni di completa sospensione di ogni diritto civile fondamentale, con un potere di vita e di morte affidato alle Forze di Sicurezza dello Stato.

 

E’ in questo clima che Euskadi Ta Askatasuna, reduce dal grande processo di Burgos e dalle prime importanti vittorie ottenute sul campo politico e militare, decide di giustiziare il successore designato di Franco, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco.

L’operazione, chiamata “Ogro” (“orco” in italiano”) come il soprannome del nuovo presidente spagnolo, dura quasi nove mesi e porta la firma del «Commando Txikia» di ETA.

 

I quattro giovani baschi ai quali è affidata l’azione cominciano a seguire le mosse dell’ammiraglio nell’aprile del ’73, dopo aver affittato un seminterrato al n. 104 di calle Coello a Madrid, dove fingono di svolgere il mestiere di scultori. In realtà, l’idea iniziale era quella di sequestrare Carrero Blanco per chiedere in cambio la liberazione di alcuni detenuti politici, ma quando a luglio l’ammiraglio era divenuto capo del governo la scorta era stata rafforzata ed il piano di sequestro abbandonato.

Poichè dalla sua abitazione di via Hermanos Becquer, l’almirante (come era anche chiamato Blanco) era solito seguire in automobile il medesimo tragitto fino alla chiesa di S. Francisco de Borja di calle de Serrano di fronte all’ambasciata americana, per poi ritornare seguendo sempre lo stesso transito, ETA decide che il modo migliore per uccidero è tramite un attentato dinamitardo.

 

Il lavoro si rivela però lento e dispendioso, dal momento che impegna contemporaneamente tutti i componenti della squadra nello scavo di una galleria di otto metri, dalla casa fino al centro della strada, con un prolungamento a T di tre metri. Mentre uno scava, l’altro passa la terra all’indietro al terzo che ne riempie i sacchi di plastica e il quarto accatasta i sacchi nel locale. Bisogna poi puntellare la galleria e preparare le cariche di dinamite, che sono tre, da quindici chili l’una, predisposte per l’esplosione simultanea con un filo elettrico. Un altro problema è quelllo di allontanare il più possibile l’interruttore che deve comandare l’esplosione stessa, per rendere possibile la fuga. Per questo venne previsto un filo che uscendo dalla finestra prosegua all’altezza del primo piano, fino all’incrocio con la calle Diego de Leon, a 50 metri circa.

 

L’operazione, prevista per il 19 dicembre, viene posticipata al giorno successivo. Poco prima dell’ora stabilita, uno degli “scultori” parcheggia, in seconda fila all’altezza della galleria, una “Morris” carica di dinamite, con il triplo scopo di rafforzare l’esplosione, obbligare l’automobile di Carrero Blanco a passare in mezzo alla strada e dare un punto di riferimento per un osservatore situato all’angolo Coello-Leon (il dispositivo detonatore, alimentato da tre batterie in serie, è sistemato dietro l’angolo e gli addetti, travestiti da operai dell’azienda elettrica, non possono vedere la via Coello). Quando la macchina dell’ammiraglio raggiunge la zona “ideale”, al segnale stabilito il contatto elettrico fa saltare in aria l’auto dell’ammiraglio.

L’automobile di Carrero Blanco vola per sei piani, oltrepassa il tetto di un palazzo e finisce su un balcone interno al terzo piano. Le guardie del corpo, scese malconce dall’automobile di scorta finita contro un muro, non si rendono conto dell’accaduto per molto tempo, mentre i quattro “etarras” hanno tutto il tempo per fuggire in tranquillità dalla capitale.

 

Nei giorni successivi, il Partito Comunista e vari esponenti dell’opposizione antifranchista e democratica, parlarono di provocazione, di possibile azione di “ultrà” fascisti, poi, di fronte alla circostanziata rivendicazione dell’attentato da parte di ETA, di atto irresponsabile che avrebbe fatto il gioco del regime. La realtà fu che tutto il popolo spagnolo, e non solo gli abitanti di Euskal Herria, furono ben felici della morte di colui che, a tutti gli effetti, si era dimostrato degno continuatore delle politiche del regime franchista.

Al governo subentrò Carlos Arias Navarro, estendendo a tutti i settori la sensazione che ci si trovasse di fronte all’imminenza di un passaggio di regime. In realtà apparve chiaro che il regime, per sopravvivere, doveva cambiare forma, mentre la sinistra patriottica basca intuì immediatamente che esso andava incontro ad una sorta di autoriforma verso una democrazia costituzionale “limitata”, evitando così la possibilità di una insurrezione armata popolare.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3549-20-dicembre-1973-eta-giustizia-carrero-blanco

Saluti nazisti e croci runiche: viaggio dentro la comunità che nega l’Olocausto

varese-nazi

Caidate, nel varesotto, dove 300 naziskin vivono organizzati militarmente. Ecco come si raccontano. I nemici sono “immigrati, ebrei, gay, centri sociali, polizia, banche”. La festa per il compleanno di Hitler, la famiglia, i volantini col volto di Eva Braun per il gruppo femminile, il rifiuto di avere contatti con il resto dell’estrema destra

La runa di legno stava lì, sdraiata nel giardino ingabbiato da una rete metallica: la runa Tiwaz, simbolo dei guerrieri di Odino, mitologia germanica che influenzò l’ascesa del Terzo Reich. I neonazisti varesotti l’altro giorno l’hanno portata al monte San Martino e, posando in parata, hanno profanato il sacrario simbolo della lotta partigiana contro le SS nel ’43. “L’anno scorso ci hanno fermato i carabinieri…”, taglia corto il capo dei Do.Ra., Alessandro Limido. Sul retro del villino una massicciata di cemento. “Non abbiate paura del cane… Preoccupatevi del padrone” è scritto sul cartello al civico 8 di via Papa Giovanni XXIII. Due disegni: un bulldog e una mano che stringe la pistola. Se non fosse per quel benvenuto sinistro e per niente astratto (ad aprile Limido ha massacrato di botte un ladro che stava rubando un’auto sotto casa), si direbbe che l’atmosfera è quasi familiare. Hinterland di Varese: c’erano una volta Bossi e la Lega. Il Pil trainato dall’industria aeromeccanica. Oggi ci sono i naziskin. “Siamo nazionalsocialisti. Neghiamo l’Olocausto. Sono stati gli ebrei, per difendere il capitalismo, a volere la guerra contro Hitler e Mussolini: non il contrario. Da qui parte la nostra attivita’, dalla controinformazione alle iniziative sul territorio”.

I Do.ra. – acronimo della Comunità militante dei dodici raggi (i raggi del Sole nero, simbolo del castello tedesco di Wewelsburg, sede operativa delle SS) – sono la più numerosa e organizzata comunità nazionalsocialista italiana. Quattro anni di vita sottotraccia. Formalmente “associazione culturale”. In pratica un micro pezzo di popolazione varesotta che, 71 anni dopo la fine del regime nazista, prospera sugli orrori incisi nella storia. “I veri eroi sono i nazisti che hanno combattuto. Noi possiamo solo contestare il sistema e vivere secondo le nostre regole Comunitarie”. Cose dell’altro mondo. Eppure Alessandro Limido, 34 anni, figlio di una ex hippie e di Bruno Limido, già calciatore della Juventus poi coinvolto in una vicenda di caporalato e fatture false, non fa una piega. Limido jr è  “Ale di Varese”, il “presidente”. Vende piscine con la Almipool group di Azzate. Ma il senso della vita è la leadership  di questa tribù marziana cresciuta sul modello del nazismo delle origini nel ventre della periferia di Varese.

Caidate. Il giardino coperto di foglie ricorda i boschi dove i Do.Ra. organizzano i “solstizi”: mogli, bambini, cani, canti identitari, birra a fiumi, salamelle. E svastiche bruciate e loro intorno, a cerchio. Nella Germania del Reich il solstizio era un rito propiziatorio che serviva a rievocare le virtù del sacrificio e del prestigio: i falò erano elevati in onore al Führer. Del quale i Do.ra., il 20 aprile, celebrano la nascita. “Mica ci nascondiamo noi”. Non la dissimulazione di Casapound. Nemmeno le velleità politiche di Forza Nuova. Piuttosto la sintesi dell’esperienza ventennale degli skinhed razzisti di Varese. Disciplina interna quasi maniacale. Un autorigore inversamente proporzionale alla disinvoltura a cui sono ispirate le azioni contro i “nemici”: immigrati, ebrei, gay, centri sociali, polizia, banche. Anche Salvini, che “fa il duro contro gli ultimi della società e poi striscia in Israele a leccare la mano al suo amico sionista Avigdor Liberman”, è la sintesi di Limido.

La sede dei Do.ra. è questo ex magazzino. Regolare contratto d’affitto. Enrico Quirico, il proprietario, fa l’operaio e dice che ha idee “diverse da loro”. Ma tant’è, avere in casa un gruppo di neonazisti non gli provoca imbarazzo: “Ho affittato con agenzia, pagano puntuali: mai un problema”. Questione di punti di vista. E di leggi. Per esempio quelle sull’apologia fascista, la discriminazione e l’odio razziale.

La normalità antisemita dei Do.ra.? Ha una struttura di stampo militare. C’è un nucleo direttivo, un presidente (Limido), un vice, Matteo Bertoncello, capo dei Blood and Honour, gli ultrà razzisti e xenofobi del Varese calcio; un responsabile operativo chiamato “sergente”, Andrea De Min; una “guida suprema”, Maurizio Moro, che ha fondato il gruppo nel ’93 fondendo i Varese skineah e gli Ultras 7 Laghi. Ma non di soli uomini è formato il corpaccione dei Dodici raggi.

Le donne della comunità hanno resuscitato il Servizio ausiliario femminile (Saf) della Rsi: volantini con il volto di Eva Braun, incontri a tema. “Non siamo subordinati alla figura e al ruolo  dell’uomo – dice Silvia Malnati , un tempo legata a Limido – ma siamo per la società tradizionale: madre padre figlio patria famiglia”. Dietro le rune germaniche e i rituali della religione odinista cara a Hitler, il culto praticato qui, tra muscolari cortei anti immigrati e dibattiti sull’”assurdità della legge che persegue chi nega l’Olocausto”, i Do.ra., tatuatissimi dai polpacci alla carotide con croci celtiche e svastiche, organizzano la loro settimana. Tutto ruota intorno alla sede di Caidate. Cineforum (“American history”, “Russian 88”); biblioteca con testi revisionisti da De Felice in su; dibattiti  sul negazionismo nella sala addobbata con croci runiche; tornei di calcio “contro la pedofilia”, match di arti marziali miste sotto la targa del riconosciuto “Sodalizio sportivo Do.Ra.” (l’atleta di punta è il pugile campione italiano dei pesi welter Michele Esposito); e poi un gruppo musicale nazirock, i Garrota. “…skin alza la testa, Varese nazionalsocialista”.

L’hanno alzata eccome, la testa, i Do.ra. Pagina Fb molto attiva, sito in costruzione. Hanno prodotto anche una linea di t shirt: il modello che le indossa e le pubbicizza è uno skinhead  parricida, Luigi Celeste, 9 anni di carcere per l’omicidio del padre a colpi di Beretta. “Altri combattono il sistema per entrarci: noi no”. Zero dialogo. Nemmeno con altre anime dell’estrema destra: è la loro linea. Disinteressati alla politica. E però la politica si interessa a loro. “Ci hanno proposto di fare una lista civica – ricorda Limido -. No secco”. Pensare che nel 2006 il sedicente “Movimento nazionalista e socialista dei lavoratori” fondato da Pierluigi Pagliughi proprio nel varesotto tentò di entrare nelle istituzioni: andò male a Duno e Inarzo, meglio (due consiglieri eletti) a Nosate, nel milanese. Per ora i Dodici raggi stanno arroccati nel loro fortino.

“Sono arrivati qui quattro anni fa e per prima cosa hanno distribuito dei biglietti con dei numeri di cellulare – dice il più vicino dei vicini di casa dei Do.Ra. -. Ci hanno detto “se ci sono problemi, avvertiteci”. Scrupolo a doppio risvolto.”Se le auto danno fastidio le spostiamo subito”. Ma anche un’autoinvestitura: “Con noi in paese molti si sentono piu sicuri”. Sentinelle sociali pronte a vigilare su Caidate, piccola frazione di Sumirago che ha tanti abitanti quanti ne conta (tra tesserati e simpatizzanti) la galassia dei Do.Ra.: 300, o giù di lì. Sparsi nel varesotto, sguardo glocal. Un gemellaggio coi “fratelli” ungheresi. Inseriti nel network antisemita europeo Skin4Skin e devoti alla figura del terrorista di Avanguardia nazionale Vincenzo Vinciguerra, in carcere dal 1979 per l’uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano (1972). Colonna del comitato xenofobo “Varese ai varesini”.

Questo sono i Do.ra. A settembre hanno tirato su barricate contro l’arrivo di quattro (di numero) profughi a Castronno. Cinque mesi prima – il solito 20 aprile – hanno festeggiato la nascita di Hitler al locale Never Done di Besnate. Militanti dai 18 ai 50 anni, pinte di birra, braccia tese. Un appuntamento fisso, il compleanno del Fuhrer. Dal 2013. La prima festa si svolse sotto il tendone dell ex scalo ferroviario di Malnate affittato ai nazi dall’associazione “I nostar radiis”, vicina alla Lega. “Il giorno dopo sono venuti a pulire tutto”, ricordam oggi il gestore Dino Macchi, ex assessore alla cultura a Vedano Olona. E i “sieg heil”? E gli insulti agli “schifosi ebrei”? E le legnate promesse agli immigrati dai “sergenti” finiti sotto inchiesta e daspati per violenze e razzismo da stadio? “Molti si girano dall’altra parte. Noi ci rivolgiamo alle istituzioni: possibile che una formazione nazista faccia tranquillamente propaganda sul territorio?” – chiede Gennaro Gatto, dell’Osservatorio sulle nuove destre.

A Caidate qualcuno ha protestato invocando l’intervento della magistratura. “Perché nessuno si muove? E’ una vergogna – dice Roberta Nelli che gestisce il circolo Caidate 1912 -. Fanno proseliti negando o esaltando l’Olocausto”. Romeo Riundi,  medico di base, fa parte del comitato “Cittadini per Sumirago”. Lo ha scritto in una lettera pubblica: “Vi rendete conto di cosa sta succedendo a Caidate?”. Cose dell’altro mondo, dicono. La storia che rinasce sulle macerie, profanando le ferite incise sulla pelle di chi ha conosciuto l’orrore. Qui c”è un Sole Nero che non si eclissa e la sua aurora è una runa di legno.

Paolo Berizzi da Repubblica.it

tratto da http://www.osservatoriorepressione.info/saluti-nazisti-croci-runiche-viaggio-dentro-la-comunita-nega-lolocausto/

Le ambiguità del Vaticano sulla dittatura argentina

Papa Francesco alla basilica di San Pietro, il 20 novembre 2016. - Tiziana Fabi, Reuters/Contrasto
Papa Francesco alla basilica di San Pietro, il 20 novembre 2016. (Tiziana Fabi, Reuters/Contrasto)
  • 28 Nov 2016 16.36

L’annuncio dell’apertura degli archivi della conferenza episcopale argentina e del Vaticano è l’ennesimo tentativo di imbiancare una storia vergognosa senza fare nessuno dei passi previsti dallo stesso catechismo della chiesa cattolica per il sacramento della riconciliazione, del perdono o della penitenza: ammettere e condannare i crimini o i peccati commessi, impegnarsi a non ripeterli e riparare il danno causato. L’apertura si limiterà alla corrispondenza ecclesiastica su circa tremila vittime del terrorismo di stato, che sarà accessibile solo ai familiari diretti, ai superiori degli ordini ecclesiastici e ai giudici sulla base di richieste concrete. Astenersi giornalisti e ricercatori. Questa è un’operazione pubblicitaria e non ha niente a che fare con la ricerca della verità.

Il presidente della conferenza episcopale argentina, José María Arancedo, ha detto che l’apertura è cominciata con lo stesso papa Francesco che, prima di diventare pontefice, decise di pubblicare il documento Chiesa e democrazia, e ha previsto che verranno a galla più luci che ombre nel comportamento episcopale durante il periodo che va dal 1976 al 1983. Le cose andranno così, perché la tecnica applicata da Bergoglio, dai suoi predecessori e dai suoi successori consiste nell’ignorare dei documenti fondamentali, mutilando quelli in cui i vescovi proclamano la loro adesione alla dittatura occidentale e cristiana, organizzando il materiale in ordine cronologico senza indicare quali documenti furono resi pubblici e quali restarono segreti, ammettendo solo quanto è già trapelato e non può essere negato. È la stessa tecnica seguita dal Vaticano per rendere più rispettabile l’immagine di Pio XII rispetto al nazismo.

Un dialogo imbarazzante
Il 15 novembre 1976 la commissione esecutiva dell’episcopato prese parte a un pranzo di cortesia con la giunta militare. Le forbici di Bergoglio tagliarono dalla minuta redatta all’epoca la parte in cui i vescovi espressero la loro adesione alla dittatura, perché “un fallimento porterebbe, con molta probabilità, al marxismo”.

A proposito del dialogo tra i rappresentanti episcopali e il dittatore Jorge Videla del 10 aprile 1978, la raccolta indica solo che i vescovi parlarono della situazione legata alle proteste dei familiari dei detenuti o delle persone scomparse. Ma non cita il testo inviato quello stesso giorno al Vaticano. In quel documento si spiega che i presenti discussero di come impedire ai familiari di continuare a importunare la chiesa.

Gli ecclesiastici suggerirono al governo di riconoscere la morte dei detenuti scomparsi, ma Videla si rifiutò, perché questo avrebbe portato a “una serie di domande sul luogo di sepoltura: in una fossa comune? In quel caso, chi li aveva messi nella fossa? Una serie di domande a cui il governo non può rispondere sinceramente per le conseguenze sulle persone”, ovvero i sequestratori e gli assassini.

L’allora presidente della conferenza episcopale, il cardinale Raúl Primatesta, accettò la posizione di Videla, perché “la chiesa vuole capire, cooperare”, e misurò ogni parola perché sapeva bene “il danno che può fare al governo” (ovvero il bene che avrebbe potuto fare alle sue vittime). Quando ho pubblicato questo documento segreto, una giudice ne ha richiesto la consegna alla conferenza episcopale presieduta da Bergoglio che solo allora, nel 2012, ha inviato una copia presa da quell’archivio la cui stessa esistenza era negata dall’episcopato.

Una pastorale di guerra
Nel 2000, per il Giubileo del terzo millennio, l’episcopato argentino chiese perdono a Dio e non alle vittime, per gli atti altrui e non per i propri (“per la partecipazione effettiva di molti dei tuoi figli allo scontro politico, alla violazione delle libertà, alla tortura e alla delazione, alla persecuzione politica e all’intransigenza ideologica, alle lotte e alle guerre, e alla morte assurda che hanno insanguinato il nostro paese”), e mise sullo stesso piano la guerriglia e il terrorismo di stato.

Per mettere alla prova questa richiesta di perdono, il Centro di studi legali e sociali (presieduto dall’autore di quest’articolo) chiese già all’epoca l’apertura degli archivi. La conferenza episcopale rispose dicendo di avere soltanto il volantino del 1982, Chiesa e diritti umani, con “estratti di alcuni documenti”. In quell’edizione tutti i paragrafi di lusinga alla dittatura, quelli che aprivano i documenti e che finirono sulle prime pagine dei giornali dell’epoca, furono censurati, mentre erano presenti quelli finali, che iniziavano con qualche “tuttavia” o “non è possibile omettere che…”. Invece sono state diffuse, come se fossero stati documenti pubblici, le lettere di critiche e di reclamo che la chiesa consegnava alla giunta militare nel massimo segreto. Così la lettera pastorale collettiva Paese e bene comune, firmata meno di due mesi dopo il colpo di stato, è stata ridotta a quattro brevi paragrafi generici, separati da righe piene di puntini di sospensione.

Questa pastorale di guerra fu elaborata durante l’assemblea plenaria dell’episcopato

È scomparsa invece la giustificazione dei procedimenti illegali diffusa il 15 maggio 1976, secondo cui gli organismi di sicurezza non potevano agire “con la purezza chimica del tempo di pace, mentre scorre il sangue ogni giorno”. Questa pastorale di guerra fu elaborata durante l’assemblea plenaria dell’episcopato, dal 10 al 15 maggio del 1976, in cui ogni vescovo informò dei sequestri, delle torture e delle persone scomparse nella propria diocesi. In mancanza di un accordo, la proposta di denunciare questi gravissimi fatti fu sottoposta al voto: diciannove vescovi si dichiararono a favore, ma altri trentotto, il doppio, si opposero. I vescovi corressero tre versioni della bozza, ognuna più compiacente di quella precedente. Nel 1982 trovarono solo alcuni paragrafi da pubblicare che non fossero vergognosi.

Il 25 maggio 2010, in occasione del Te Deum del bicentenario, quando Bergoglio era a capo dell’episcopato, uno dei suoi componenti, il vescovo di Mercedes-Luján, Agustín Radrizzani, consegnò al governo una richiesta di amnistia firmata da Videla e da un altro centinaio di detenuti per crimini contro l’umanità. Nel 2012 Videla ha ammesso i suoi crimini in diverse interviste, si è vantato del sostegno e della cooperazione della nunziatura apostolica e dell’episcopato argentino e ha detto di essere stato amico di Primatesta.

Uno dei giornalisti ha visto arrivare “un uomo dai capelli bianchi con il calice in mano”. In seguito a questo episodio, un gruppo di laici che si fanno chiamare Cristiani per il terzo millennio ha chiesto alla conferenza episcopale di mettere fine allo “scandalo” del “libero e periodico accesso all’eucarestia” dell’ex dittatore, nonostante questi avesse riconosciuto le “sue azioni criminali” senza pentirsi. Nella sua risposta, l’episcopato ha negato che “i fratelli maggiori che ci hanno preceduto” abbiano avuto “qualsiasi complicità con fatti delittuosi”.

I Cristiani per il terzo millennio avevano progettato di andare in Vaticano per insistere davanti alla Santa Sede, un proposito che è rimasto incompiuto quando Benedetto XVI ha deciso di ritirarsi e la burocrazia vaticana ha designato Jorge Bergoglio per sostituirlo. Oggi diversi Cristiani per il terzo millennio fanno parte del gruppo chiamato Laudatianos, che celebra ogni parola di papa Francesco. La chiesa cattolica vuole di più. Ora chiede applausi.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/opinione/horacio-verbitsky/2016/11/28/vaticano-archivio-argentina

Il pogrom di Chios

15085509_565654473633073_4711784068792001197_n

Quando andavamo a scuola ascoltavamo i professori parlare dei pogrom avvenuti nel corso della Storia e condannarli duramente. A metà degli anni ’90 ritenevamo assurdo che simili vergognose pagine potessero essere scritte nuovamente. I pogrom contro gli Ebrei, gli Slavi, i comunisti, gli omosessuali, ecc. erano diventati le sentinelle della dignità umana, con il loro grido proveniente dal passato: «Mai più»!

In quegli anni nessuno credeva che la nostra isola sarebbe diventata uno dei luoghi in cui sarebbe stato scritta un’altra vergognosa pagina di storia. Alcuni criminali nazisti sono saliti sulle mura del castello di Chios per distruggere completamente la vita di esseri umani sradicati. Vedendo i grandi buchi sulle tende e le pietre enormi accanto ai letti dei rifugiati, ho constatato che i criminali non volevano spaventare le persone ospitate nel campo profughi, ma ucciderle. Vogliono il morto.

E sappiamo bene perché vogliono un morto.

Perché quel morto sarà la scintilla che porterà il caos. Conosciamo molto bene anche i mandanti morali e gli autori del crimine. Due sono venuti a parlare sull’isola il giorno prima l’accaduto, mentre il loro capo lo ha celebrato due giorni dopo. I criminali dell’isola li conosciamo bene, come conosciamo la loro vigliaccheria. Attaccano in gruppo profughi, solidali e persone di sinistra. Colpiscono di notte, come è accaduto per la cucina sociale. Minacciano chiunque, senza eccezioni, e insultano sfacciatamente chiunque si trovino davanti, anche il (precedente) capo della polizia di Chios. Non li ferma nessuno.

Le autorità comunali sono rimaste a guardare.

La polizia segue il corso degli eventi senza arrestare nessuno dei criminali. Al contrario, mette le manette solo a solidali e profughi. I poliziotti dovrebbero pensare a questo quando si lamentano della mancanza di empatia nei loro confronti.

Ma la cosa peggiore è la tolleranza dimostrata dalla comunità di Chios nei confronti di questi atti criminali. Ho detto molte volte che i neonazisti sono criminali, ma il silenzio della comunità è complice di quanto accade da alcuni mesi a questa parte.

Negli ultimi mesi la disumanità di queste persone ha scritto molte pagine buie della storia dell’isola. I presidi carichi d’odio, le provocazioni al porto di Chios, dove erano stati sistemati i rifugiati, i petardi lanciati in mezzo ai gruppi di bambini, i cortei fascisti e ora la pioggia di pietre e molotov sul campo profughi.

Il momento in cui arriverà il primo morto è vicino.

Le autorità e la polizia possono disinteressarsi della situazione.

Ma non noi.

Non tutti noi, che vogliamo il bene dell’isola e degli esseri umani.

Per quanto riguarda i criminali di qui, voglio semplicemente dire quanto mi dispiace che abbiano aggiunto la mia isola sulla lista delle vergogne della Storia.

di Ghiorgos Chatzelenis

Fonte: http://chatzelenisgeorge.blogspot.it/

Traduzione di AteneCalling.org

 

http://atenecalling.org/il-pogrom-di-chios/

La mano nera dietro la manifestazione di Archi

di Alessia Candito

Lunedì, 10 Ottobre 2016 11:18

C’è una doppia tragedia nella squallida manifestazione che un centinaio di abitanti di Archi hanno inscenato ieri nei pressi dell’ex facoltà di Giurisprudenza, oggi mal riconvertita in un centro di accoglienza. Non si tratta solo di una manifestazione razzista. Non si tratta solo dell’ennesimo sconcertante episodio di una stupida e fratricida guerra fra poveri. Quella manifestazione è soprattutto la conferma di un giogo da cui il quartiere non si sa e non si vuole emancipare.

Schiavo di silenzio ed omertà, per decenni durante i quali nelle sue strade senza nome si è consumata una guerra da ottocento morti ammazzati, schiavo di un degrado tutto uguale a se stesso, voluto e ricercato come condizione ideale per creare un esercito che ogni giorno necessita di carne da cannone, oggi il quartiere porge il collo a un nuovo giogo. E sempre schiavo rimane.

Quella di domenica ad Archi non è stata una manifestazione spontanea. C’è una mano nera dietro il gruppetto di leoni, riuniti per ore nei pressi del centro di accoglienza, per insultare trecento ragazzini sopravvissuti a stento al viaggio devastante che li ha portati in Italia. A svelarlo, è il simbolo che con arrogante noncuranza è stato tracciato a mo’ di firma sotto gli striscioni esposti nel corso della manifestazione. Si tratta di una Odal ed è da sempre uno dei più noti segni distintivi di Avanguardia Nazionale, di cui più di uno fra i manifestanti è un orgoglioso esponente.

 

DSC 3222

Sciolto più volte come movimento eversivo, Avanguardia si è ripresentato più volte sotto molti nomi e molte forme. Ma non ha mai cambiato natura. È lo stesso movimento che negli anni Settanta vedeva fra i propri entusiasti sostenitori Paolo e Giorgio De Stefano e quel Paolo Romeo, che oggi per missiva giura e spergiura la propria fede democratica, nonostante decine di pentiti, neri e di ‘ndrangheta, raccontino la sua storica vicinanza a Stefano “Er caccola” Delle Chiaie.
È lo stesso movimento che reclutava carne da cannone nelle periferie grazie ai danari versati da fin troppi nomi noti della grande borghesia reggina, che orfani di un golpe abortito, hanno giocato la propria partita tessendo le fila dei Moti di Reggio. È lo stesso movimento, che ha portato per mano la ‘ndrangheta nei grandi giochi della strategia della tensione, accompagnandola a fare il lavoro sporco nelle strade e nelle piazze, fra omicidi politici e bombe “dimenticate” nei cestini.

Oggi Avanguardia Nazionale si ripresenta ad Archi, con i propri simboli e i propri militanti. Ancora una volta, gioca con gli istinti più sordidi e malpancisti di un quartiere che alla propria condanna non si è mai saputo ribellare. Come negli anni Settanta, ancora una volta indica un nemico facile – e inerme – come responsabile del degrado cui i veri padroni di Archi hanno condannato il quartiere. Ancora una volta la rabbia sociale è stata convogliata contro un bersaglio facile, prima che si dirigesse contro il reale nemico. E se oggi come quarant’anni fa, ci fossero i clan dietro chi si veste di nero e urla “prima gli italiani”? Né Archi, né il resto della città si possono permettere il lusso di attendere di scoprirlo.

Per l’ennesima volta, il quartiere si è dimostrato uno schiavo, sciocco e felice. Per l’ennesima volta, si è fatto abbindolare da chi gli ha raccontato che le sue strade senza nome, i suoi servizi inesistenti, i suoi palazzoni dimenticati siano colpa di chi è arrivato per ultimo e solo per chiedere aiuto. Per l’ennesima volta, proprio quando i clan sono in ginocchio, quando le loro storiche menti sono confinate dietro le sbarre, qualcuno gioca a innescare una bomba sociale che non c’è. Per l’ennesima volta, ha avuto gioco facile, grazie ad amministrazioni che hanno cambiato nome e volto, ma allo stesso modo hanno continuato a servire il culto di una città che nasconde il degrado in periferia come polvere sotto il tappeto.
Per l’ennesima volta, Archi ha reso omaggio al culto dell’omertà che diventa connivenza, dell’indifferenza che diventa giustificazione. Ma in questo modo non ha perso solo Archi. Ieri, per l’ennesima volta, è stata sconfitta tutta la città.

 

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/l-altro-corriere/il-blog-della-redazione/item/50513-la-mano-nera-dietro-la-manifestazione-di-archi

LA MACCHINA DELLA MORTE SIRIANA

Colgo l’occasione di un post del compagno Germano Monti per parlare del “dossier Caesar”.

Dal profilo Facebook di Germano Monti:

·

Pensierino del pomeriggio: non è la Turchia, le immagini non sono di vittime della repressione di Erdogan. E’ la Siria, le immagini sono di vittime della repressione di Assad, una piccolissima parte delle foto esportate clandestinamente da “Caesar”, un fotografo della polizia militare siriana che ha disertato nell’agosto di tre anni fa. Erano tutti manifestanti pacifici, attivisti per i diritti umani, rifugiati palestinesi, semplici cittadini. Quindi, potete infischiarvene, come avete fatto fino ad ora.

"Soldiers from the Assad regime shown placing numbered victims of starvation and other means of torture in body bags before stacking them.  This photo was taken by Caesar or one of his fellow military photographers between 2011-2013."
"Numbered victims of starvation and other means of torture lined up in rows to be photographed and catalogued by the Assad regime before being placed in body bags and stacked.  These victims were placed in a warehouse when the nearby hospital that the regime had used for this purpose overflowed with victims' bodies.  This photo was taken by Caesar or one of his fellow military photographers between 2011-2013."
"A Christian Syrian victim of starvation and other Assad regime torture.  His regime assigned number is written on his stomach and right thigh.  The white card held in the picture also shows the victim's number and the number of the regime security unit responsible for his detention and death.  His number and eyes have been covered in this picture out of respect for the victim's family, which may not yet be aware of his death.  This picture was taken by Caesar or one of his fellow regime photographers between 2011-2013."
"Victims of starvation and other Assad regime torture.  The white card held in the picture shows the center located victim's number and the number of the regime security unit responsible for his detention and death. His number and eyes have been covered in this picture out of respect for the victim's family, which may not yet be aware of his death. This picture was taken by Caesar or one of his fellow regime photographers between 2011-2013."
Stand with Caesar: Stop Bashar al-Assad’s Killing Machine ha aggiunto 28 nuove foto all’album: Evidence of Bashar al-Assad’s Killing Machine — a Damasco.

This is an extremely small sample of the nearly 55,000 photos that Caesar smuggled out of Syria. These are also some of the least gruesome. Most of the other photos show unimaginable cruelty, far beyond what you see even in the horrible photos included here. Due to Facebook limitations and our concern that children may view these images, we have chosen to show these alone for now. In the future, we may add others in order to more fully display the unspeakable brutality of the Assad regime’s killing machine. These photos have been analyzed and validated by various international experts, including the FBI.

Fonte:
Dal blog di Germano Monti:

CHI HA PAURA DI CAESAR?

MILAN, ITALY - JULY 15:  Chamber of Deputies President Laura Boldrini attends congress on feminicide at the Camera del Lavoro on July 15, 2013 in Milan, Italy. Data from EU.R.E.S (European Economic and Social Researches) reports that between 2000 and 2011, of the 2,061 total women in Italy who had died, 1,459 died as a result of domestic violence.  (Photo by Pier Marco Tacca/Getty Images)

La domanda corretta sarebbe: “Chi ha paura delle immagini delle vittime delle torture degli aguzzini di Bashar Al Assad trafugate dalla Siria e divulgate all’estero da un ex fotografo della polizia militare del regime?”. Troppo lunga per un titolo.
Ai lettori del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano la vicenda è già nota da tempo: la Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, ha impedito l’esposizione nelle sale di Monte Citorio della mostra comprendente una selezione delle fotografie scattate da “Caesar”, impiegato della polizia militare siriana, incaricato di fotografare i corpi delle vittime decedute – dopo essere state atrocemente torturate – nelle carceri del regime di Assad. Una trentina di immagini, scelte fra le migliaia scattate da Caesar fra il 2011 e il 2013, già esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU, al Parlamento Europeo, al parlamento inglese e in molte università.
Il pretesto con cui la Boldrini ha opposto un rifiuto all’esposizione della mostra, curata dall’associazione “Non c’è pace senza giustizia”, appare francamente improbabile: le immagini sarebbero troppo crude e potrebbero turbare gli alunni delle scolaresche che visitano quotidianamente i locali della Camera e del Senato. Che si tratti di un pretesto, lo dimostra il fatto che, come si è detto, le stesse immagini sono state mostrate nelle sedi istituzionali di New York, Londra e Strasburgo, oltre che in alcune università. Per non parlare del fatto che, se la crudezza di certe immagini andasse veramente risparmiata alle scolaresche, bisognerebbe interrompere le visite organizzate per gli studenti ad Auschwitz e negli altri lager e, magari, proibire che i testi di storia ne pubblichino le fotografie… a meno che il problema non sia il fatto che le immagini dei lager di Hitler sono perlopiù in bianco e nero, mentre quelle dei lager di Assad sono a colori.

***

Proviamo ad andare oltre l’evidente pretestuosità del diniego opposto da Laura Boldrini all’esposizione delle fotografie di Caesar, anche se è difficile non osservare come offenda l’intelligenza dei cittadini italiani. L’esistenza in Italia di una forte e trasversale lobby che potremmo definire “filo Assad” è cosa nota, come è noto che tale lobby comprenda non solo attivisti sia di estrema destra che di “sinistra”, ma anche – e soprattutto – potenti settori del Vaticano, segnatamente quelli più reazionari, nonché la schiera di ammiratori italiani del presidente russo Vladimir Putin, schiera anch’essa forte e trasversale, comprendendo la Lega di Salvini, tutte le formazioni della destra post missina (da Fratelli d’Italia della Meloni alla Destra di Storace) e quelle della destra più radicale, CasaPound e Forza Nuova incluse. A “sinistra”, invece, le ragioni del dittatore siriano sono validamente sostenute da alcuni personaggi che godono di una certa notorietà (come il giornalista Giulietto Chiesa), da tutta la galassia di partitini più o meno “comunisti” e da alcuni settori che si definiscono “pacifisti”. Dulcis in fundo, nell’armata italiana che difende la trincea di Assad si è arruolato anche il Movimento 5 Stelle, che ha chiesto la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Damasco e la riapertura dell’ambasciata della Siria a Roma, chiusa nella primavera del 2012 dal governo italiano, dopo l’ennesima strage di civili operata dalle truppe del dittatore.
E’ possibile che la pressione di queste forze abbia influito in maniera decisiva sulla scelta di Laura Boldrini di oscurare le immagini di Caesar? Solo in parte. Probabilmente, la motivazione di una scelta tanto umiliante per la dignità dell’istituzione che rappresenta risiede nella volontà di non creare difficoltà alla politica estera del governo Renzi, basata sulla spasmodica ricerca di consensi e di sostegno “a prescindere”, che si tratti dei monarchi sauditi o del Pinochet del Cairo, il generale golpista il cui regime è responsabile di crimini quantitativamente lontani da quelli commessi da Assad, ma qualitativamente non meno feroci, come ha tristemente dimostrato a tutti la vicenda di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e assassinato al Cairo da una delle tante squadracce delle forze di sicurezza di Al Sisi.
Il servilismo di Renzi in politica estera è perlomeno pari alla sua spocchiosa arroganza in politica interna, aldilà delle cartucce a salve sparacchiate contro l’Europa dei burocrati, a beneficio del tentativo di rosicchiare qualche voto nell’area crescente dell’antipolitica (che, più correttamente, dovremmo definire con il termine storico di qualunquismo). La signora Boldrini non ha fatto altro che accodarsi al corteo dei cortigiani del nuovo “uomo forte” della politica italiana, ben deciso a tenersi buoni i vari Al Sisi, Rouhani, Al Saoud – con annessi Rolex in omaggio – ed anche Putin, probabilmente senza nemmeno rendersi conto che questi giochini somigliano più ai baciamano di Berlusconi a Gheddafi che alle sottigliezze diplomatiche di Andreotti. E la signora Boldrini, nella carica che ricopre, si è mostrata molto più simile a Irene Pivetti che a Nilde Iotti.

 

Fonte:

LA MACCHINA DELLA MORTE DEL REGIME DI ASSAD. IL RACCONTO DI “CAESAR”.

Buchenwald_Victims

caesar 15

Buchenwald ieri                                                                     Damasco oggi

Un libro che tutti dovrebbero leggere, soprattutto i tanti ignavi che, di fronte a quello che sta avvenendo in Siria, pensano che Assad sia “il male minore”. Leggendo La macchina della morte, della giornalista francese Garance Le Caisne, sembra di tornare indietro nel tempo, quando si inorridiva di fronte alla consapevolezza di un’altra macchina della morte: quella dei lager nazisti.

L’autrice e gli editori del libro hanno scelto di non pubblicare le immagini che “Caesar”, ex fotografo della polizia militare siriana, ha fatto uscire clandestinamente dal Paese, motivando così la loro scelta. “Buona parte delle foto sono visibili in rete. Non avremmo saputo quali scegliere, né con quale criterio. E poi si tratta di immagini davvero molto, molto forti. Alcuni potrebbero esserne turbati al punto da non volere o potere proseguire la lettura”. E’ una scelta condivisibile, perché le immagini dell’orrore della tragedia siriana sono da anni a disposizione di tutti, attraverso le migliaia di filmati e di fotografie che gli attivisti rivoluzionari hanno postato sui social network e che documentano la repressione delle manifestazioni, gli effetti dei bombardamenti del regime, le torture… ma questa valanga di immagini ha finito per mitridatizzare l’opinione pubblica, rendendola insensibile, abituandola a convivere con lo scempio. La parola scritta, al contrario, nella sua apparente freddezza, finisce con il rendere comprensibile e razionale quello che le immagini possono lasciare intuire e che, a fronte della loro insostenibilità, contribuiscono a rimuovere.

Leggendo La macchina della morte è impossibile non cogliere le analogie con l’organizzazione dello sterminio degli Ebrei, degli Slavi, dei comunisti, degli oppositori – veri o presunti – costruita dai gerarchi del III Reich. La stessa ossessione per la burocrazia, la stessa paranoica ripetitività, la stessa banalizzazione del Male. Del resto, gli apparati repressivi del regime degli Assad sono stati costruiti con la consulenza e la supervisione di Alois Brunner, assistente di Adolf Eichmann, il quale lo definì il suo uomo migliore. Come comandante del campo di internamento di Drancy dal giugno 1943 all’agosto 1944, Alois Brunner fu responsabile dello sterminio nelle camere a gas di oltre 140.000 ebrei. Dopo la sconfitta del nazifascismo, sfuggito alla cattura, Brunner, dopo un lungo girovagare, trovò rifugio in Siria, dove il regime di Assad padre gli fornì protezione e un impiego come insegnante di tecniche di tortura presso i servizi segreti del regime. Scorrendo le pagine de La macchina della morte non si può non constatare come gli “insegnamenti” di Brunner siano stati diligentemente appresi e messi in pratica.

Altri insegnamenti, invece, sembrano essere stati dimenticati, come rivelano le parole di Margit Meissner, sopravvissuta all’Olocausto: “I rifugiati che fuggono dalla Siria hanno lo stesso sguardo disperato che ho visto in chi fuggiva dal regime nazista. Ma la distruzione degli ebrei in Europa era segreta, e le poche informazioni vennero respinte perché la gassificazione di civili era ritenuta improbabile. La crisi umanitaria in Siria non è certo un segreto. E’ stata documentata per quattro anni ed è, a detta di tutti, la più grande crisi di rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale. (…) Quando i fatti della Seconda Guerra Mondiale sono stati conosciuti, ho creduto che una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere di nuovo. Che pensiero ingenuo”.

la macchina della morte

 

Fonte:

AUSCHWITZ A DAMASCO

Auschwitz, Damasco

Il dossier “Caesar”

“Voi potete prendere fotografie da chiunque e dire che si tratta di tortura. Non c’è alcuna verifica di queste prove, quindi sono tutte accuse senza prove”

Bashar Assad alla rivista Foreign Affairs, 20 gennaio 2015

Non è dato sapere quante persone, in Italia, siano informate a proposito della vicenda di “Caesar” e delle sue fotografie. In sintesi, “Caesar” è lo pseudonimo di un disertore dell’esercito siriano, un fotografo militare che, per circa due  anni, dall’inizio della rivolta contro il regime della dinastia Assad fino al 2013, era incaricato di documentare – fotografandoli – i corpi degli oppositori morti nei centri di detenzione di Damasco. Nell’estate di quell’anno, “Caesar” riesce ad uscire dalla Siria, portando con sé le copie delle immagini di decine di migliaia di cadaveri di vittime dei carnefici del regime siriano.

Ad oggi, a non tutte le immagini è stato possibile attribuire con sicurezza un’identità accertata, ma ce n’è quanto basta per parlare di una Auschwitz del XXI secolo. Recentemente, l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha eseguito un’analisi delle immagini e delle informazioni fornite da Caesar, pubblicando poi un dettagliato rapporto (in inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, giapponese, cinese e russo) che costituisce un atto d’accusa semplicemente sconvolgente, intitolato Se i morti potessero parlare – Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria. Le foto di “Caesar” sono state consegnate a HRW dal Movimento Nazionale Siriano e l’organizzazione umanitaria si è concentrata su 28.707 immagini che, sulla base di tutte le informazioni disponibili, mostrano almeno 6.786 persone morte in carcere o dopo essere stati trasferiti dal carcere in un ospedale militare, come il n. 601 di Mezze, Damasco. “Le foto rimanenti – scrive HRW – sono di attacchi a luoghi o di corpi identificati dal nome come appartenenti a soldati governativi, altri combattenti armati o a civili uccisi in attacchi, esplosioni o attentati”.

Le foto di “Caesar” hanno fatto il giro del mondo: sono state esposte in una mostra al Palazzo di Vetro dell’ONU a New York e al Parlamento Europeo di Strasburgo, a Londra e a Parigi. In Francia, la giornalista Garance Le Caisne ha raccolto il racconto di “Caesar” in un libro – “Opèration Cèsar” (Stock editore) – uscito lo scorso ottobre e la magistratura francese ha avviato un’inchiesta nei confronti del regime di Assad per crimini contro l’umanità, sulla base dell’art. 40 del Codice di Procedura Penale, che obbliga ogni autorità pubblica a trasmettere alla giustizia le informazioni in suo possesso se è venuta a conoscenza di un crimine o di un delitto. Gran parte della segnalazione inviata dal Ministero degli Esteri di Parigi alla magistratura si basa sulla testimonianza di “Caesar”.

In Italia, la vicenda di “Caesar” appare largamente sottovalutata, se non oggetto di una censura strisciante che lascia spazio alla propaganda dei sostenitori locali del dittatore siriano, molto numerosi a destra – dove contano sul sostegno di formazioni come la Lega Nord, Fratelli d’Italia e tutti i gruppi dell’estremismo nero, da Forza Nuova a CasaPound – ma presenti anche a “sinistra”, nei partiti di ascendenza stalinista, come i Comunisti Italiani o il PC di Marco Rizzo, o nei vari movimenti sedicenti “antimperialisti”. Quello che fa la vera differenza rispetto ad altri Paesi europei, probabilmente, è il sostegno garantito alla dittatura siriana da ampi settori del Vaticano, un sostegno esplicito nel caso degli esponenti della Chiesa Melchita, la cui sede romana (la Basilica di Santa Maria in Cosmedin, in Piazza della Bocca della Verità) è l’ambasciata de facto del regime siriano, dopo l’espulsione dell’ambasciatore e la chiusura dell’ambasciata di Damasco in Italia, avvenuta nel 2012. Leggi l’articolo intero »

Fonte:

Fermo, Emmanuel sta morendo. L’ha ucciso la violenza razzista

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche.

535531

Nigeriano picchiato a sangue a Fermo da un giovane, che secondo le ricostruzioni avrebbe insultato pesantemente e strattonato la compagna. I due giovani sono accolti dalla Fondazione Caritas in veritate, guidata da don Vinicio Albanesi. Che afferma: “Ci costituiremo parte civile. Sono gli stessi che hanno messo le bombe davanti alle nostre chiese”

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche. Emmanuel, insieme, alla compagna Chimiary, sono ospiti da otto mesi del seminario arcivescovile di Fermo, nel progetto gestito dalla Fondazione Caritas in veritate di don Vinicio Albanesi. Accolti dopo esser sfuggiti a Boko Haram, dopo aver attraversato il Niger, superato le terribili violenze della Libia e sbarcati nel nostro paese.
Nel gennaio scorso era stato lo stesso don Albanesi ad unirli informalmente in matrimonio, presso la Chiesa di San marco alle Paludi. Un sogno che si era avverato per i due giovani, visto che proprio per sfuggire alle violenze non erano riusciti a coronare il loro sogno di amore in Nigeria.

Scrive Massimo Rossi, ex presidente della Provincia di Ascoli, esponente molto conosciuto di Rifondazione comunista

Chimiary é stremata, distrutta, inconsolabile. Qui nel reparto rianimazione dell’ospedale, le stanno proponendo la donazione degli organi di Emanuel, per dare la vita, magari, a quattro nostri connazionali… Lui, Emanuel, che era scampato agli orrori di Boko Haram nella sua Nigeria; con lei, la sua amata compagna, era sopravvissuto alla traversata del deserto, alle indicibili violenze della Libia, alla tragica lotteria della traversata del mare. Da noi si aspettava finalmente umanità, protezione ed asilo. A Fermo, nella mia “tranquilla” provincia, ha invece incontrato la barbarie razzista che cresce nell’indifferenza, nell’indulgenza e nella compiacenza di larghi settori della comunità, della politica, delle istituzioni. L’hanno ammazzato di botte dopo averlo provocato, paragonandolo ad una scimmia, due picchiatori, figli della città, cresciuti nell’umus del fascistume infiltrato ampiamente nella tifoseria ultras. Loro, che paragonarli alle bestie offende l’intera specie animale. Le mie lacrime, le nostre lacrime e la nostra vergogna per questo orrore che si é nutrito della putrefazione della nostra insensibilità, del nostro egoismo e delle nostre paure non basta affatto. Cosa dobbiamo attendere ancora per mettere al bando con ogni mezzo, tutti noi, cittadini e Istituzioni, il razzismo e fascismo che si annida nella nostra vita sociale e politica?

Da sinistra: Letizia Astori, Don Vinicio Albanesi, Suor Rita Pimpinicchi. Foto Zeppilli
Conferenza stampa 06 luglio 2016 2

La vicenda. Era il primissimo pomeriggio di ieri quando Emmanuel e Chimiary stavano passeggiando in centro città, diretti verso la piazza principale per acquistare una crema. I due si sono imbattuti in due giovani italiani, già conosciuti per la loro appartenenza al tifo organizzato della locale squadra di calcio. Secondo la ricostruzione della compagna di Emanuel, uno dei due avrebbe iniziato a insultare con epiteti razzisti la giovane, cominciando a strattonarla, tanto da suscitare la reazione di Emmanuel. Ne sarebbe scaturita una rissa, con un paletto della segnaletica estratto dalla strada, violenti fendenti e un colpo probbailmente decisivo che ha raggiunto il giovane Nigeriano alla nuca. Una volta a terra, sempre secondo il racconto di Chimiary, il giovane sarebbe stato colpito ripetutamente. Soccorso dai vigili, dagli agenti di polizia e dai sanitari, dopo lunga attesa, le condizioni del giovane sono sembrate disperate. Alla ragazza, invece, sono stati concessi cinque giorni di prognosi.

Chimiary ed Emmanuel
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi

La Fondazione si costituisce parte civile. “Una provocazione gratuita, a freddo – ha ricostruito oggi in conferenza stampa don Vinicio Albanesi -. Ci costituiremo parte civile, nella veste di realtà a cui i due ragazzi sono stati affidati”. Sono 124 i profughi accolti nella struttura del seminario di Fermo, tra cui 19 nigeriani. Non solo: “Per questa sera abbiamo già organizzato una veglia di preghiera. Vogliamo pregare e chiedere perdono per non aver saputo proteggere e accogliere una giovane vita, sfuggita al terrore per trovare poi la morte in Italia”. Ora il pericolo da scongiurare è una escalation di nervosismo tra i profughi o in città: “Non accettiamo vendette. C’è un ragazzo in condizioni disperate e un altro che ha rovinato la sua vita e quella della sua famiglia”.
Di certo, la Comunità di Capodarco – di cui don Albanesi è presidente – accoglierà Emanuel per sempre. La volontà è quella di mettere a disposizione uno dei loculi che la comunità ha nel vicino cimitero.

Linciaggio e bombe: stessa mano? Nel corso della conferenza stampa, don Albanesi ha anche lasciato trapelare una indiscrezione importante: “Ci sono piccoli gruppi, di persone che si sentono di appartenere evidentemente alla razza ariana! Fanno capo anche alla tifoseria locale e secondo me si tratta dello stesso giro che ha posto le bombe davanti alle nostre chiese! E se lo dico, significa che non è una semplice impressione…”. Una dichiarazione che sembra imprimere una svolta importante anche alle indagini sui diversi attentati di cui sono stati fatte oggetto quattro chiese fermane nei primi mesi dell’anno.

Chimiary ed Emmanuel nel giorno del matrimonio
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi 2

Una storia d’amore finita tragicamente. Quella di Chimiary ed Emmanuel è una storia d’amore iniziata in Nigeria, che aveva superato le terribili violenze in Libia (per le botte ricevute, la giovane in stato di gravidanza si era sentita male durante il viaggio in mare, tanto da abortire al suo arrivo in Italia), le difficoltà nel nostro Paese. Emanuel aveva avuto problemi di salute, tanto che per lui la Commissione territoriale aveva chiesto un supplemento di istruttoria nella richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari. “Ci sono ottime possibilità che il permesso venga concesso”, ha sottolineato l’avvocato Letizia Astorri. Lo scorso mese di gennaio, come ricordato, era stato lo stesso don Vinicio Albanesi a unirli in matrimonio, seppur in maniera “non regolare” vista la mancanza di documenti dei due giovani. La liturgia cristiana, celebrata da don Albanesi nella veste di parroco e di presidente della Fondazione che li ha accolti, è stato infatti un matrimonio privo di effetti civili poiche i due ragazzi non avevano i documenti necessari. Questo però non aveva impedito ai due di realizzare il sogno maturato nella terra di origine.

© Copyright Redattore Sociale

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/07/06/fermo-emmanuel-sta-morendo-lha-ucciso-la-violenza-razzista/