Ecco la testimonianza di un detenuto uscito venerdì dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. Intanto a Bologna aumentano i contagi.

 CARCERE  13 Apr 2020 21:00

«Detenuti picchiati in carcere da 300 agenti a volto coperto»

A scatenare la violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sarebbe stata la protesta pacifica dei reclusi per i contagi da coronavirus, come confermato dal sindacato di polizia penitenziaria

L’ultima telefonata l’aveva ricevuta nella tarda mattinata del 6 aprile scorso, poi più nulla. Solo dopo alcuni giorni, la moglie di un altro detenuto l’aveva avvisata che suo marito non avrebbe effettuato nessuna chiamata perché non era in condizioni fisiche a causa delle numerose percosse subite. Ma non è un caso isolato. A seguito di una protesta avvenuta al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero stati presunti pestaggi perpetrati nei confronti dei detenuti e, secondo alcune testimonianze, ne avrebbero fatto le spese anche coloro che non sarebbero stati parte attiva della protesta. Da ricordare che tale protesta (secondo i detenuti sarebbe consistita nelle battiture) è scaturita dalla circostanza che alcuni detenuti erano risultati positivi al covid 19. Ma non solo. La preoccupazione era rivolta al fatto che risultavano assenti le dotazioni di sicurezza anti contagio.

 

Alcune delle ferite riportate da un detenuto di Santa Maria Capua Vetere dopo il pestaggio

 

La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano presunte violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Diverse sono le testimonianze. La più emblematica consiste nel fatto che, in maniera singolare, il giorno dopo la rivolta e il presunto pestaggio, diversi detenuti non hanno avuto la possibilità di effettuare le videochiamate. Perché? Secondo i familiari sarebbero state evitate per non far vedere loro i segni delle presunte percosse. Diverse testimonianze coincidono perfettamente e ricostruiscono ciò che sarebbe avvenuto nella sezione coinvolta. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena.

 

Altri segni del pestaggio

 

A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta.

«Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle – racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate». Ma non solo. «Per dimostrare la loro superiorità e durezza – racconta sempre l’ex detenuto – dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba». L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse – prosegue sempre l’ex detenuto – «gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma».

Il garante regionale Samuele Ciambriello ha raccolto varie testimonianze, comprese quelle ottenute dall’associazione Antigone, e le ha portate all’attenzione non solo della Procura ma anche della magistratura di sorveglianza.

 

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/detenuti-picchiati-carcere-da-300-agenti-volto-coperto/?fbclid=IwAR0dRIzTzCpthNKHCd1a-6dirNA3WxZ2nW1MT5m0VdhwdkDxRT-F3b51FJU


Ancora contagi in carcere: 10 nuovi casi a Bologna

Sono oltre duecento gli operatori della Polizia penitenziari affetti da Covid-19 su tutto il territorio nazionale

Aumentano casi Covid 19 nel carcere bolognese de la Dozza.  Oggi pomeriggio è pervenuto l’esito dei tamponi, a cui erano stati sottoposti una ventina di detenuti, con esito positivo per dieci di loro.

«Il dato assoluto è di per sé molto preoccupante, ma ciò che più allarma è la media di circa il 50% di positivi sugli ultimi tamponi effettuati», denuncia  Gennarino De Fazio, per la Uilpa Polizia Penitenziaria nazionale che ha reso pubblica la notizia del dato relativo alla Casa Circondariale di Bologna.

«Dal carcere di Bologna proveniva il primo detenuto deceduto per Covid – ha aggiunto – e sono attualmente almeno dodici i ristretti ivi affetti da coronavirus, mentre altri ancora sono risultati positivi dopo essere stati trasferiti presso altri istituti. Non sappiamo se le proteste che hanno interessato il penitenziario il 9 e il 10 marzo scorsi possano aver avuto incidenza su quanto sta avvenendo, tuttavia, considerato anche che è passato oltre un mese, a noi pure questo sembra indicativo della sostanziale inefficacia con cui l’emergenza sanitaria viene affrontata dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria».

I focolai nelle carceri oramai non sembrano essere episodici, ma vengono registrati in differenti zone geografiche, da Bologna a Verona a Torino a Voghera, solo per citare alcuni istituti e non considerando i penitenziari dove il numero dei detenuti contagiati rimane relativamente contenuto. Il sindacalista della Uil pol pen sottolinea che sono ben oltre duecento, secondo le sue stime, gli operatori della Polizia penitenziari affetti da coronavirus su tutto il territorio nazionale.

Il carcere di Bologna ha visto un primo detenuto morto per coronavirus, già debilitato da numerose patologie e che si era visto – inizialmente – rigettare l’istanza per incompatibilità ambientale. Un carcere dove gli stessi agenti penitenziari hanno denunciato la mancata protezione individuale e si è scoperto che ci fu un ordine ben preciso – da parte dell’azienda sanitaria – per non indossare le mascherine per non spaventare i detenuti. Nel frattempo il leader sindacale De Fazio denuncia: «Continuiamo a pensare che sia indispensabile una svolta sistemica nella gestione carceraria e che questa non possa realizzarsi sotto l’attuale conduzione, per questo auspichiamo ancora che la responsabilità venga pro-tempore assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri».

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/ancora-contagi-carcere-10-nuovi-casi-bologna/

Per la morte di Antonio Fiordiso, picchiato in cella, otto medici indagati

Otto iscritti al registro degli indagati per la morte di Antonio Fiordiso, il detenuto morto in ospedale l’ 8 dicembre 2015. Sono finiti sotto inchiesta i medici che erano di guardia all’ospedale di Taranto quella notte. Risultano tutti indagati per avere, per ragioni in corso di accertamento, causato per negligenza, imperizia e imprudenza la morte di Antonio Fiordiso.

La sostituta procuratrice della Repubblica Maria Grazia Anastasia ha anche disposto “accertamenti tecnici irripetibili”, come aveva richiesto il gip Pompeo Carriere, accogliendo la richiesta di Oriana Fiordiso, zia di Antonio e sua unica parente. Si spera che verrà fatta luce per questo 31enne di San Cesario di Lecce, arrestato anni prima per rapina.

Dopo un ultimo colloquio nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce i suoi familiari lo hanno rivisto ormai in coma. Nessuno li aveva avvertiti. Lo stato in cui lo trovarono era disumano: irrigidimento degli arti e atrofie muscolari, in dialisi per intensa disidratazione, lividi evidenti sul corpo, commozioni cerebrale e intercostale, impossibilità a parlare. Il primario confermò che era arrivato in ospedale in stato comatoso, con polmonite così avanzata che era divenuta una setticemia ormai diffusa anche nel sangue; operato d’urgenza ai reni per la forte disidratazione. Poi nel giorno dell’Immacolata del 2015, il ragazzo spirò presso il reparto di rianimazione dell’ospedale “San Giuseppe Moscati” di Taranto. Senza che i suoi parenti abbiano potuto parlargli, e conoscere la verità. Alle interrogazioni dei deputati Elisa Mariano e Salvatore Capone ( Pd), il ministro della Giustizia aveva risposto ricostruendo gli ultimi mesi di vita. Così si apprese che Antonio era stato picchiato in carcere da alcuni detenuti di origine rumena. Una ricostruzione tutta ancora da verificare.

Damiano Aliprandi da il dubbio

Tratto da

http://www.osservatoriorepressione.info/la-morte-antonio-fiordiso-picchiato-cella-otto-medici-indagati/

Hotspot, strutture al collasso. A Pozzallo rinchiusi 180 minori

L’hotspot di Pozzallo, in Sicilia, è al collasso. Nei giorni scorsi sono sbarcati oltre 650 immigrati, tra i quali un centinaio di minori. La situazione diventa sempre più critica: a fronte di una capienza di 180 persone, al centro ci sono ancora 182 minori. La Protezione civile ha allestito tende per circa 200 persone, i migranti senza una sistemazione adeguata, seppur provvisoria, sono restati a bordo. L’emergenza in corso non fa che peggiorare la situazione già degradante, uno delle quattro strutture volute dall’Ue e aperte in Italia – gli altri sono a Lampedusa, Trapani e Taranto – dove i migranti dovrebbero rimanere 72 ore per essere identificati e fotosegnalati, per poi essere trasferiti in centri più idonei. A Luglio, la Commissione parlamentare d’inchiesta sui Centri di accoglienza aveva bocciato senza mezzi termini la struttura. L’ hotspot risulta ospitato in un capannone in cemento armato piantato alla fine del porto commerciale, completamente protetto da una recinzione metallica che in alcuni punti è integrata con delle assi di legno che impediscono di vedere all’esterno. Tutto attorno alla recinzione non c’è un filo di verde, solo cemento. Una struttura non adatta ad ospitare vite umane e dove, invece, si trovano centinaia di uomini, donne e minori, tutti insieme. L’hotspot è arrivato ad “accogliere” anche 400-500 persone. Con soli 5 bagni. Come se non bastasse, all’interno del Centro restano per settimane decine di minori non accompagnati: soggetti che dovrebbero essere protetti e trasferiti in strutture sicure. Il presidente della Commissione, Federico Galli, non aveva potuto far altro che evidenziare le carenze: infrastrutture inadeguate, sovraffollamento e permanenze troppo prolungate, soprattutto dei minori.
La Commissione aveva anche ascoltato il prefetto, Maria Carmela Librizzi, il responsabile della cooperativa che gestisce la struttura ed il sindaco di Pozzallo, Luigi Ammatuna. «Ho fatto il possibile per mantenere su buoni standard l’hotspot durante questi anni di emergenza, ma con fondi ridotti e senza aiuti dallo Stato non è possibile fare di più – ha sottolineato quest’ultimo – Ho rappresentato le difficoltà del Comune e non ho strutture alternative dove sistemare i minori. Il centro avrebbe bisogno di interventi di manutenzione, ma questi non possono essere a carico del bilancio comunale, già critico». Nonostante i problemi non risolti, la struttura continua ad essere aperta e operativa per contenere i nuovi arrivi.

Le norme
Gli immigrati minori non accompagnati non dovrebbero, per legge, essere rinchiusi negli hotspot. Si trovano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Si applicano per loro le norme previste in generale dalla legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori e, tra le altre, le norme riguardanti: il collocamento in luogo sicuro del minore che si trovi in stato di abbandono; la competenza in materia di assistenza dei minori stranieri, attribuita, come per i minori italiani, all’ente locale (in genere il Comune), l’affidamento del minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo a una famiglia o a una comunità. L’affidamento può essere disposto dal Tribunale per i minorenni (affidamento giudiziale) oppure, nel caso in cui ci sia il consenso dei genitori o del tutore, dai servizi sociali e reso esecutivo dal giudice tutelare (affidamento consensuale). La legge non prevede che per procedere all’affidamento si debba attendere la decisione del Comitato per i minori stranieri sulla permanenza del minore in Italia.
E quindi perché ci sono minori non accompagnati rinchiusi negli hotspot? Dovrebbero essere inseriti immediatamente in strutture protette, andrebbe avvertito il tribunale dei minori, il giudice tutelare dovrebbe nominare qualcuno che faccia le veci del genitore. Invece dimorano in questo stato per più di un mese. Questi centri sono una zona d’ombra dove è vietato – per ordine del ministro degli interni Alfano – fare entrare i giornalisti. Sono luoghi ancora più oscuri dei Cie, che invece hanno una copertura legislativa affinata e migliorata negli anni anche grazie alle battaglie della società civile.

Status giuridico
Come già denunciato da Il Dubbio, i nuovi hotspot – centri di contenimento e di selezione dei migranti appena arrivati in Italia – risultano luoghi privi di uno status giuridico certo, nei quali si realizzano forme diverse di limitazione della libertà personale, dove c’è il rilevamento forzato delle impronte digitali. Delle vere e proprie carceri in miniatura. La questione era stata sollevata da un’interrogazione presentata in Parlamento dal senatore Luigi Manconi, che, nel chiedere chiarimenti al governo su queste violazioni, ha ricordato l’articolo 13 della Costituzione, secondo cui «la libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».
Gli hotspot sono il fulcro della nuova strategia dell’unione europea per fronteggiare l’emergenza immigrazione. Si tratta di strutture già esistenti, ma ampliate. In teoria, dovrebbero funzionare trattenendo i migranti fino all’identificazione rapida – entro 48 ore dall’arrivo, prorogabili a 72 – e alla registrazione, prendendo anche le impronte digitali. Sono strutture che funzionano da filtro: vengono selezionati solamente i richiedenti asilo e rimpatriati gli immigrati giunti nel paese per motivi economici. Il dossier di LasciateCIEntrare – gruppo di associazioni che si occupano della detenzione amministrativa dei migranti – denuncia un grave problema di discriminazione: si garantisce la possibilità di accesso a forme di protezione solo a coloro che provengono da paesi i cui profughi sono almeno nel 75% dei casi considerati aventi diritto. Significa che gran parte dei Paesi, tutt’ora in guerra o in situazione politica, economica o ambientale critica, saranno considerati paesi sicuri in cui poter rimpatriare con la forza gli immigrati. Procedure rigide, coercitive e discriminanti. E in questo caso ce lo chiede anche l’Europa.

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/carcere/29209_hotspot_strutture_al_collasso_a_pozzallo_rinchiusi_180_minori/

Quei 900mila detenuti negli ex gulag di Stalin

di Damiano Aliprandi 12 ago 2016 14:35

Costretti ai lavori coatti nelle colonie penali siberiane. Nadja Tolokno, attivista e cantante russa del gruppo punk rock Pussy Riot ha creato la piattaforma ?Justice Zone? per una mobilitazione contro il sistema carcerario russo

Gelide oasi in cui sono costretti migliaia di alienati, obbligati ai lavori coatti con orari massacranti, paghe da fame e senza il permesso di coprirsi, a 30-40 gradi sotto zero, con indumenti caldi che non siano il cappotto poco imbottito fornito dai carcerieri. Parliamo delle famigerate colonie penali sparse in Siberia. Nella Russia di Putin, formalmente esistono solo sette carceri ordinarie, il resto dei detenuti – che sono oltre 900 mila – vengono dislocati in queste strutture ereditate dai Gulag staliniani.
La condizione delle detenute.
Sono circa 750 le colonie penali e le donne, secondo i dati dell’autorità penitenziaria di Mosca, rappresentano una minoranza di oltre 47 mila detenute, spedite in 46 colonie femminili. E le donne subiscono delle torture che ricordano descrizioni non molto diverse dai quadri dei gulag tratteggiati dal grande romanziere Aleksandr Sol?enicyn, rinchiuso nel 1950. Una delle testimoni è Nade?da Andreevna Tolokonnikova, anche nota come “Nadja Tolokno”, un’attivista e cantante russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, finita in galera per aver cantato per mezzo minuto un inno contro Putin sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Quando è uscita dalla colonia ha deciso di intraprendere una battaglia di mobilitazione per il sistema carcerario russo. Con altre attiviste ha creato la piattaforma “Justice Zone”: la base per l’azione collettiva di persone accomunate dall’interesse per il destino di quelle detenute le cui vite si stanno sgretolando sotto il sistema penale russo. Molte sono le testimonianze. Una è di Kira Sagaydarova, attivista di Justice Zone che nel passato aveva vissuto il dramma dei gulag “moderni”. Questi sono solo alcuni degli episodi che Kira ha vissuto: “Per i primi sei mesi ti uccidono lentamente. Rizhov, direttore della zona industriale, vuole che i supervisori dei laboratori di cucito raggiungano una certa quota di produzione, ma i supervisori non raggiungono la quota finché le nuove ragazze non imparano a cucire. Perciò i supervisori le picchiano. Una volta ti picchiano, poi magari ti strappano i capelli, ti sbattono la testa contro la macchina per cucire o ti portano in una cella punitiva, dove ti prendono a botte e calci usando mani e piedi, oppure tolgono la cinghia dalla macchina per cucire e ti colpiscono con quella”. Dice, ancora: “I supervisori sono i responsabili della maggior parte delle violenze che avvengono nella colonia penale. Fanno quello che vogliono e dispongono a loro piacimento della vita delle persone. Mi hanno colpito sulla schiena con tutta la loro forza, o sulla testa, non fa differenza. Più volte sono crollata e ho pianto, e non riesco nemmeno a elencare tutte le cose che succedevano lì. A loro non importa nulla. C’è stato un periodo in cui ci versavano addosso acqua gelida in una cella punitiva ghiacciata in pieno inverno! ”
Le condizioni maschili e la famigerata “Aquila nera”.
Ma per gli uomini è ancora peggio. Una delle peggiori colonie penali, la numero 56, viene chiamata anche Aquila Nera: è una delle carceri di massima sicurezza per i condannati all’ergastolo. Per un quarto di secolo i detenuti non hanno mai messo piede fuori da questo luogo. Per il rifornimento d’acqua, il carcere è collegato con tubature ad un lago, mentre l’energia nelle celle e nei recinti elettrificati è garantita da una serie di generatori. Non esistendo il sistema fognario, gli ergastolani devono svuotare il loro secchio nell’ora d’aria giornaliera in un fosso su cui si affacciano tutti i cortili. I reclusi trascorrono 23 ore al giorno dentro la cella, e hanno diritto a trascorrere solo un’ora fuori ma all’interno di una sala scoperta, senza tetto. Sono costretti a dormire con la luce accesa e durante il giorno è proibito restare a letto. Nel resto delle colonie, formalmente, l’obiettivo della reclusione nei campi è quello di abbinare la rieducazione allo sconto della pena, secondo il principio – travisato dai nazisti – per cui il “lavoro rende liberi”. La realtà è che i detenuti sono costretti a turni asfissianti di lavoro e pulizie, in strutture che sono le stesse dai tempi di Stalin. E con salari miseri di 20 rubli al giorno, non più di 70 euro al mese. Il compenso serve a coprire i costi delle uniformi e del rancio quotidiano.
Il sistema giudiziario senza alcuna garanzia per l’imputato.
E se il sistema penitenziario russo è devastante, non è da meno nemmeno quello giudiziario. Secondo la denuncia di Amnesty International, diversi processi di alto profilo hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario penale della Russia, tra cui la mancanza di parità tra le parti, l’uso della tortura e altri maltrattamenti nel corso delle indagini, nonché l’incapacità di escludere in aula le prove inquinate dalla tortura, l’uso di testimoni segreti e di altre prove segrete, che la difesa non può contestare, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato di propria scelta. Il dato parla chiaro: meno dello 0,5 per cento dei processi si è concluso con l’assoluzione. Il caso di Svetlana Davydova è stato uno dei sempre più diffusi casi di presunto alto tradimento e spionaggio, categorie di reato definite in modo vago, introdotte da Putin nel 2012. Svetlana Davydova era stata arrestata il 21 gennaio dell’anno scorso per una telefonata fatta otto mesi prima all’ambasciata ucraina, in cui aveva avanzato il sospetto che alcuni soldati della sua città, Vjaz’ma, nella regione di Smolensk, fossero stati inviati a combattere in Ucraina orientale. L’avvocato nominato d’ufficio aveva dichiarato ai mezzi d’informazione che la donna aveva “confessato tutto” e si era rifiutata di ricorrere in appello contro la sua detenzione perché “tutte queste udienze e il clamore sui media [creavano] un inutile trauma psicologico ai suoi figli”. Il 1° febbraio 2015, due nuovi avvocati hanno preso il caso. Svetlana Davydova ha denunciato che il primo avvocato l’aveva convinta a dichiararsi colpevole per ridurre la sua probabile condanna da 20 a 12 anni. Il 3 febbraio è stata rilasciata; il 13 marzo, in contrasto con tutti gli altri casi di tradimento, il procedimento penale nei suoi confronti è stato archiviato. A settembre dell’anno scorso è iniziato il processo contro Nade?da Savcenko, cittadina ucraina e appartenente al battaglione volontario Aidar. È stata accusata di aver deliberatamente diretto il fuoco dell’artiglieria per uccidere due giornalisti russi durante il conflitto in Ucraina, nel giugno 2014. La donna ha insistito sul fatto che il caso era stato inventato e che le testimonianze contro di lei, tra cui quelle di diversi testimoni segreti, erano false. Il suo processo è stato caratterizzato da moltissimi vizi procedurali. Il 15 dicembre del 2016, il presidente Putin ha approvato una nuova legge in base alla quale la Corte costituzionale poteva dichiarare “inattuabili” le decisioni della Corte europea dei diritti umani e di altri tribunali internazionali, qualora “violassero” la “supremazia” della costituzione russa.

 

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/giustizia_e_carcere/28760_quei_900mila_detenuti_negli_ex_gulag_di_stalin/

«A mio padre vogliono far fare la fine di Provenzano»

 di Damiano Aliprandi 22 lug 2016 12:37

La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, da 24 anni al 41 bis e in cella a L’Aquila

Ha un tumore alla faringe e i 24 anni di 41 bis gli anno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio scorso, ma restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila.

Parliamo di Vincenzo Stranieri. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. “Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano”.

La sua denuncia è stata raccolta dalla radicale e presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Subito si è attivata chiedendo al capo del Dap, Santi Consolo, di intervenire sulla vicenda. Rita Bernardini conosce bene la situazione perché aveva già segnalato il grave problema del carcere di L’Aquila: durante la visita di Pasqua aveva ritrovato reclusi cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e ottenuto la risposta che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno. Uno che faceva il porta-vitto, le chiese “Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso? ”. Un altro ancora le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. “Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare? ”.
Rita Bernardini fa quindi presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, sarà riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. A questo si aggiunge che a causa della sua malattia ha bisogno della chemioterapia: il carcere di L’Aquila sarà in grado di riservargli questo trattamento sanitario assolutamente indispensabile?

Alla trasmissione Radio carcere,  condotta da Riccardo Arena, la Bernardini ha posto in diretta la questione a Santi Consolo. Il capo del Dap le ha risposto che purtroppo tutto rientra nella legge, dove è espressamente previsto che le persone ritenute ancora pericolose possono essere sottoposte a misura di sicurezza. Tuttavia ha segnalato il problema al magistrato di sorveglianza il quale ha ritenuto che Vincenzo Stranieri, nonostante i suoi gravi problemi di salute fisica e mentale, sia compatibile con la misura di sicurezza in 41 bis. Consolo ha comunque espresso il parere personale – in sintonia con quello della Bernardini – che tale regime in 41 bis non è compatibile nemmeno con la finalità del lavoro, per questo ha allertato il Provveditore regionale per chiedere chiarimenti. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante abbia scontato tutti gli anni inflitti e il sopraggiungere di questa grave malattia?

Ma come denuncia efficacemente Rita Bernardini, è giusto che la figlia Anna, oggi che il padre si trova nella cosiddetta “casa di lavoro” dell’Aquila, si sia sentita umiliata quando con arroganza qualcuno, alla sua garbata domanda “come sta mio padre? ”, ha risposto “è in cella! ”. La Bernardini conclude amaramente: “Anna Stranieri lo sa bene che suo padre è in cella e che ci rimarrà contro ogni principio di legalità e di umanità per altri due anni, ma era proprio necessario calpestare i suoi sentimenti? ”
Nel carcere di L”Aquila, in realtà, è stata creata una casa di lavoro per internati sottoposti al regime previsto dall’art 41 bis op. Attualmente sono presenti, oltre a Stranieri, Filippo Guttadauro, Salvatore Corrao, Salvatore Nobis e Pasquale Scarpa. Sono stati collocati nella dismessa area riservata del carcere e sono trattati come detenuti particolarmente pericolosi, La loro gestione è affidata al Gom, lo speciale reparto operativo mobile.
Salvatore Corrao è internato da due anni e mezzo, gli altri da circa 7 mesi. Sono in gruppi da due persone, non hanno un programma trattamentale, non sono seguiti da educatori e criminologi. Il magistrato di sorveglianza non è mai andato in carcere a verificare le condizioni in cui si trovano questi internati nonostante le molteplici richieste avanzate.
Da qualche mese gli hanno consentito di lavorare, solo dopo le ripetute richieste avanzate dal difensore, ma solo con mansioni di scopino o porta vitto, A distanza di oltre due anni di reclami e ricorsi rigettati, anche il loro comune difensore, Piera Farina, ha perso la speranza.

Scarpa e Nobis nel mese di febbraio hanno presentato una licenza per gravi motivi di famiglia ma non hanno avuto riscontro dal magistrato. Corrao si trova nella peggiore delle condizioni: dopo 9 anni di detenzione (di cui 7 in regime di alta sorveglianza e 2 in 41 bis op) ha visto rigettarsi licenza premio, riesame anticipato della pericolosità e revoca anticipata del 41 bis. A febbraio scorso scadevano i due anni di casa lavoro ma il magistrato si è determinato a prorogarla di 6 mesi e il tribunale di sorveglianza de L’Aquila cui è stato proposto appello non ha ancora depositato l’ordinanza. Il ministro della Giustizia gli ha prorogato il regime speciale a maggio e si è in attesa dell’udienza. Anche Scarpa ha avuto la proroga del regime speciale a gennaio e il tribunale di sorveglianza di Roma investito del reclamo ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata, ritenendola infondata.
Appare evidente che sia stato creato un nuovo e mascherato “fine pena mai” e magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di Roma giocano a palla avvelenata.

 

 

Fonte:

http://www.ildubbio.news/stories/carcere/28545_a_mio_padre_vogliono_far_fare_la_fine_di_provenzano/

Nelle celle “umanitarie” di Herat, donne picchiate e torturate

a. carceri

Donne detenute per aver ”disonorato” la famiglia, altre per aver osato sfidare il marito padrone, denunce da parte dell’Onu per le torture sistematiche all’interno della sezione maschile. Tutto questo avviene in un carcere afghano, ritenuto il fiore all’occhiello dalle autorità militari italiane che lo hanno finanziato per scopi ”umanitari”. La struttura penitenziaria in questione si trova ad Herat, la seconda città più grande dell’Afghanistan. Il carcere è diviso in due: c’è la parte maschile composta da 3310 detenuti, e quella femminile, da 160.

La maggior parte delle donne detenute stanno scontando una pena che da noi non sarebbe considerata neppure un peccato veniale. L’aver amato un uomo diverso da quello scelto dalla famiglia, l’essere rimasta incinta fuori dal matrimonio o l’aver mancato di rispetto a un padre padrone sono considerati reati da punire e quindi c’è l’arresto e le donne possono scontare anni di galera.

C’è la storia di Saaeqa che ha 27 anni e quattro bambini. La sua colpa? Essere scappata di casa perché il marito (sposato a 13 anni) era un violento. «Mi picchiava – aveva racconta Saaeqa – non poteva fare a meno dell’oppio». Lei si sente colpevole e si era detta disposta a ritornare dal marito, ma alla condizione di non essere picchiata. Ma sa che ciò non accadrà e che sarà ”costretta” ad andare a vivere dalla madre, e questo verrà considerato un grande disonore. Si dovrà vergognare per tutta la vita.

Poi c’è la storia di Naeeba, 25 anni. È stata accusata di aver ucciso il marito. Lei si dichiara innocente. A 12 anni era stata costretta a sposarsi con l’uomo di 51 perché era incinta di lui. Poi un giorno fu ritrovato bruciato e venne accusata di omicidio. Secondo lei sono stati i figli perché non sopportavano più che la picchiasse. Ma non finisce qua.

Sempre nello stesso carcere finanziato dal governo italiano – specificamente nella sezione maschile dove finiscono i presunti talebani catturati dal nostro contingente – avvengono delle torture sistematiche. A denunciarlo è stata l’Onu attraverso un dossier del 2011 corredato da prove definite ”schiaccianti”. Un dossier che dovrebbe far riflettere sui compromessi – come quelli sulle donne detenute – accettati dal nostro governo nella missione che dovrebbe portare ’la civiltà alle popolazioni afghane.

L’inchiesta dell’Onu si concentra sulle persone custodite dai servizi di sicurezza di Kabul, chiamati National directorate of security o in sigla Nds. I quattro reclusi catturati dalla polizia nazionale non hanno nulla da denunciare, mentre dei dodici uomini affidati agli agenti speciali, ben nove parlano di maltrattamenti che arrivano fino alla tortura: tra loro c’è anche un ragazzo di sedici anni.

La delegazione dell’Unama – l’organismo Onu che vigila sulla rinascita dell’Afghanistan – scrive che ci sono «prove schiaccianti che gli agenti del Nds sistematicamente torturano i detenuti per ottenere informazioni e, possibilmente, confessioni». Le testimonianze raccolte dall’Onu sono agghiaccianti e sembrano simili alla detenzione del carcere di Abu Ghraib, la prigione irachena dove gli americani torturavano i reclusi.

E così il dossier racconta che ad Herat, durante la notte, un agente del Nds preleva il detenuto dalla cella, gli lega le mani dietro la schiena e benda gli occhi, poi lo porta in un’altra stanza nell’edificio dell’intelligence afghana. Lì comincia l’interrogatorio e, a un certo punto, arriva la minaccia: «Se non ci dai le informazioni ti picchiamo». Allora lo sbattono con la faccia sul pavimento e cominciano a colpirlo sulla pianta dei piedi, con un cavo elettrico. Poi con i piedi sanguinanti lo costringono a camminare sul pietrisco o sul cemento grezzo.

Nel rapporto sono inclusi i resoconti dei detenuti picchiati. «Io avevo gli occhi bendati e i polsi legati, stavo seduto su un tappeto. Loro urlavano: ”Parlaci del capo dell’attacco. Io continuavo a rispondergli che non c’entravo, a ripetere il mio alibi. Sembrava che loro sapessero che io non ero coinvolto nell’attacco ma volevano informazioni da me e non mi credevano. Mi dicevano: ”Se non ci dici la verità, ti picchiamo”. Allora mi hanno gettato con la faccia sul pavimento, legando le miei ginocchia e sollevandole in modo che i piedi fossero sospesi in aria. Quindi mi hanno colpito due volte sulla schiena con una specie di tubo, poi sono passati a colpire i miei piedi. Non so cosa usassero, ma era molto doloroso: penso fosse un cavo elettrico, perché sulla pelle mi sono rimasti tanti buchi lasciati dai fili che spuntavano dalle estremità. Mi facevano domande, poi picchiavano e ricominciavano a chiedere. Io urlavo per il dolore. Allora mi hanno fatto alzare e camminare fino al cortile e mi hanno lasciato in piedi sul cemento grezzo per cinque minuti».

I militari italiani potrebbero risultano complici indiretti? Non si parla solo della ricostruzione del carcere, ma anche del fatto che formalmente, ogni nostro reparto consegna immediatamente i presunti talebani o i sospetti criminali nelle mani della polizia nazionale Anp . Ufficialmente quindi non abbiamo mai fatto prigionieri, nonostante esistano immagini di miliziani ammanettati dalla Folgore nel 2009 o rapporti ufficiali di operazioni concluse con la cattura di numerosi sospetti. Il penitenziario di Herat – la capitale del distretto a guida italiana – è stato sempre comunque affidato ad una sorta di supervisione delle nostre truppe.

L’inaugurazione del carcere di Herat è avvenuta nel marzo del 2010 e sono due i progetti curati dal Provincial Reconstruction Team italiano del Regional Command West su base Brigata “Sassari”. Il primo progetto, del valore di circa 54 mila euro, ha riguardato la costruzione del nuovo centro polifunzionale (dotato di cucina, servizi igienici ed impianto di climatizzazione) utilizzato sia come “training room” per lo sviluppo di corsi studio e di recupero professionali, sia come “visiting room” per favorire momenti d’incontro tra i detenuti ed i loro familiari.

Il secondo, invece, è consistito nella realizzazione del nuovo sistema di videosorveglianza del carcere, progetto del valore di circa 37mila euro messi a disposizione dal Ministero della Difesa, che comprende una sala di controllo interna dotata di monitor ed un sistema di registrazione delle immagini che, attraverso diciannove telecamere esterne, ha consetito di migliorare le misure di sicurezza ed assicurare la sorveglianza dell’area perimetrale interna ed esterna della struttura.

Non sono mancate le passerelle dei nostri politici per osannare in pompa magna il nostro ”fiore all’occhiello. Aveva fatto visita alla struttura l’allora eurodeputato Pino Arlacchi , ricevendo congratulazioni dal governatore della città di Herat. Ma non è mancata nemmeno la visita di Michele Vietti, il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo aver incontrato i militari italiani in servizio presso il Comando della International Security and Assistance Force di Kabul e presso il Regional Command – West di Herat, il Comando subordinato responsabile per la regione occidentale attualmente guidato dalla Brigata alpina ‘Taurinense’, aveva fatto visita ovviamente ad Herat, dove ad accoglierlo all’aeroporto è stato il generale Dario Ranieri, comandante del Regional Command West, il quale lo ha aggiornato circa l’attuale situazione nella regione occidentale, con particolare riferimento al settore della giustizia e ai progressi registrati nel processo di transizione. Nella seconda giornata di visita, l’Onorevole Vietti aveva innanzitutto incontrato il Governatore della Provincia di Herat per poi visitare il carcere femminile.

Il vice presidente del Csm aveva espresso soddisfazione per il nostro operato e ricevuto ringraziamenti dalle autorità afghane per il nostro sostegno alla loro giustizia. Un sostegno per assicurare la detenzione delle donne per reati non contemplati dalle democrazie che hanno ottenuto l’emancipazione femminile, arresti e deportazioni coatte, torture inenarrabili. Sono state queste le nostre missioni umanitarie?

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2015/02/07/nelle-celle-umanitarie-di-herat-donne-picchiate-e-torturate/

 

 

Carcere di Sollicciano: “Seguici, maleducato”, poi lo picchiano… ecco le prove

Rachid Assarag ha registrato tutto: “mi avete picchiato, non potete negarlo”. e gli agenti: “tanto comandiamo noi”. È stato portato in isolamento, picchiato e lasciato senza cure. È l’ennesima denuncia shock che noi de Il Garantista riportiamo dopo aver contattato la moglie del detenuto che avrebbe subito il pestaggio.

Ha avuto un contrasto con un agente penitenziario che lo avrebbe dovuto portare in infermeria. Mentre gli apriva il blindo gli avrebbe detto: “Andiamo maleducato”. Il detenuto ha chiesto il perché di quell’insulto e ottenendo per risposta che se non ci fossero state le telecamere, “gliele avrebbe date”.

Poi sarebbero arrivati altri agenti, lo avrebbero portato in isolamento e lì lo avrebbero percosso. Questo è ciò che il detenuto ha denunciato alla moglie durante il colloquio telefonico durato dieci minuti. Le ha anche detto che non riesce a vedere bene da un occhio e che non lo vogliono portare in ospedale. Questo episodio sarebbe accaduto prima di capodanno all’interno del carcere di Sollicciano.

Si tratta di Rachid Assarag, marito di Emanuela D’Arcangeli, che aveva registrato le voci di medici e agenti che avevano ammesso le violenze all’interno del carcere di Parma. Nella registrazione la guardia carceraria si lascia andare: “Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”. Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero.

Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto le ha aggredite e l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusata i medici di omicidio e le guardie no. Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte. Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi”. Rachid – durante la registrazione che aveva fatto di nascosto – non si fa problemi a parlare delle violenze che avrebbe subito e spiega sempre al medico penitenziario: “Io ho subito, mi hai visto che io ho subito la violenza”.

E il dottore risponde: “Certo, ho visto… quello che voglio dire, è che lei deve imparare a… a… abituare… sì, perché non può cambiare lei, come non lo posso cambiare io!”. Ma Rachid non molla. Insiste. Vuole risposte per capire come muoversi, a chi far presente cosa non funziona. Il medico parla anche delle “protezioni” da parte della magistratura di cui godrebbero gli agenti. E cita il caso di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per droga e morto in custodia cautelare una settimana dopo, vicenda finita con L’assoluzione al processo d’appello. “Ah, il magistrato è dalla parte di loro?”, chiede Assarag.

“Certo… in un caso di morte, in un caso di morte come quello di Cucchi, sono riusciti a salvare gli agenti e hanno inchiappettato i medici”. Grazie a queste registrazioni – in seguito rese pubbliche – è partita un’ispezione interna da parte dell’Amministrazione penitenziaria e un’inchiesta è stata aperta dalla Procura.

Per quiesto motivo Assarag è stato trasferito al carcere di Sollicciano. La moglie aveva inviato una lettera alla direttrice del carcere affinché gli garantisse protezione da eventuali ritorsioni. Emanuela D’Arcangeli tramite il suo blog “Carcere e Verità” sta intraprendendo una battaglia per combattere la situazione infernale del sistema penitenziario. Con una lettera pubblicata dal Garantista, aveva lanciato un invito a intraprendere una lotta che non tra detenuti e guardie “cattive”, ma un fronte comune composto da familiari di detenuti, operatori e le stesse guardie penitenziarie che credono nel loro lavoro.

In altre registrazioni, sempre messe a disposizione sul canale You Tube del blog “Carcere e Verità”, ci sono colloqui con altre guardie carcerarie che ammettono di essere supini a uno spirito corporativo: non testimonieranno mai contro i loro colleghi.

Quello che avviene in carcere resta chiuso tra quattro mura; una sola parola vige tra gli operatori penitenziari: omertà. L’invito di Emanuela è quello di combatterla. Ma a quanta pare non è bastato, e Rachid sarebbe stato picchiato, ancora. Ha deciso, quindi, di inviare una lettera – che noi pubblichiamo integralmente – alla dottoressa Maria Grazia Giampiccolo affinché si accerti della violenza che ha subito per prendere immediatamente provvedimenti.

 

Lettera della moglie di Rachid al direttore del carcere di Sollicciano

 

Cortese dottoressa Maria Grazia Giampiccolo, il mio nome è Emanuela D’Arcangeli e sono io moglie di Rachid Assarag, detenuto presso il carcere di Firenze Sollicciano, dal maggio di quest’anno. Le scrivo affinché lei porti la mia riconoscenza agli agenti che lunedì 29 dicembre non hanno accompagnato Rachid al pronto soccorso, dopo avergli procurato un ginocchio dolorante e un occhio pesto, da cui non riesce più a vedere.

Lasciandolo poi in isolamento, dove non ha potuto parlare con le volontarie. C’è un gioco che si fa, quando si avvicina il Capodanno: ci si interroga su come sia andato un anno e su cosa ci si aspetta dall’altro, È un gioco infantile a cui mi ero prestata proprio dieci minuti prima di ricevere quella telefonata, in cui Rachid mi raccontava la sua mattinata di lunedì. Questo è stato un anno ricco di avvenimenti, alcuni gioiosi e altri spiacevoli, ma nel complesso mi era sembrato un “anno di semina”.

E per il 2015 ipotizzavo che quei semi gettati, potessero trasformarsi nel “raccolto” tanto atteso, se il tempo ci avesse dimostrato di aver seminato bene, Quella telefonata è arrivata a due giorni dalla fine dell’anno, giusto in tempo per essere l’ultimo seme del 2014, piantato nello stesso terreno degli altri. Aprile 2014: la faccia coperta di sangue di Rachid e le versioni discordanti fornite dal carcere di Prato, per trovare una spiegazione qualunque, che sollevasse il carcere stesso, da eventuali responsabilità.

Giugno 2014: il suicidio di un ragazzo marocchino, proprio nel carcere di Sollicciano, Una morte che si sarebbe potuta evitare, se alle regole e alle rigide procedure, si fosse anteposta l’umanità. Settembre 2014: l’articolo su l’Espresso, con la notizia delle registrazioni audio raccolte da Rachid nel carcere di Parma. Violenza, omelia e abuso di psicofarmaci. Un inferno dove Rachid ha trascorso un anno e dove altre persone ancora patiscono lo stesso trattamento.

Ottobre 2014: udienza del processo di Parma. I documenti audio vengono assunti come prova a favore di Rachid, accusato di resistenza a pubblico ufficiale, dallo stesso “gruppetto” di guardie, protagonista delle registrazioni. Dicembre 2014: l’ultimo seme. Quello piantato dagli agenti di Sollicciano, lunedì 29.

Prima che lo dica chiunque altro, lo dico io: Rachid è ribelle, polemico e arrogante. “Non sei l’avvocato di nessuno!” Quindi se vedi un “male”, taci. Questa era la lezione che aveva il dovere di imparare. Ma di fronte al “male”, lui non solo ha parlato, ma ha agito. Questo ha fatto di lui un ribelle. Giorni trascorsi in ozio; assistenza medica minima; assistenza psicologica quasi inesistente; anticostituzionalità complessiva del sistema carcere. Parlare sempre di queste cose, ha fatto di lui una persona polemica.

Pretendere rispetto dalle guardie, lo stesso che le guardie pretendono dai detenuti, ha permesso agli altri, di farlo apparire arrogante, se non violento.

Tutto questo può scusare la violenza e le lesioni che ha subito? Sì. Se il carcere dovesse formare ubbidienti soldati, fedeli e sottomessi alla gerarchia militare. O se fosse solo un contenitore dove costringere le persone cattive, a passare inutilmente una parte più o meno sostanziosa della loro vita, aggiungendo alla pena, altre pene accessorie non previste dalla legge.

Ma la verità è che la violenza è illegale e come tale, va denunciata, Sono riconoscente a quegli agenti, come può esserlo una completa idiota, perché hanno fatto quello che ci aspettavamo, ancora una volta. Ma a che prezzo Rachid pagherà il suo stare dalla parte della ragione, non lo so, perché non è stato nemmeno portato in ospedale! Dico queste cose a lei, come responsabile dell’istituto in cui si è consumata questa ennesima violenza, fiduciosa che vorrà saperne di più. Le porgo i miei più cordiali saluti, ringraziandola fin da ora per il suo interessamento.

Damiano Aliprandi da il Garantista

 

 

Citato in http://www.osservatoriorepressione.info/parma-seguici-maleducato-poi-lo-picchiano-ecco-le-prove/

 

Polizia sperona uno scooter: 17enne in ospedale. Ma la Questura nega

Durante un inseguimento, un’auto della polizia va a scontrarsi frontalmente addosso allo scooter dei due ragazzi inseguiti. Il conducente, minorenne, salta dal motorino, sfonda il parabrezza della macchina e cade a terra privo di conoscenza. Dopo un quarto d’ora, sono i cittadini accorsi sul posto a chiamare i soccorsi.

 

Polizia sperona uno scooter: 17enne in ospedale. Ma la Questura nega.

Roma, quartiere Tuscolano. Alle 18 di ieri, uno scooter entra contromano in Via Ponzio Cominio. Lo segue una voltante della polizia. Alla guida c’è Dragon, un ragazzo romeno di 17 anni. Seduto dietro di lui, un suo amico connazionale – maggiorenne – che al momento della chiusura di questo articolo risulta in stato di fermo presso il commissariato Tuscolano. Lo scooter era rubato e i due, alla vista della volante, avevano iniziato a scappare, facendo partire l’inseguimento.

Arrivati in Via Cominio, i ragazzi sullo scooter trovano una seconda auto della polizia – in borghese – che procede contro di loro, secondo il senso di marcia, per fermarli. Due testimoni oculari hanno raccontato a fanpage.it che questa seconda vettura è andata incontro al motorino, schiacciandolo verso una macchina parcheggiata in doppia fila.

Lo scontro sarebbe stato frontale. I testimoni raccontano che l’auto della polizia che andava in contro ai ragazzi avrebbe sterzato nella stessa direzione in cui stava girando lo scooter nel tentativo di fermarlo. All’impatto, il ragazzo che guidava il motorino è sobbalzato finendo prima sul cofano dell’auto, poi contro il parabrezza, sfondandolo.

All’arrivo sulla scena dell’incidente, i veicoli erano ancora fermi nella posizione dell’impatto. Lo scooter, orientato in direzione parallela alla carreggiata, si poggia sugli sportelli dell’auto parcheggiata in seconda fila. L’auto in borghese della polizia, orientata in obliquo con le ruote che sterzano in direzione della fiancata del motorino, ha il cofano ammaccato che tocca lo scooter di lato e il vetro del parabrezza in frantumi.

Due ragazze che si trovavano nei paraggi sono tra le prime ad accorrere sul luogo dell’incidente. “Mi sono messa a correre quando ho visto la polizia che inseguiva i ragazzi”, racconta una di loro. “Quando sono arrivata il ragazzo era appena cascato sulla macchina”, privo di sensi.

Sempre più persone iniziano ad avvicinarsi e dare addosso agli agenti di polizia. Dai cittadini del quartiere volano insulti, c’è chi grida agli agenti che dovrebbero aiutare il ragazzo anziché rischiare di ucciderlo. Dalle finestre c’è chi urla “infami!”. Qualcuno evoca il caso Cucchi.

Alla fine arrivano sul posto non meno di cento persone. Gli agenti sono costretti a chiamare altre volanti per farsi scudo e resistere alla folla. Avrebbero anche intimato ad alcuni dei presenti di non usare li smartphone per scattare fotografie. Per giustificarsi di fronte agli attacchi dei cittadini che li accusano di avere messo a rischio senza motivo la vita di un ragazzo, dapprima si giustificano spiegando che l’inseguimento era stato necessario per sventare la rapina che i due avrebbero cercato di mettere a segno ai danni di un centro scommesse SNAI dietro l’incrocio di Via Cominio.

“Ma gli abbiamo detto che davanti al punto SNAI c’eravamo noi e i ragazzi non hanno fatto nessuna rapina. Loro venivano dall’altra parte, la SNAI non l’avevano proprio vista”, raccontano le ragazze a Fanpage. Quindi la polizia avrebbe cambiato versione: i ragazzi avrebbero fatto l’incidente perché il conducente era drogato. Alla fine, salta fuori che sono stati i due a dare inizio all’inseguimento, scappando di fronte alla volante della polizia per non farsi fermare su di un veicolo rubato.

La polizia ha confermato a Fanpage quest’ultima versione, negando il coinvolgimento dei ragazzi in qualsiasi tentativo di rapina.

Tra i vari battibecchi, passano non meno di quindici minuti. Dragon è ancora fermo esattamente nella posizione in cui è caduto, privo di sensi. Poi, racconta Alessia, “noi abbiamo chiamato l’ambulanza perché loro [i poliziotti, ndr] non l’avevano proprio chiamata”. Da quel momento passano altri venti minuti prima che l’ambulanza del vicino Policlinico Tor Vergata giunga sul posto. Altre otto testimonianze raccolte da Fanpage confermano questa versione dei fatti.

Una fonte della sala operativa della Questura di Roma cerca di minimizzare: “È stato lo scooter ad andare a impattare contro la nostra macchina. Lo scooter ha imboccato la strada contromano e si è trovato davanti una macchina nostra e praticamente per fuggire non aveva scampo e gli è andato addosso. Non se n’è accorto perché aveva un’altra macchina dietro che lo stava inseguendo”. Quando chiediamo informazioni più dettagliate sulla dinamica dello scontro, la Questura non sa rispondere: “Nel merito dell’impatto non abbiamo informazioni”.

Dopo il ricovero al pronto soccorso, secondo le informazioni raccolte Dragon ha ripreso conoscenza ed è stato dichiarato fuori pericolo.

Il reparto volanti di Via Guido Reni, a cui appartengono gli agenti coinvolti nell’operazione, e il commissariato di polizia Tuscolano, arrivato sul posto con delle altre volanti dopo l’incidente, non hanno commentato i fatti né fornito ulteriori dettagli.

di Damiano Aliprandi e Federico Pignalberi

Fonte:

 

E le guardie gli dissero: «Impiccati o ti ammazziamo»

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Nell’estate del 2013, un recluso nel carcere di Terni si sarebbe suicidato su istigazione da parte delle guardie penitenziarie. A denunciarlo è il detenuto Maurizio Alfieri tramite una coraggiosa lettera che sta facendo il giro tra i siti web di controinformazione. Abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. all’interno della propria cella singola. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. La lettera che noi de Il Garantista riportiamo integralmente, racconta la storia che ci sarebbe stata dietro questo suicidio, rivelata dal detenuto Maurizio Alfieri.

Carissimi/e compagni/e,

Prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male… ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica.
L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14 bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico… Così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono
in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora 
sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro.

Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne constatava la morte e facendo le fotografie al morto…

Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante Fabio Gallo e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano… quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me.

Ecco perché da Terni mi hanno trasferito subito!

Ora possiamo far aprire un inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro. Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma l’ho fatto per quei ragazzi che erano terrorizzati… Ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al Dap a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciare impunita questa istigazione al suicidio… Devono pagarla.

Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci… Sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore.

Maurizio Alfieri, detenuto nel carcere di Spoleto.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/11/04/e-le-guardie-gli-dissero-impiccati-o-ti-ammazziamo/

 

Asinara, così Gratteri lo vuole riaprire

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La proposta di Nicola Gratteri di riaprire il carcere dell’Asinara continua a far discutere, soprattutto nel momento di visibile difficoltà del ministro della giustizia Orlando. La “Commissione Gratteri”, istituita per volontà del premier Renzi, ha acquisito lo status di Struttura Generale della Presidenza del Consiglio e lo stesso Gratteri, si dice determinato a portare avanti il progetto e farlo approvare entro l’anno. In Sardegna, la vicenda ha sollevato un vero e proprio polverone. Per Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda Socialismo Diritti Riforme: «Suscita viva preoccupazione la riapertura del carcere dell’Asinara per ospitare i detenuti in regime di 41bis proposta dal Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri incaricato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, insieme agli altri Magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di formulare un progetto di riforma del sistema penitenziario. Un nuovo programma assurdo che paradossalmente rischia di acquisire fondatezza proprio per il problema dei detenuti mafiosi destinati alla Sardegna».
Inoltre, sottolinea Caligaris, «la volontà di far prevalere la forza sulla ragionevolezza e il buon senso rischia di travolgere e annullare un percorso di emancipazione in cui l’isola dell’Asinara è inserita da tempo. Sarebbe infatti inqualificabile se lo Stato, dopo aver ceduto alla regione l’area demaniale, destinasse i detenuti in regime di massima sicurezza a un’isola-parco di straordinaria bellezza paesaggistica e naturalistica e dove il turismo sta assumendo finalmente un ruolo importante». Secondo la presidente la Sardegna appare sempre più destinata a subire scelte dall’alto: «Speriamo che stavolta si tratti solo di un esercizio letterario senza conseguenze, anche se è meglio vigilare».

Dagli anni settanta al 1998, anno della sua effettiva chiusura, il carcere dell’Asinara è stato un istituto di massima sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destra e estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano. Ma è stato anche luogo di detenzione per anarchici, come Passante e politici come Sandro Pertini. Prima di diventare un carcere di massima sicurezza, l’Asinara è stata una colonia penale e poi un penitenziario. Ma è durante gli anni 70 che il super carcere dell’Asinara acquista finalità ben diverse. A segnare la svolta anche il cambio di direzione che affida la guida dell’istituto a Luigi Cardullo, il quale lo dirigerà per otto anni con il pugno di ferro, guadagnandosi subito la fama di duro. Gli stessi agenti di custodia dell’Asinara l’avevano soprannominato “il viceré” e così Cardullo conquistò ben presto la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia.

Il suo comportamento attira l’attenzione dei giornali, ad esempio quando fa sparare, da alcuni agenti contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri dalla costa imposto dalla capitaneria. Oppure quando nel 1976, il processo a carico di un detenuto del carcere di Alghero, che lo accusava di comportamento illegale, si trasforma in un processo ai metodi spicci del “viceré” Cardullo. In quell’occasione la difesa non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle scuse di calunnie, ma riesce a concentrare l’attenzione dei media su quanto avveniva tra le mura del carcere. La realtà che emerge è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi sui detenuti, oltre alle sevizie psicologiche. La censura della posta e l’isolamento appaiono come metodi normalmente utilizzati.
Alle condizioni di vita sull’isola iniziarono a interessarsi diversi esponenti della politica italiana. L’onorevole dell’allora partito Comunista Vincenzo Balzamo, in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia, chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, rispettassero le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari. Richiesta avanzata nel tentativo per cercare di smentire la voce secondo cui alcuni detenuti, come Renato Curcio e Sante Notarnicola, erano trattati da “sepolti vivi”.

L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidarono una manifestazione pacifica contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta venne repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Carlo Horst Fantazzini, il famoso ”ladro gentiluomo”, perché in gravi condizioni. Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo del 1981, sempre al super carcere dell’Asinara, avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti.

Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. C’è il detenuto Pasquale De Feo , ergastolano ostativo, che racconta  quel periodo: «Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete, il freddo non essendoci riscaldamenti, non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità. In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo che un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno.

Ricordo di aver letto in un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori, di non essere creduti. Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavano. In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come hanno fatto su Alcatraz, in Italia, nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità». Se ne occupò anche Amnesty International nel 1993 che, raccogliendo varie testimonianze, pubblicò un dossier dove si denunciavano le torture che avvenivano nel supercarcere.

La chiusura del super carcere dell’a Asinara, definito la ”Guantanamo” sarda, e l’istituzione del Parco naturale (voluta e finanziata fortemente dall’Europa) diviene finalmente realtà il 27 dicembre 1997 tramite il Governo Prodi. Chiusura che a distanza di anni, grazie soprattutto al processo sulla presunta ”trattativa mafia- stato, viene percepita come un patto oscuro tra le Istituzioni e la criminalità organizzata: quando si prova a rendere umane le carceri, chiudere quelle che non rispettano i diritti dell’uomo o mettere in discussione il 41 Bis , subito rispunta il fantasma della “trattativa”. Una spada di Damocle davvero insostenibile.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/15/asinara-cosi-gratteri-lo-vuole-riaprire/