Linguaggi inclusivi tra terminologia e cinematografia: ne parlo con Stefania Ratzingeer

 

Nessuna descrizione disponibile. Immagine usata dall’autrice per firmarsi

Io: Ciao, Stefania. Grazie per aver accettato quest’intervista.

S.: Grazie a te. Mi fai sentire importante.

Io: Tu sei una docente d’italiano e hai scritto una tesi sulla democrazia linguistica. Cosa ne pensi del dibattito sul maschile sovraesteso nella nostra grammatica e sui nomi professionali al femminile?

S.: Io non insegno italiano, ma italiano seconda lingua. Ho scritto una tesi sull’ipotesi di democratizzazione della lingua dominante e sulla teorizzazione di una lingua comune per tutti, ovvero l’esperanto. Per quanto riguarda la lingua italiana, al momento credo che sia necessario introdurre termini che identifichino professionalmente anche il femminile, perché è dal linguaggio che passa la normalizzazione di concetti ancora eccessivamente stereotipati. In Italiano non abbiamo a disposizione pronomi neutri, come succede ad esempio con lo Svedese e con altre lingue di matrice anglosassone, e questo crea un importante ostacolo alla creazione prima dell’idea e poi della concretizzazione dell’esistenza di determinate figure professionali (e non) scevre da distinzioni di genere.

Io: Hai in parte anticipato la domanda successiva. Vorrei chiederti, infatti, qual è la tua opinione su asterisco, scevà e altre desinenze per superare il binarismo di genere.

S.:  E’ assolutamente necessario introdurre nella lingua italiana espedienti grammaticali che ci permettano di non concentrarci sul binarismo di genere, per poter passare dal concetto alla realtà. Sono piuttosto sfiduciata per quanto riguarda le tempistiche di questo cambiamento linguistico: l’italiano è una lingua che cambia in modo biologico, non a tavolino. Istituzioni come la nota Accademia della Crusca si occupano di legiferare in merito ai neologismi, ma si tratta di costrutti che nascono spontaneamente e non di decisioni prese a tavolino: per quanto riguarda l’annullamento nel linguaggio di quella che è una vera e propria discriminazione bisognerebbe valutare un intervento a tavolino, che va tuttavia contro le dinamiche di apprendimento cui siamo abituati. I tempi sono lunghi quindi, credo se ne possa parlare in modo sistematico almeno tra un paio di generazioni, iniziando a contare già dalla prossima, ma è una visione ottimistica.

Io: Sei anche una cultrice di cinema. Da qualche mese collabori con il sito agit-porn attraverso una rubrica di recensioni cinematografiche, nella quale rileggi trame di film horror in chiave pornografica. Come è nata quest’idea?

S.: Quest’idea è nata dal fatto che ho conosciuto Claudia Ska, la fondatrice di agit-porn insieme a Gea Di Bella, fondatrice di “La camera di Valentina”.  Parlando insieme a Claudia, è uscita fuori la mia passione per il cinema e abbiamo pensato che tra l’horror e il porno potessero esserci degli elementi in comune per via delle reazioni emotive che entrambi i generi suscitano: eccitazione nel caso del porno, paura nel caso dell’horror. Nell’horror c’è anche il fatto che spesso i personaggi vivono situazioni di non inclusione, oltre ad essere pure degli assassini, come nel film Psyco (di cui ho parlato nel mio ultimo articolo) o come (in un altro film di cui non ho ancora scritto) in Non aprite quella porta.

Ho messo insieme, quindi, due mie passioni, il cinema e il sesso, ed è nata una collaborazione proficua tra me e Claudia.

Io: Ci sono punti in comune fra il linguaggio letterario e il linguaggio cinematografico? Se sì, quali sono?

S: Io non sono particolarmente autorevole in materia ma una cosa su cui vorrei porre l’accento è la narrazione. Il cinema narra e la letteratura narra. Soprattutto i personaggi che nascono in contesti difficili hanno bisogno della narrazione. Oggi credo sia ancor più importante la contronarrazione. E’ quello che sto cercando di fare su agit-porn, rileggendo le trame di alcuni film conosciuti e creando delle contronarrazioni che le rendano meno tragiche. Per esempio, in uno dei film della saga di Alien c’è una narrazione traumatica di un aborto. Una contronarrazione potrebbe essere la rinuncia alla maternità non vista come un dramma ma come una libera scelta.

Riguardo alla letteratura, i romanzi evocano immagini nel lettore. Nel cinema, soprattutto mediorientale, esiste anche una tecnica di tipo evocativo. Il cinema horror è molto evocativo. Anche il cinema porno lo è. Penso, quindi, che anche da questo punto di vista cinema e letteratura si capiscano molto.

Io: Grazie per le tue risposte.

Donatella Quattrone

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

IO STO CON LA SPOSA: UN FILM CONTRO LE BARRIERE

Cinque giorni di fuga. Cinque compagni di viaggio, palestinesi e siriani. Un obiettivo: raggiungere la Svezia. Con un gruppo di ragazzi italiani e arabi ad accompagnarli, superando il filo spinato vestiti da matrimonio. Per sfidare le regole che bloccano chi fugge dalla guerra. E raccontare un’amicizia che può unire il Mediterraneo

di Francesca Sironi

 

Io sto con la sposa: un film contro le barriere

Lei ha il vestito bianco. Di quelli con le balze, da sposa-principessa. Di fianco un ragazzo magro in completo, cravatta, cappotto. Dietro un piccolo corteo matrimoniale: amici con l’abito buono, signore con la messa in piega, immancabili cappelli. Abbigliati a festa, tutti quanti, stanno passando sotto il filo spinato. Perché sono clandestini, in fuga dalla guerra siriana, dalle persecuzioni in Palestina. E questa è la prima tappa del loro viaggio clandestino da Milano a Stoccolma passando per Francia e Germania. Travestiti da invitati a un matrimonio per superare i controlli di frontiera.

Lo straordinario viaggio di questo gruppo di amici è raccontato da Gabriele del Grande , Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Alnassiry in “ Io sto con la sposa ”, un documentario-manifesto che da oggi è online per lanciare una raccolta fondi necessaria a finanziare la produzione del film. La storia è più che autentica e inizia a novembre del 2013: «Io e Khaled eravamo in stazione centrale, quando un ragazzo siriano, sentendoci parlare arabo, si è avvicinato chiedendoci indicazioni sui treni per arrivare in Svezia», racconta Gabriele del Grande, giornalista, inviato e autore del sito web “ Fortress Europe ”, dal quale aggiorna costantemente il numero di morti annegati nel Mediterraneo durante il loro viaggio-speranza per scappare dalla fame o dalle bombe.

Dall’inizio del conflitto siriano gli sbarchi sono aumentati, e così le tragedie, come quelle che a ottobre hanno coperto di bare i moli di Lampedusa. E oggi, mentre le navi di Mare Nostrum caricano emigranti a migliaia, Milano e la stazione Centrale sono diventati il rifugio di passaggio per tutti i profughi che non si vogliono fermare in Italia, e nell’arco di uno o due giorni scappano per raggiungere i Paesi del Nord. «Abbiamo la guerra in casa», commenta del Grande, continuando il racconto: «Abbiamo fatto amicizia con quel ragazzo. Lo abbiamo ospitato. E così abbiamo scoperto che è uno dei pochi sopravvissuti al naufragio dell’undici ottobre . Che ha passato ore in mezzo ai cadaveri».

Per raccontare la sua storia, e quella di molti altri che cercano ogni giorno di superare le frontiere europee senza farsi prendere, per arrivare in Svezia, dove ai richiedenti asilo sono garantiti documenti e futuro in breve tempo (a differenza che da noi), del Grande e i suoi amici hanno deciso di inventarsi un matrimonio: «Era il modo migliore per passare “inosservati”, proprio perché così eccentrici, al confine con la Germania. E poi volevamo superare l’immagine che tradizionalmente si ha di queste fughe: un’idea di vittime, di disperazione, di pura paura. Il nostro obiettivo era sfidare le leggi, le barriere, ma farlo sorridendo. Inscenando una festa che dimostri come sia possibile stringere amicizie e legami anche tra le due sponde del Mediterraneo».

Il 14 novembre l’improvvisato gruppo italo-sirio-palestinese parte. Attraversa il confine con la Francia all’altezza di una vecchia casa abbandonata dove ai muri sono rimasti i graffiti dei nostri emigranti di sessant’anni fa. Prende più auto a noleggio per arrivare in Germania passando dal Lussemburgo. Quindi il treno fino a Copenaghen. Poi altre macchine. Infine: Stoccolma. Sono salvi. Sono arrivati a una nuova casa.

«Io e gli altri miei due compagni d’avventura però rischiamo fino a 15 anni di carcere in realtà», spiega del Grande: «Per favoreggiamento d’immigrazione clandestina». Hanno già ingaggiato dei buoni avvocati però, pronti a dimostrare come per questa fuga loro non abbiano preso un soldo. Anzi, ne abbiano spesi parecchi: dai costumi, ai parrucchieri, al viaggio, ai panini all’autogrill, per non parlare della troupe che ha girato il film.

Ed ecco il perché della campagna di raccolta fondi: «Tutti i professionisti che ci hanno accompagnato per le riprese, e ora stanno lavorando al montaggio, hanno deciso di rischiare con noi. Sapendo che verranno pagati solo se riusciremo a raggiungere almeno il traguardo previsto di 75 mila euro», spiega l’autore: «Io stesso quando son rientrato a casa dalla Svezia avevo praticamente 30 euro sul conto».

Qui – Il sito web del documentario
Qui – La raccolta fondi per il film

 

 

Fonte:

http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/05/19/news/io-sto-con-la-sposa-il-documentario-e-una-sfida-contro-le-barriere-1.165887

What do you want to do ?

New mail