La denuncia di Giuseppe: “picchiato dagli agenti, così ho combattuto per vivere”

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Il Garantista, 12 settembre 2014

intervista a cura di Damiano Aliprandi

I fatti risalgono al 12 gennaio del 2011, nel carcere di Lucera. Dopo un alterco con un agente, fu pestato senza pietà. Delle foto testimoniano i colpi subiti.

Denudato in cella di isolamento, in gergo “cella liscia”. Torturato fino allo svenimento da una squadra di agenti penitenziari per punirlo a causa di un’offesa verbale nei confronti dell’agente preposto. E poi trascinato per i piedi, nudo e ancora sporco di sangue, in un’altra cella di isolamento con dentro soltanto un materasso sudicio.

Accadeva il 12 gennaio del 2011, in pieno inverno. E la tragica storia di Giuseppe Rotundo, all’epoca dei fatti detenuto nel carcere di Lucera, nel foggiano. Il processo per ristabilire verità e giustizia, è ancora in corso. Il suo caso è unico nel suo genere perché, di solito, i corpi dei detenuti pieni di lividi ed ematomi vengono fotografati solo da morti. Giuseppe Rotundo invece è sopravvissuto alla tortura e ha potuto denunciare l’accaduto.

 

Giuseppe, nella Casa circondariale di Lucera era in attesa di giudizio o aveva una condanna definitiva?

Avevo una condanna definitiva. Un anno e dieci mesi per detenzione di dieci grammi di cocaina.

 

Qual era il clima in carcere?

Fin dall’inizio mi resi subito conto in quale clima autoritario mi trovassi. Già dal primo colloquio con la mia famiglia capii che la convivenza con gli agenti penitenziari non sarebbe stata facile. La mia famiglia, soprattutto mia figlia, andò via dal carcere sconvolta dall’arroganza e dalla prepotenza degli agenti.

 

Perché? Cosa accadde?

Durante il colloquio mia figlia fu rimproverata dall’agente perché voleva abbracciarmi. Io a quel punto ebbi un alterco con lui e il colloquio mi fu sospeso. Ero in regime normale, mica al 41bis dove è vietato qualsiasi contatto fisico con i famigliari. Non mi capivo perché me lo vietassero. Ma l’episodio che fece scattare il massacro fu un altro.

 

Quale?

Era il giorno in cui noi detenuti potevamo fare la telefonata ai nostri famigliari. Ero in sosta con altri detenuti sulla rampa di scale che conduce al corridoio dove si trovava la cabina telefonica. Considerando l’alto numero dei detenuti, l’attesa si prolungava e allora decisi di salire in sezione perché un mio compagno di cella aveva pronto il caffè. Il regolamento lo vieta, ma lo facevano tutti e a nessuno era mai stato contestato. Invece a me quel pomeriggio mi fu contestata l’infrazione del regolamento con toni violenti. L’agente mi intimò di posare il caffè, a quel punto preso dalla rabbia e lo insultai verbalmente. Ovviamente sapevo che avrei ricevuto una sanzione disciplinare, ma non mi sarei mai immaginato quello che mi è accaduto.

 

Cosa?

Appena conclusa la telefonata, stavo per raggiungere la mia sezione. Ma un agente mi bloccò e mi disse di seguirlo in ufficio per la contestazione del rapporto disciplinare. Entrai nell’ufficio e fui subito aggredito verbalmente dall’agente che avevo insultato. Chiesi scusa e gli dissi che aveva ragione e che quanto detto da me, non era un mio abituale comportamento. Non accettò le scuse e mi minacciò dì farmela pagare. Non capivo, io ero responsabile delle mie azioni e pronto ad accettare la sanzione disciplinare che ne scaturiva. Fui invitato a raggiungere l’ufficio di comando, ma prima dovetti passare in cella di isolamento per l’ispezione. Una volta entrato lì, compresi la loro intenzione.

 

Ovvero?

All’interno della cella era presente un gruppo consistente di agenti penitenziari con i guanti di lattice. Io li invitai alla calma, mi denudai spontaneamente per farmi perquisire. Ma una volta nudo fui colpito violentemente con un pugno alla nuca. A quel punto reagii di istinto e detti un pugno in viso all’agente che commise quel gesto. A quel punto fu il buio totale; ricevetti dagli agenti calci e pugni in tutto il corpo con una violenza inaudita. Tanto da perdere quasi la coscienza e accovacciarmi per terra. Solo a quel punto smisero di picchiarmi.

 

Ha subito ricevuto un soccorso medico?

Assolutamente no. Mi presero per i piedi e mi trascinarono fin dentro la cella affianco e chiusero il blindato. Era una cella di isolamento, vuota e con un materasso lurido. Ero nudo e sporco di sangue. Rimasi la dentro in quelle condizioni per tutta la notte. Pensai alla mia famiglia, a mia figlia. Lottavo contro la morte perché non desideravo che venissero a trovarmi quando oramai ero dentro una bara. La mattina seguente aprirono la cella perché in programma avevo un colloquio con la psicologa. Mi dettero degli indumenti, mi vestii da solo con fatica e poi, sorreggendomi in due, mi portarono fino all’ufficio della dottoressa.

C’erano le dottoresse Natali e Vinciguerra, due psicologhe esterne del Ser.T. La dottoressa Natali, alla vista delle mie condizioni, scoppiò a piangere: il giorno prima del massacro mi aveva visto in condizioni normali perché avevamo fatto un colloquio costruttivo di mezzora. Immediatamente gli agenti, vedendo che la Natali stava piangendo, sospesero il colloquio e mi condussero nuovamente in cella di isolamento.

 

Fino a quanto tempo ci rimase?

Se non fosse stato per l’interessamento della dottoressa Natali, forse sarei rimasto lì dentro per tantissimo tempo. La dottoressa, seppi dopo, subito si attivò chiamando la mia avvocata Elvia Beimonte. Ma non solo. Chiamò subito il comandante e lo minacciò di denunciarla per istigazione al suicidio se non avesse dato l’ordine di farmi uscire dall’isolamento e predisporre cure mediche, compresa la tac.

 

Il comandante accolse la richiesta?

Sì. Mi fece visitare e mi spostò in una sezione dove c’era una cella più confortevole con materasso. Soprattutto con il termosifone, considerando che stavamo in pieno inverno. Ebbi finalmente modo di riposare e avere contezza di quello che mi era accaduto. Gonfio come un pallone, completamente irriconoscibile. Un agente mi disse che il loro collega, da me colpito con il pugno, era finito in ospedale. Io, completamente all’oscuro della coraggiosa iniziativa della Natali, decisi di scrivere una lettera alla mia avvocata. Scrissi tutta la mia storia, soprattutto per il timore di passare per un aggressore, anziché per l’aggredito. Inoltre ebbi la lucidità di spedire la lettera tramite un compagno di sezione, poiché avevo il timore che, a mio nome, non sarebbe partita mai. Nel frattempo gli agenti mi denunciarono all’autorità giudiziaria.

 

Quindi inizialmente il processo era esclusivamente a suo carico?

Inizialmente sì. Poi il Pm De Luca, dopo la mia denuncia, ha ritenuto che ci fossero gli elementi necessari per un altro procedimento penale nei confronti degli agenti. Quindi i due procedimenti sono stati unificati. Il processo quindi è in corso e la prossima udienza ci sarà il due dicembre prossimo. Ma per concludere l’intervista mi faccia fare dei doverosi ringraziamenti.

 

Prego…

Innanzitutto ringrazio la dottoressa Natali per il suo coraggio. Senza di lei non so che fine avrei fatto. Ringrazio anche l’aiuto immenso di Antigone tramite Patrizio Gonnella e gli avvocati Simona Filippi e Alessandro De Federicis per essersi costituiti parte civile nel processo. Per concludere volevo dire che non provo odio nei confronti degli agenti. Ma tanta pena, rabbia e dolore.

 

 

 

Citato in http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/giustizia-la-denuncia-di-giuseppe-qpicchiato-dagli-agenti-cosi-ho-combattuto-per-vivereq

Federico Perna, un testimone rivela: “Ho visto violenze e maltrattamenti su di lui”

 

10:03

 

 

“Ho visto un episodio di violenza su suo figlio”. Un detenuto scrive di aver assistito a questo e ad altri maltrattamenti su Federico Perna, il giovane di Pomezia morto nel carcere di Poggioreale lo scorso Novembre.

 

Qualcuno avrebbe visto violenze e maltrattamenti su Federico Perna, il giovane di Pomezia morto nel carcere di Poggioreale a Novembre 2013. Poi ha preso carta e penna e ha inviato una lettera alla madre, Nobila Scafuro. E’ un detenuto, che per il momento chiameremo con un nome di fantasia: Antonio. E conosceva Federico: racconta di essergli stato amico, e ricorda di aver passato diversi mesi con lui nel carcere di Poggioreale, la realtà che anche la Commissione Libertà Civili dell’Ue ha descritto come un inferno. “Io la cercavo da tempo – scrive alla madre del giovane – anzi da subito, appena morto Federico”. Ma non è stato facile arrivare a contattarla, racconta ancora Antonio,  che si rende disponibile a testimoniare, purché venga tutelata la sua incolumità. Perché non si sente al sicuro.

 

Il detenuto arriva al dunque: “Ho visto un episodio di violenza su suo figlio, e questa guardia che è l’ispettore non se ne era accorto che io stavo dietro l’inferriata dove arrivava il mangiare”. Ma non è tutto. La lettera continua tra riferimenti alla vita quotidiana e alle settimane precedenti la morte di Perna, avvenuta l’8 Novembre scorso. Prima di finire al padiglione Avellino, dove avrebbe trascorso le ultime settimane, Federico – si legge – sarebbe stato al padiglione Salerno con altri quattro detenuti in cella, “e uno di loro era di colore che faceva il piantone agli altri quattro (…) ma le assicuro che Federico era autonomo e non aveva bisogno del piantone lui personalmente, perché mangiava e si lavava da solo, comunque che non stava tanto bene ci posso pure credere, infatti parecchie volte è svenuto, a volte anche fintamente”. E poi si legge di 20-25 accessi all’infermeria. “Puntualmente lo riportavano in cella dicendo che non aveva niente – continua la lettera – e quando lui faceva casino che gli faceva male qualcosa, gli davano i medicinali per farlo addormentare e così stavano tranquilli, infatti Federico da quando stava là giù al transito, stava sempre imbottito di medicinali e a stento a volte si reggeva in piedi”.

 

Un racconto forte, con accuse pesanti, la cui veridicità andrà ovviamente verificata. Antonio incalza: “Io oltre che quella volta ho visto che lo hanno picchiato – si legge –  un’altra volta poi lo hanno portato nella cella zero, e di sicuro lo picchiarono, visto che Federico la mattina stava tutto pieno di ematomi per il corpo e per il viso, poi un’altra volta infatti era la metà di ottobre e non so per quale motivo lo portarono al padiglione Avellino, forse lo avranno picchiato di brutto e non potevano più portarlo al padiglione Salerno, infatti lo misero all’isolamento”. E’ assurdo, scrive Antonio, assurdo che sia finita così. A lui non sembra una morte naturale, così come è stata definita più volte.

 

Non ci sarebbe solo questo testimone: lo racconta la madre di Federico, Nobila Scafuro. “Ci hanno riferito – afferma –  che ci sono anche altre persone che hanno vissuto con mio figlio e vogliono dire ciò che hanno visto e sentito, alcuni non sono ormai più reclusi”.”In queste lettere mi sono state raccontate alcune cose e io sono sempre più arrabbiata, confusa – si sfoga – Innanzi tutto mio figlio sarebbe morto al reparto Avellino, e non al reparto Salerno. E poi, questo testimone avrebbe visto violenze su mio figlio. Questa persona ha visto che Federico non aveva il braccio bruciato né ematomi in volto fino alla metà di ottobre, lui è convinto tra le altre cose che la morte di mio figlio non abbia proprio nulla di naturale”. La signora Scafuro non riesce a capacitarsi: “A quale delle due verità devo credere? A quella che mi forniscono le istituzioni, oppure a quello che leggo nelle testimonianze?”

 

La vicenda è quanto mai controversa. Federico Perna era molto ammalato. Nonostante avesse epatite C, cirrosi epatica, leucopenia (carenza di difese immunitarie), un disturbo borderline di personalità e nonostante lamentasse problemi cardiaci, è stato trasferito di carcere in carcere fino a Poggioreale: tutte le istanze per riportarlo a casa sono state rigettate. Fino alla morte, avvenuta l’8 Novembre 2013: un attacco ischemico, afferma la perizia disposta dalla Procura di Napoli. E nessun segno di percosse. Ma i dubbi si fanno largo presto, su entrambi gli aspetti. Sull’aspetto della cura delle patologie e della compatibilità del ragazzo con il carcere. Ma anche sull’aspetto delle presunte percosse, che i legali Camillo Autieri e Fabrizio Cannizzo non escludono affatto. L’ombra la gettano le varie denunce di Perna nel tempo (dal carcere di Viterbo), i vestiti insanguinati, un braccio con una grossa ustione e una grande ecchimosi sul palmo della mano sinistra, oltre alle tante macchie sul corpo e sul viso.

 

 

Fonte:
http://www.fanpage.it/federico-perna-un-testimone-rivela-ho-visto-violenze-e-maltrattamenti-su-di-lui/

 

CARCERE DI VICENZA: 15 AGENTI PENITENZIARI INDAGATI PER ABUSI

Martedì 25 Marzo 2014 14:31

altQuindici agenti penitenziari -tra cui ispettori, sovrintendenti ed un sostituto commissario- accusati di aver picchiato e aver commesso diversi abusi d’autorità nei confronti di numerosi detenuti del carcere di Vicenza. Secondo alcune denunce inoltrate dai carcerati che hanno subito gli abusi, tra le tecniche utilizzate, vi è lo spegnimento del sistema di riscaldamento della cella, oltre alle botte e agli insulti di stampo razzista nei confronti di alcuni detenuti africani. L’inchiesta che ora si annuncia su alcuni quotidiani locali e pochissimi altri media mainstream, è stata avviata dalla procura berica, mentre gli agenti coinvolti verranno interrogati dal pm che coordina le indagini. Al centro dell’inchiesta gli episodi che i detenuti (a quanto pare 5) hanno avuto il coraggio di rendere pubblici, che risalgono al periodo di tempo tra l’estate del 2012 e l’inizio del 2013.

La notizia di oggi, arriva a poco più di un mese di distanza da un’altra verità uscita allo scoperto e che fa accapponare la pelle per la crudeltà degli episodi verificatisi nel carcere di Poggioreale a Napoli: tre aguzzini sadici che di notte si divertono a inveire a suon di percosse sui detenuti nella denominata “cella zero”, lì fuori da occhi indiscreti. Anche qui a far uscire il caso, sono state circa novanta denunce per maltrattamenti subiti in carcere, denunce che tendono sempre più a crescere e che ben danno l’idea di che tipo di luogo è, non nella sua eccezionalità, quell’isituzione totale pensata ad arte con l’idea di un luogo di punizione a 360 gradi. Se raramente episodi di questo tipo escono allo scoperto, guadagnandosi così un piccolo posto nascosto tra alcuni quotidiani, sempre più spesso essi rappresentano la prassi quotidiana di comportamenti riprodotti dai secondini all’interno delle carceri e non, come si vuol far credere, l’eccezionalità.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/varie/item/11122-carcere-di-vicenza15-agenti-penitenziari-indagati-per-abusi