Caso Adama: la periferia prende il centro della scena

Francia. Le realtà di quartiere della periferia parigina si connettono, la morte del ragazzo diventa un caso nazionale e poi internazionale arrivando a mobilitare le realtà del Black Lives Matter americano. Il tam tam sui social network aumenta e risponde colpo su colpo alle intimidazioni istituzionali verso la famiglia Traoré ed in particolare verso Youssuf e Bagui, fratelli di Adama, e verso Assa, la sorella che più di tutti è il volto mediatico di questa lotta.

Il caso Adama poteva restare una delle numerosissime morti impunite delle banlieue francesi.

Negli ultimi decenni, dicono alcune stime non ufficiali, circa una dozzina di persone all’anno sono morte nei commissariati della république, in stragrande maggioranza immigrati di terza o quarta generazione originari dell’ex impero coloniale francese.

Si tratta di tragedie «normali», conseguenza del regime d’eccezione permanente che vige nelle periferie.

Poteva restare un nome tra tanti, e invece giorno dopo giorno sempre più persone sanno chi è Adama Traoré.

Le realtà di quartiere della periferia parigina si connettono, la morte del ragazzo diventa un caso nazionale e poi internazionale arrivando a mobilitare le realtà del Black Lives Matter americano.
Il tam tam sui social network aumenta e risponde colpo su colpo alle intimidazioni istituzionali verso la famiglia Traoré ed in particolare verso Youssuf e Bagui, fratelli di Adama, e verso Assa, la sorella che più di tutti è il volto mediatico di questa lotta.

Con una voce ferma e decisa, Assa ripete costantemente la domanda di verità e giustizia. Non si rappresenta come una rivoluzionaria, ma esige che la storia della sua famiglia, del suo quartiere, di tutti i soggetti «razzializzati» delle periferie francesi, non sia la storia di cittadini di serie B.
Assa scoperchia su giornali e televisioni le contraddizioni della «patria dei diritti umani». Sfrutta lo stesso sistema mediatico da sempre complice del silenziamento e della marginalizzazione delle periferie, ma ne ribalta le logiche: replica punto su punto ai tentativi di criminalizzazione, racconta le difficoltà dei quartieri popolari e delle persone che ci vivono, chiede che sia fatta chiarezza.

Ed è forse attorno a questa domanda di verità e giustizia che si sta innescando nell’esagono una fondamentale alleanza: quella tra il centro delle metropoli e le periferie, tra la sinistra «storica» ed i soggetti periferici da sempre in lotta contro un sistema che li mette agli ultimi posti nella catena dello sfruttamento.

Dopo l’enorme movimento contro la riforma del lavoro che ha segnato la prima metà dell’anno, la Francia si avvia in una campagna elettorale all’insegna del conservatorismo, del razzismo e dell’islamofobia. La mobilitazione in campo potrebbe diventare anche una risposta a questa torsione, un punto di riconnessione per resistere alla progressiva deriva verso destra dell’asse politico.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/caso-adama-la-periferia-prende-il-centro-della-scena/

 

Leggi anche qui:

adama

http://www.osservatoriorepressione.info/parigi-sosteniamo-la-famiglia-adama-traore-ucciso-dalla-polizia/

Usa, Black lives matter. Che succede agli afroamericani?

Carnell Snell Jr, 18 anni, ucciso dalla polizia a Los Angeles. Nuova notte di proteste della comunità afroamericana. Una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia

di Antonello Zecca

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Ancora proteste negli Stati Uniti per l’uccisione di un altro afroamericano da parte della polizia la scorsa notte a Los Angeles. L’episodio è iniziato con l’inseguimento di un’auto che gli agenti ritenevano fosse stata rubata: il conducente non si è fermato e si è dato alla fuga. Ad un certo punto l’auto si è bloccata e un uomo ne è uscito fuggendo ed andandosi a nascondere sul retro di una casa. Lì è stato raggiunto dagli agenti che lo hanno ucciso. Pesante l’accusa di Black Lives Matter di Los Angeles: il 18enne Carnell Snell Jr è stato ucciso mentre teneva le mani in alto, ha denunciato con un tweet il movimento nato sui social media come hashtag dopo l’assoluzione del vigilante George Zimmerman, responsabile dell’uccisione di un altro ragazzo nero, Trayvon Martin.

Carnell Snell Jr, ricordiamocelo, questo nome. E poi Keith Lamont Scott, Ernest Satterwhite, Dontre Hamilton, Eric Garner, John Crawford III, Michael Brown, Levar Jones, Tamir Rice, Rumain Brisbon, Charly “Africa” Leundeu Keunang, Naeschylus Vinzant, Tony Robinson, Anthony Hill, Walter Scott.

È solo la punta dell’iceberg di una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia negli Stati Uniti, una mattanza che pare non avere fine, e anzi si intensifica ogni anno di più. Nel solo 2016 sono state uccise almeno 214 persone nere, seguendo la scia di un 2015 ancora più sanguinoso: 346 neri ammazzati. E ancora, il tasso di morti violente della popolazione nera per mano della polizia è più o meno costante dal 2013 (considerando solo gli ultimi tre anni), e tutte le statistiche mostrano dati inequivocabili: un nero ha tre volte la probabilità di essere ucciso dalla polizia che un bianco; il 30% delle vittime nere nel 2015 era disarmato rispetto al 19% delle vittime bianche; meno di un terzo dei neri assassinati dalla polizia nel 2016 era sospettato di un qualche tipo di crimine; nel 2014 in diciassette grandi città statunitensi la polizia ha ucciso cittadini neri ad un tasso superiore della percentuale generale di omicidi in quelle stesse città, e nel 97% dei casi nessun agente ha ricevuto alcun tipo di incriminazione.

Da questo schizzo pur disomogeneo emerge chiaramente la particolare “attenzione” di cui gode la popolazione nera (ma anche i bianchi poveri, come vedremo) presso tutti i dipartimenti di polizia del Paese, e che riflette una situazione di sostanziale subalternità politica, sociale ed economica strutturale degli afroamericani.

Mentre scriviamo, è il quinto giorno della rivolta di Charlotte, North Carolina, seguita all’omicidio di Scott, in cui centinaia e centinaia di manifestanti hanno invaso il centro città protestando contro la totale impunità della polizia. Una rivolta rabbiosa, che ha costretto il governatore dello Stato a decretare lo stato di emergenza nel tentativo di contenere la straripante indignazione per l’ennesimo omicidio di Stato. Nella seconda notte di scontri, un manifestante è stato colpito da un proiettile esploso dalla polizia, morendo poco dopo.  Al momento le manifestazioni proseguono e non è chiaro lo sviluppo che la situazione potrà prendere.

È tuttavia certo un fatto: il movimento Black Lives Matter (BLM), che qualcuno sperava potesse lentamente affievolirsi o arrendersi velocemente alla “ragionevolezza”, prosegue invece la sua marcia. Fondato da tre donne, Alicia Garza, Opal Tomezi e Patrisse Cullors, in seguito all’assassinio di Treyvor Martin nel 2012, il movimento è la prima risposta di massa della popolazione nera al razzismo e all’oppressione sistematica sofferti dagli afroamericani negli Stati Uniti dopo la fine dei grandi movimenti degli anni ’60, ’70 e gli inizi degli ’80.

Sebbene si ponga in ideale continuità con questi ultimi, BLM ha naturalmente caratteristiche peculiari al momento storico in cui è nato. A differenza dei suoi illustri predecessori, il contesto in cui si muove non può che essere profondamente influenzato da due fattori decisivi: la controrivoluzione neoliberista, di cui gli USA di Reagan furono capostipite insieme alla Gran Bretagna della Thatcher, e il consolidamento di un’ élite afroamericana assurta a ruoli di comando sia nella politica, che nella società e negli affari.

Questi due processi hanno segnato il passaggio da una fase di aperta discriminazione razziale e di segregazione, fondata prevalentemente su elementi naturalistici, ad una fase “post-razziale”, in cui l’inferiorità sociale degli afroamericani ha passato ad essere rappresentata ideologicamente con argomentazioni culturaliste e psicologistiche. Non che questi elementi fossero completamente assenti dalla prima fase ma sono assurti a motivazione dominante della discriminazione razziale in seguito all’emarginazione del razzismo tradizionale all’estrema periferia del discorso politico mainstream e all’affermazione ideologica del post-modernismo.

In maniera apparentemente paradossale, il razzismo di nuovo tipo è stato favorito dalla crescita del movimento per i diritti civili degli afroamericani che nel corso degli anni Sessanta e Settanta aveva consentito la crescita politica di leader neri che, principalmente nelle fila del Partito Democratico e grazie alle pressioni del movimento del tempo, cominciarono ad assurgere a cariche elettive a livello municipale e a ruoli di primo piano nella cosiddetta comunità degli affari.

Una volta consolidate queste acquisizioni, e in contemporanea con le controriforme liberiste all’opera sin dagli inizi degli anni Ottanta, cominciarono però ad essere visibili segnali di una tendenza che è ancora fortemente all’opera negli Stati Uniti: quanto più alle comunità afroamericane diventava necessario il rafforzamento dei servizi pubblici, la promozione dei diritti nei luoghi di lavoro, investimenti in scuola, cultura e formazione, tanto più le stesse amministrazioni locali governate dalla neonata élite nera si facevano custodi dello status quo e negavano nei fatti quegli stessi obiettivi per i quali i movimenti dei decenni precedenti avevano reso possibile la loro elezione, al fine di preservare la loro raggiunta posizione sociale.

È emblematico in tal senso il vergognoso comportamento di Barack Obama, che ha criticato in modo durissimo le rivolte e le proteste animate e sostenute dal BLM. Il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti ha infatti a più riprese stigmatizzato il movimento e la sua “violenza”, ammonendo i manifestanti a “smetterla di urlare” e ricordando che gli Stati Uniti sono un “Paese di leggi” e che le soluzioni ai problemi posti dal movimento avrebbero dovuto essere affidate ai “rappresentati legittimamente eletti”.

Tutto questo è stato al tempo causa ed effetto della disgregazione politica e organizzativa di quei movimenti che avevano animato la scena del Paese nei vent’anni precedenti e, in contemporanea con lo spostamento a destra sempre più marcato del Partito Democratico, si è venuta via via a cristallizzare una situazione per cui gli afroamericani, orfani di un riferimento politico/organizzativo autonomo di movimento, si sono affidati costantemente a quello stesso partito che nei fatti ha contribuito in maniera determinante a perpetuare la loro condizione di subalternità.

Ci sono stati, certo, episodi di rivolta di sicuro rilievo, come la “battaglia di Los Angeles” nel 1992, ma sono state esplosioni di rabbia, più che giustificata, che però non sono riuscite a tradursi nella strutturazione di un movimento duraturo. Con l’elezione di Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti, questa situazione era destinata a peggiorare, in concomitanza con l’approfondimento dell’offensiva neoliberista contro le condizioni del mondo del lavoro, i diritti sindacali e democratici, i servizi pubblici, la scuola e l’università pubbliche.

Questo è un aspetto decisivo, e non accessorio, della subalternità degli afroamericani nello Stato americano, e contribuisce a darne una motivazione non superficiale e impressionistica: in effetti, la condizioni della popolazione nera negli Stati Uniti non è comprensibile se non contemplando per intero la ineludibile dimensione di classe, di cui il razzismo (anche quello “post-moderno”) è in ultima analisi funzione.

Anche qui si comprende meglio il ruolo decisivo della polizia e, in generale, degli apparati armati dello Stato: poiché il loro compito fondamentale è proteggere e conservare l’attuale assetto della società dalle minacce esterne ed interne, è ovvia conseguenza che i quartieri poveri delle grandi città statunitensi, sia bianchi che neri, siano presi particolarmente di mira e soggetti ad un controllo asfissiante e a tratti parossistico. È questa una delle ragioni per cui la polizia è così aggressivamente restia a qualsiasi cambiamento o riforma che possa accrescerne la responsabilità nei confronti della pubblica opinione (accountability). Questi cambiamenti, se realmente applicati, ridurrebbero la capacità delle forze dell’ordine (capitalistico) di svolgere il proprio compito in modo efficiente ed efficace. È per questo che, al di là di parole di circostanza, i poteri costituiti non fanno nulla di concreto per cambiare la situazione.

Tuttavia tanto forte è la dimensione ideologica delle forme del razzismo contemporaneo, che la protesta contro l’oppressione quotidiana, anche nei confronti dell’élite nera, è spesso formulata dagli stessi afroamericani nell’accusa di agire “da bianchi”. La “bianchezza” (whiteness), contrapposta alla “negritudine” (blackness) è appunto espressione sul piano politico della persistenza ideologica del razzismo culturalista, che è sovente interiorizzato dagli afroamericani e a cui viene da essi data risposta rovesciandone il senso, ma in ultima analisi rafforzandone la presa, e puntellando l’ideologia dell’American Dream (peraltro sempre più in affanno a causa dei pesanti colpi ricevuti dalla crisi). Un effetto curioso di questo fenomeno è che nel discorso ufficiale i neri sono sovrarappresentati nella popolazione povera, sebbene in numeri assoluti la popolazione povera bianca sia di gran lunga superiore nel Paese. A sua volta ciò indebolisce la presa di coscienza che la propria oppressione non sia superabile se non in alleanza con il resto della classe lavoratrice bianca, povera o no, contro le élite bianche e nere, per cambiare radicalmente l’economia, la politica, la società intera. In altre parole, per rompere con il capitalismo.

L’unica speranza risiede nel rafforzamento del movimento, della sua capacità di cercare e trovare alleanze politiche e sociali, e, in ultima analisi, di disporre di strumenti politici indipendenti per affermare le proprie istanze di liberazione, che coincidono con quelle di tutti/e gli/le oppressi/e e gli/le sfruttati/e.

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/10/02/usa-black-lives-matter-che-succede-agli-afroamericani/

BLACK LIVES UNITED A RIO

Reportage. Davanti alla celebre chiesa della Candelaria nel giorno in cui si ricorda la strage di senza tetto avvenuta qui nel 1983. Nel paese che detiene il triste record di innocenti morti ammazzati dalla polizia, attivisti afroamericani e movimenti delle favelas hanno unito le loro voci per dire basta alla violenza razzista delle forze dell’ordine. Negli Usa come in Brasile, «è genocidio dei neri». Il 6 e il 7 agosto si replica, sfidando le Olimpiadi

La protesta che a Rio ha unito le associazioni che lottano nelle favelas contro le uccisioni della polizia e il movimento Usa «Black Lives Matter»

23 luglio, Chiesa de La Candelaria, Rio da Janeiro. Si è scelta non a caso questa data e questo luogo per sancire un nuovo percorso tra diverse associazioni brasiliane contro le uccisioni della polizia nelle favelas (Maes de Maio, Candelaria Nunca Mais e Brazil Police Watch tra le altre) e il movimento statunitense Black Lives Matter. Gli attivisti statunitensi sono da qualche giorno in città e ci resteranno fino a inizio dei Giochi quando, insieme ai brasiliani, il 6 e il 7 agosto, saranno per le strade di Rio contro quello che chiamano apertamente il genocidio dei neri. Sono previsti una serie di appuntamenti dal giorno successivo alla cerimonia d’apertura.

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foto Ivan Grozny Compasso

Una lotta unica

Dal nord al sud dell’America, un’unica voce. È significativo farlo in Brasile, durante i Giochi, nel Paese che detiene il triste record di morti ammazzati durante operazioni di polizia. Super militarizzato sempre, ancora di più in questi giorni. «Negli Stati uniti non crediate che sia così diverso. Come azione di monitoraggio abbiamo riscontrato, quest’anno, seicento afro americani colpiti da proiettili sparati dalla polizia», ricorda Daunasia Yancey, voce riconosciuta di Black Lives Matter. «Quello che sta accadendo negli Stati uniti e in Brasile è figlio di una politica razzista molto chiara», rincara la dose.

Elizabet Martin è una donna del Massachusetts, ha perso suo figlio che in Brasile c’era venuto in vacanza, anche lui ucciso dalla polizia di qui. Lei ha fondato il Brazil Police Watch: «Sono molto preoccupata per quello che può succedere con i Giochi. Ci sarà ancora più esercito, controllo del territorio, violenza. Se, per preparare e garantire una Olimpiade bisogna uccidere i propri cittadini, bisogna gridarlo al mondo che c’è qualcosa di molto sbagliato».

Nella Chiesa de La Candelaria, risalente al 1710, opera neo classica, grande orgoglio non solo della cultura carioca ma brasiliana, il 23 luglio 1983 più di quaranta senza dimora si trovavano proprio qui. Quattro agenti aprirono il fuoco contro di loro e otto morirono trucidati. Da allora casi come questo sono accaduti altre volte, con la differenza che si sono scelti luoghi più periferici vista l’eco addirittura internazionale che ebbe la vicenda.

L’impunità è garantita poiché di fronte all’insistenza di associazioni dei familiari delle vittime e altre organizzazioni come Amnesty International Brasil, le autorità di polizia replicano di essere stati costretti a rispondere al fuoco per legittima difesa. «Dal 2012, dal 5 al 20% dei casi sono stati indagati. L’impunità è garantita, in pratica. Il 77% dei morti, parliamo dunque di cifre molto significative, 5600 persone solo nel 2012, anno della Coppa del Mondo, erano neri abitanti delle favelas. Vere e proprie esecuzioni». E sono state davvero tante.

Quest’anomala messa, perché di questo si dovrebbe trattare, è celebrata da padre Renato Chiera, fondatore della Casa do Menor, che si scaglia contro il razzismo usato come incudine contro i più poveri. Accusa i politici, non risparmiando nessuno. Fa i conti dei Giochi scherzando amaramente sul fatto che il municipio è fallito per organizzarli e non ha pensato all’istruzione, ai servizi, a ciò di cui la gente ha maggiormente bisogno.

Centoundici colpi

Ogni tanto l’omelia si interrompe per ricordare non solo i caduti de La Candelaria ma anche quelli di molti altri episodi, non solo brasiliani. Quelli statunitensi, ad esempio. Tra gli altri Alton Sterling ucciso a Baton Rouge in Louisiana, Philando Castiglia nel Minnesota e Michael Brown a Ferguson. Si è ricordato poi il caso della favela di Costa Barros, qui a Rio de Janeiro, quando cinque ragazzi morirono sotto centoundici colpi sparati da poliziotti militari: Wesley Castro di 20 anni, Cleiton Correa del Souza di 18, Wilton Estevs Jr. di 20, Carlo Eduardo da Silva Souza e Roberto Souza Penha di soli sedici anni. Tornavano da un compleanno quando l’auto su cui viaggiavano è stata investita da una pioggia di colpi. Centoundici appunto. Tra i banchi anche le madri di questi ragazzi, alcune davvero giovanissime. Si fanno coraggio l’una con l’altra. Tra le organizzatrici c’è l’esperta Debora Silva Maria, fondatrice del Movimento Maes de Maio. Molto disponibile, dispensa una parola per tutti. Ha tempo pure di rilasciare qualche intervista. Ci sono televisioni tedesche e francesi oltre che brasiliane e l’inviato del New York Times. Lei risponde anche per quelle che hanno meno voglia di esporsi. Anche Debora ha perso un figlio di 29 anni, a São Paulo. Rimase celebre una sua frase pronunciata direttamente alla presidente Dilma Roussef, qualche mese dopo la sua prima elezione: «Non possiamo ancora festeggiare la fine della dittatura, perché vi siete dimenticati di avvertire le forze armate».

Anche di Patricia Olivera, la sorella di uno degli scampati alla tragedia del 23 luglio 1983, si ricordano duri attacchi verso chi fa di tutto per insabbiare cosa è accaduto da allora e cosa è successo dopo. Da anni lotta per vedere incriminati i veri mandanti, sa che i quattro sono solo degli esecutori, visto che quello non è rimasto affatto un caso isolato. Solo il più visibile.

C’è anche Fatinha, una delle storiche fondatrici del Movimento Candelaria Nunca Mais, fondato una settimana dopo il massacro. Con l’arcivescovo di allora, Dom Eugenio Sales, intimò di non smettere mai di ricordare «fino a che saranno uccisi bambini nelle strade di Rio». Dopo 27 anni non solo ci sono i brasiliani ma pure statunitensi uniti nella stessa convinzione. Fatinha è molto provata, non solo dal tempo, che evidentemente non ha cancellato quella notte. Ci sono molti ragazzini attorno a lei, indossano delle magliette azzurrine e fanno parte di uno dei progetti che queste donne hanno realizzato nella favelas.

«È un genocidio»

«È in atto, nelle Americhe, in diverse forme, un vero e proprio genocidio. Non è una questione che riguarda solo i neri – lo dice con impeto il reverendo e attivista John Selders – è una questione che riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso. I poveri e la comunità nera sono le vittime, americane, ma negli altri continenti siamo sicuri che non stia avvenendo la stessa cosa contro altri popoli che si vogliono esclusi?». Un lungo applauso chiude il suo intervento. Un’attivista di Black Lives Matter, la cugina di un’altra vittima, Waltrina Middleton, fa partire un coro gospel. Lo seguono tutti e uno dopo l’altro alzano il pugno chiuso. Madri, fratelli, preti, brasiliani, statunitensi. Tutti. A pugno chiuso.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/black-lives-united-a-rio/

ATTIVISTI DEL MOVIMENTO BLACK LIVES MATTER IN BRASILE

NEW YORK TIMES:
ATTIVISTI DEL MOVIMENTO BLACK LIVES MATTER IN BRASILE
articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio 2016*

I giochi olimpici de Janeiro Rio potrebbero rivelarsi mortali per i neri poveri della città. A lanciare l’allarme, giovedì (20.07), una delegazione di attivisti americani del movimento Black Lives Matter e gruppi di attivisti brasiliani.

Gli attivisti americani si trovano a Rio per una visita di quattro giorni volta ad evidenziare i rischi che il gigantesco apparato di sicurezza olimpica costituisce, in un paese in cui un rapporto delle Nazioni Unite ha indicato gli agenti delle forze dell’ordine come responsabili di una “parte significativa” delle quasi 60.000 morti violente all’anno.

Durante i giochi, ch si svolgeranno tra il 5 ed il 21 agosto, circa 85.000 tra soldati e poliziotti saranno di pattuglia nel tentativo di rendere sicura questa città notoriamente pericolosa per i 10.000 atleti e per gli spettatori stranieri, che si calcola saranno tra i 350.000 ed i 500.000. Si tratta di più del doppio del contingente di sicurezza ai Giochi Olimpici di Londra del 2012.

Ma mentre il gigantesco apparato di sicurezza può aiutare a proteggere i visitatori stranieri da scippi e rapine a mano armata, furti d’auto e sparatorie dei narcotrafficanti che fanno regolarmente parte della vita di Rio, gli attivisti degli Stati Uniti e le loro controparti locali hanno avvertito che la maggiore presenza di forze dell’ordine potrebbe causare un picco di omicidi da parte della polizia.

“Si parla dei costi per la costruzione delle strutture olimpiche, dell’acqua sporca, dello Zika e della criminalità, ma io voglio che il mondo conosca l’orrore della polizia che uccide i cittadini come parte della preparazione delle Olimpiadi”, ha detto Elizabeth Martin, una donna del Massachusetts il cui nipote Joseph è stato ucciso nel 2007 da un agente di polizia fuori servizio, mentre festeggiava il suo 30° compleanno a Rio.

Il Brazil Police Watch (Osservatorio sulla Polizia Brasiliana), gruppo fondato dalla Martin dopo la morte di Joseph, ha organizzato il viaggio.

I sei attivisti americani hanno iniziato la loro visita a Rio con un incontro carico di emozioni con le famiglie delle vittime della violenza della polizia locale, leader di comunità e attivisti anti-razzisti. I due gruppi hanno condiviso le loro storie personali e discusso sulle analogie tra la situazione dei neri in Brasile e negli Stati Uniti, denunciando il profilo razziale degli omicidi della polizia e la criminalizzazione delle comunità povere.

“È importante trovarsi e stare insieme, perché sappiamo che questa violenza è collegata”, ha detto Daunasia Yancey, attivista nera dei Black Lives Matter che arriva da Boston. “La violenza contro i neri è globale e la nostra resistenza è globale.”

Secondo la Yancey, sia negli Stati Uniti che in Brasile, le uccisioni di giovani neri da parte della polizia sono un problema sistemico. “Non si tratta solo di singoli casi di cattivi poliziotti. Si tratta del sistema di polizia, questo è il modo in cui la polizia lavora”, ha detto.

Monica Cunha, di Rio de Janeiro, il cui figlio Rafael è stato ucciso dalla polizia nel 2006, annuisce e dice: “Essere neri oggi in Brasile vuol dire essere marchiati per morire, spesso per mano della polizia”.

L’esatta misura della quantità degli omicidi commessi della polizia in Brasile rimane oscura e attivisti per i diritti umani e organizzazioni internazionali accusano da tempo la polizia della nazione sudamericana della pratica abituale di esecuzioni sommarie, normalmente giustificate come uccisioni a seguito di presunte “resistenze all’arresto” (ndt. i ben noti “autos de resistencia” ossia “atti di resistenza” detti anche “atti di resistenza seguiti da morte”. Si tratta di un sistema legale ereditato dalla dittatura militare ed ancor oggi in vigore, che, non prevedendo alcuna indagine nel caso in cui si certifichi che una morte è avvenuta in un confronto a fuoco, copre di fatto gli omicidi commessi dai poliziotti garantendo loro l’impunità)

Secondo le stime di Amnesty International, la polizia di Rio è responsabile di uno ogni cinque omicidi occorsi nel 2015 e che il numero degli omicidi per mano della polizia è aumentato nello stato di Rio di circa il 40 per cento durante la Coppa del di calcio del 2014.

Gli attivisti del Black Lives Matter hanno detto che più di 600 persone sono state uccise dalla polizia negli Stati Uniti finora nel corso di quest’anno.

Durante l’incontro, sono state ricordati alcuni dei più eclatanti omicidi commessi dalla polizia sia negli Stati Uniti che in Brasile: Alton Sterling a Baton Rouge, in Louisiana; Philando Castiglia nel Minnesota; Michael Brown a Ferguson, Missouri; il massacro nel 1993 di otto bambini di strada al di fuori della chiesa della Candelaria di Rio; l’uccisione nel dicembre dello scorso anno di cinque giovani nella periferia di Rio, con la polizia che aprì il fuoco contro di loro mentre si trovavano dentro la loro auto (ndt. il caso del quartiere Costa Barros, dove cinque ragazzi tra i 16 ed i 20 anni che tornavano a casa dopo aver festeggiato in un parco pubblico il primo stipendio di uno di loro, vennero massacrati senza alcun motivo da 111 colpi di fucile sparati da poliziotti militari. Per approfondire: http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews…).

John Selders, un pastore di Hartford, Connecticut, ha detto che i punti in comune tra la situazione dei neri in Brasile e negli Stati Uniti creano un legame che trascende barriere linguistiche e culturali.

“Voi non siete soli qui in Brasile,” ha detto Selders, mentre l’interprete faceva eco alle sue parole in portoghese. “Noi siamo voi. Voi siete noi. Noi siamo un solo popolo.”

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*fonte: http://www.nytimes.com/…/ap-lt-brazil-black-lives-matter.ht…

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foto di Il Resto del Carlinho Utopia.