In memoriam, Paolo Pozzi

Il 7 gennaio è scomparso improvvisamente Paolo Pozzi, comunista. Il ricordo di un compagno della redazione di Rosso, attraverso le vicende della comune “epoca dei fatti”. Leggi anche In ricordo di Paolo Pozzi.

Non so quanto possa inoltrarmi nella morte di Paolo.

I nostri sempre più rari incontri, non più di tre negli ultimi dieci anni, non mi permettono di parlare di lui al presente: non so quanto il suo aspetto potesse essere cambiato, non so che libri avesse appena letto, cosa gli piacesse mangiare e che vini amasse bere, se guardasse la tv, che cosa pensasse di Renzi o di Grillo. Certo so di Laura, che conosco, e di Irene, che però ho visto solo piccolissima. So di ripetuti lunghi viaggi verso mete sconosciute, mi viene in mente Samarcanda; ho letto naturalmente Insurrezione e ho comprato la nuova edizione dell’intervista del ‘79 a Toni sull’operaismo, sempre molto attuale; abbiamo condiviso almeno una postfazione per Sergino e DeriveApprodi. Non ci frequentavamo, non ci sentivamo più. Non ho, per questo mio distacco da lui, alcuna recriminazione, alcun particolare rincrescimento. Sua scelta e dunque mia scelta.

Ma è proprio questa “sospensione” degli affetti tra di noi, degli automatismi emotivi “di tutti i giorni”, che mi fa sentire e credere, oggi, che il nostro legame, sia sempre rimasto forte, fortissimo: al suo apice, al vertice della tensione. Paolo è di Rosso, io sono di Rosso. Nelle nostre biografie, e dunque nelle nostre vite, Rosso si prende dai primi anni ’70 ai primi anni ’90. Diciotto anni, più o meno. Dalla nascita dell’AutOp alla Cassazione. Ed è questo legame credo, che qui mi spinge a parlare, a dare conto se non di tutta la sua vita, almeno di quegli anni, di quella comune “epoca dei fatti”. Non so se questo possa essere un vero, giusto necrologio per una persona che scompare. So, però, che è un sincero elogio per l’amico, il compagno che non c’è più.

Tempo, comincio qui la storia di Lenin…

Più seriamente, e più da vicino: Paolo nasce a Fano, dove rimane sino alla maturità. Studente modello, anche la media del 10, Pagella d’Oro del Corriere della Sera. Va a Trento per Sociologia. Credo che tutti ricordino il ruolo dell’ISSS, l’Istituto Superiore di Scienze Sociali, nella nascita e nella crescita del movimento degli anni ’70. Da laboratorio dell’ingegneria sociale neocapitalista che doveva essere, Sociologia si trasforma in un centro di elaborazione culturale e politica di piena avanguardia e poi di totale “rottura”: un passaggio critico di valore epocale e di larghissima portata, ben al di là della vulgata che si limita a descrivere questa Trento come il “nido d’infanzia” delle Brigate Rosse.

È a Trento che Paolo vive brillantemente tutti i capitoli del suo “romanzo di formazione”, nel quale agli studi canonici si affiancano sempre di più, sino a mutarne completamente il segno, momenti di ricerca e di critica “alternativa” sempre più spinta e radicale, nuovi linguaggi interpretativi, nuove ipotesi di progetto e di lotta. È quasi obbligatorio, dunque, che a Trento Paolo sia nella fondazione del Gramsci. Il Gramsci che si prepara a occupare un sia pur breve ma importantissimo ruolo negli orizzonti di attesa di quegli anni: quello di voler dare corpo politico non solo all’antagonismo di classe, ma anche, in uno spettro sempre più ampio, a tutti i temi della liberazione della persona e dell’appagamento dei bisogni e dei desideri di ogni individuo, uomo o donna.

Nel 1972 Paolo si laurea a pieni voti e viene a Milano. Una scelta, un’opzione personale e politica anch’essa quasi obbligata e conseguente. Formidabili quegli anni, ha declamato qualcuno. Lo sono stati: di più. Milano è diventata sempre più rapidamente, la città ideale della sovversione e di ogni tentativo “rivoluzionario”; accoglie in quegli anni centinaia di nuovi militanti, dando a essi territorio, spazio e luoghi per l’intervento, dal tessuto delle piccole officine e dalla cintura operaia delle grandi fabbriche-stalingrado sino alle sedi universitarie del centro. In Via Disciplini, dove sta il Gramsci (nei locali, Paolo lo ricordava sempre, che fino al 1958 erano stati l’atrio della più famosa casa di prostituzione cittadina) comincia a occuparsi del nuovo giornale “dentro il movimento” che si chiama con una felicissima tautologia anche visiva “Rosso”. Tenta anche, come potenziale insegnante, un qualche approccio con il mondo della scuola ma desiste subito. E “professionalizza” il suo impegno con il giornale. Della prima serie di Rosso escono una decina di numeri. Bella rivista. Ci scrivono compagni del calibro di Arrighi e di Madera.

C’est ne qu’un debut – il salto in avanti, lo dico credendoci ancora, è la crisi e lo scioglimento del Gramsci, l’incontro con gli ex PO del “gruppo Negri”, la nascita dei Collettivi Politici Operai, che subito tutti chiamano Rosso. Subito nel cuore del nuovo movimento, subito nel cuore di Milano. Rosso è immediato programma, fortissima urgenza di progetto: la militanza diventa subito appartenenza, impegno quotidiano, obbligo di tempi e di luoghi. Ma anche, oltre ogni formalismo e ogni ideologismo, nuove, più forti relazioni emotive e affettive tra i compagni, nuove forme sempre più libere di vita e di condivisione, spesso anche radicali ed estreme. Paolo è anche l’Esterno nel collettivo Siemens, ma il giornale lo assorbe sempre di più e gli offre sempre di più una quasi perfetta fusione di intenti politici e di lavoro culturale. È Paolo che dà corpo concreto a ogni numero, coordina la raccolta degli articoli, prepara i menabò, fa i titoli, impagina, segue la stampa in tipografia, organizza la distribuzione. Con Paolo, cresce sempre di più, numero per numero, la forza comunicativa di Rosso: controcultura, proletariato giovanile, femminismo sempre più forte e dirompente, movimenti di liberazione e di autovalorizzazione come quello omosessuale.

Scrive articoli che lasciano il segno: il suo pezzo più carico è del ‘75, si intitola “A Lenin non piaceva Frank Zappa”. Paolo descrive la tristezza del “militante perfetto [che] vive dei cascami della cultura riformista” eredità della Terza Internazionale, e a questo “comunista modello” intima che “… a noi piacciono i film western, quelli della ‘crisi’, il teatro-provocazione, il rock, i fumetti più illogici possibili, i libri senza martiri ed eroi, la riscoperta del proprio corpo […] e il comunismo lo pensiamo come una cosa molto lussuosa, dove nessuno starà in piedi su una zolla di terra a sudare piscia e sangue”.

“Il comunismo è giovane e nuovo”.

Certo è che Rosso, in ogni caso, è davvero nel cuore del nuovo movimento, si pone in maniera forte e autorevole (“Illegalità di massa”) al centro dell’Autonomia. Rosso è la Face di Fizzonasco, l’Esselunga di Quarto Oggiaro e di decine di altri negozi e supermercati, l’Assolombarda, la Stazione Centrale, la Face di Viale Certosa, la Siemens, l’Alfa; con Rosso partono le campagne contro i primi centri del lavoro nero, contro lo spaccio nelle “piazzette”, contro i presidi della repressione nei quartieri; nascono le reti sempre più larghe dell’AutOp, collettivi operai e proletari, circoli giovanili, gruppi di quartiere…

… Rosso della campagna contro il compromesso storico, Rosso contro ogni forma di riformismo, contro le illusioni del “lungo cammino attraverso le istituzioni”, contro ogni formalismo della politica e del suo ceto, anche quello di più recente vocazione…

Sembra una stagione che non tramonterà. Almeno nel nostro pianeta, nel nostro universo. Lasciamo ad altre pagine, non è questo il luogo, il racconto della fine, ingiusta e maliconica, soprattutto in un’altra galassia, dell’Autonomia e di Rosso. L’ultimo numero del giornale esce nella prima estate del ’78, la stagione sconvolta del “dopo Moro”.

Ci sono anch’io in tutto questo. Conosco Paolo praticamente agli inizi, perché vengo dal “gruppo Negri” e sono l’esterno della Face. Non posso dire di frequentarlo molto, se non nei momenti d’obbligo della nostra contigua militanza, anche se alcuni aspetti del suo carattere e della sua personalità non mi sfuggono: cultura a largo spettro, mai troppo ostentata, anche se al servizio di una dialettica spesso pungente però, e comunque mai ferma e in continuo movimento. Un carattere chiuso e mai condiscendente, che conserva tracce di timidezze e ritrosie, ma che all’occorrenza sa farsi sarcastico e vagamente aggressivo. Proverbiali anche certe sue esplosioni d’ira: non seconde anche a quelle di Francone. È proprio grazie a Francone, che con Paolo ha contatto continuo, e con me un rapporto molto stretto, che mi capita ogni tanto di incontrarlo a cena, in privato. Capita qualche volta anche lui, in ogni caso, al Torricelli o da Zia Carlotta. Inutile dire che ho comunque molta stima e considerazione per lui. E poi, siamo compagni, e compagni di Rosso, e questo è molto.

Dobbiamo cominciare a vederci spesso dopo il 7 aprile del ’79. Impegnati come possiamo, inutilmente, nella campagna contro le mostruosità del teorema Calogero e per la liberazione di Toni e degli altri compagni. Viene spesso a Roma, e andiamo a incontrare giornalisti, avvocati, qualche raro esponente del ceto politico e delle istituzioni. È con me la sera del 20 dicembre, io sarò arrestato all’alba del giorno dopo. È comunque anche lui ricercato: lo prendono nel marzo dell’80, e lo spediscono a Fossombrone. Lo rivedo a Rebibbia, quando dopo un po’ di mesi riusciamo a farlo uscire per il processo dal circuito dei camosci. Il nostro sodalizio, meglio: quello mio, di Paolo e Francone, è sempre più stretto. Il 7 Aprile dell’Aula Bunker pesa come un macigno, un anno e mezzo durissimo e combattutissimo, noi tre, stessa linea processuale, stessi avvocati, ma soprattutto stessa catena, stesso blindato, spesso anche la stessa panca nella gabbia. E come se ciò già non fosse “vera galera”, i continui e sempre più roboanti mandati di cattura che arrivano a valanga da altre città, da altre inchieste e da altri giudici. Sempre noi, Tommei, Pozzi e Funaro…

Paolo, comunque, continua sempre a essere se stesso: lucido, sempre fortemente critico, poco condiscendente ma sempre determinato e coraggioso, capace in ogni momento di offrire nel dialogo e nella discussione comune, che spesso tende a fuggire verso l’astratto e l’irreale, una sponda di concretezza e di intelligenza indispensabili.

Anni: poi finalmente la libertà. Per Paolo anche quella piena del nuovo futuro con Laura, e la loro figlia Irene, il lavoro, una certa fama di convincente narratore. Ma qui, come prima dicevo, deve terminare il mio racconto, da qui, come ho detto, oltre non so andare nella vita e nella morte di Paolo… del Pozzi, come lo chiamavamo con vezzo milanese.

Ma qualcosa, ancora, rimane da dirci. Con la tua fine tu mi hai chiamato, non poteva essere diverso, in quel tempo che abbiamo condiviso: scopro di trovarmi di colpo in un “non passato” che con la sua forza unisce la memoria e i ricordi al presente e li rende il nostro “qui e ora”. E io rispondo a questa tua inevitabile, necessaria chiamata. Della tua morte, Paolo, della tua fine, io mi sento, sono in qualche modo partecipe. Il dolore di Laura e di Irene mi arriva da vicino, nella “scena” del loro lutto sono silenziosa comparsa, non separato spettatore. Ed è in nome di questa mia presenza nel tuo “atto tragico” che ti rivolgo il mio chaire, il mio ave atque vale.

In memoriam Paolo Pozzi, gennaio 2016.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/in-memoriam-paolo-pozzi

 

Valerio vive, un’idea non muore! 3000 in corteo a Roma

 

di redazione

Tremila persone hanno attraversato le strade del III municipio a Roma a 35 anni dalla morte di Valerio Verbano, una manifestazione riempita dalle lotte della città, una tappa importante verso la mobilitazione del prossimo 28 febbraio #MaiConSalvini.

Un grande corteo ha attraversato oggi le vie dei quartieri di Tufello e Monte Sacro dimostando come ‘Valerio vive, la rivolta continua’, non sia solo uno slogan ma una realtà vissuta da migliaia di persone. La rivolta continua tutti i giorni, contro chi vuole impoverirci e renderci sempre più vulnerabili e ricattabili, contro chi specula sui nostri territori, contro chi semina e soffia sul fuoco della guerra tra poveri nelle periferie, tra poveri e migranti; contro chi ci bombarda attraverso i mass media di messaggi razzisti e xenofobi, contro chi ci vuole far credere che nella diversità si deve necessariamente celare la pericolosità.

Sono passati 35 anni, e oggi come ieri, rispondiamo a tutto questo portando avanti e creando dal basso una risposta forte contro tutto questo. Costruiamo e spargiamo nella città laboratori di welfare, laboratori di formazione, risposte concrete alla crisi e alla precarietà. Protagonisti della manifestazione prima di tutte le strutture sociali e i laboratori di cittadinanza e diritti del territorio come la scuola popolare dedicata a Carla Verbano, la scuola d’italiano per migranti, il Lab! Puzzle e il Csa Astra, la Palestra popolare Valerio Verbano, il Comitato case popolari del III municipio, il Casale Alba 2 e i collettivi studenteschi, comitati e spazi sociali di tutta la città.

Il corteo di oggi si è inserito nella campagna di mobilitazione contro la presenza il 28 febbraio a Roma della Lega di Matteo Salvini i nuovi fascisti vestiti di verde, che verranno a Roma con treni e pullman speciali, per fare campagna elettorale sulla pelle dei soggetti più vulnerabili e ricattabili di questa società. Quei soggetti quotiniamente strumentlizzati, un giorno pericolosi invasori, un giorno terroristi fino a diventare coloro che rubano il lavoro agli italiani. Ma non viene mai detto che sono prorpio loro che pagano il prezzo più alto, perchè costretti ad accettari lavori a salari bassissimo, e per questo concorenziali, per poter stare in Italia.Condivideremo una piazza plurale e radicale per dire che la Roma meticcia rifiuta la propagana della Lega e dei suoi amici di Casa Pound, che accorreranno da tutta Italia per battere le mani sotto il palco del Carroccio mendicando poltrone e coperture.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/valerio-vive-unidea-non-muore-3000-in-corteo-a-roma

 

 

Leggi anche qui:

http://popoffquotidiano.it/2015/02/20/valerio-vive-sabato-corteo-a-roma/

 

E qui:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/544-22-febbraio-1980-i-nar-uccidono-valerio-verbano

Maurizio Biscaro

Dal blog http://baruda.net/ di Valentina Perniciaro:
27 ottobre 2011
Nasce a Milano il 4 maggio 1957
-Frequenta il liceo classico a Milano
-Si diploma all’Istituto linguistico internazionale come traduttore-interpreste nel 1981
-Lavora come precario
-Collabora con la rivista Controinformazione ed è attivo nel consiglio di zona 13 per D.P.
-milita nel movimento dell’autonomia
-milita nelle Brigate Rosse-Walter Alasia
– muore cadendo dal sesto piano, a Cinisello Balsamo, il 13 novembre 1982, quando i carabinieri vanno nella casa in cui vive per arrestarlo.
Avrebbe dovuto essere ucciso e tirato fuori dal mio grembo a pezzi, perché all’ultimo momento il ginecologo si è reso conto che ho l’osso iliaco storto e il bambino non riusciva a venire fuori. Mi hanno tagliata, mi hanno messo metà forcipe da sveglia perché dovevano lasciarmi le forze per le spinte, visto che non si poteva più procedere al taglio cesareo.
E’ nato, e solo la Madonna sa come. Era il 4 maggio 1957 […]
Il ’68 lui lo vive da ragazzo romantico, ammirava i ragazzi del Movimento Studentesco e spesso li seguiva nelle manifestazioni. Per lui erano degli eroi, ma in mezzo alla calca un giorno si piglia una manganellata da un poliziotto. Non doveva essere stato un gran colpo, non m’ha chiesto di fargli impacchi e in più si sentiva importante: aveva partecipato alla guerriglia. […]
Siamo nei primi anni ’70. Il liceo classico Berchet era uno dei più quotati di Milano e nella classe del mio Maurizio c’erano i rampolli delle migliori famiglie della città.
Ogni tanto marinava la scuola perché voleva stare con i facchini, accanto agli uomini di fatica che lavoravano all’ortomercato o trasportava cassette insieme a loro.
Un giorno, dopo tanta fatica il capoccia gli mette in mano la metà della cifra pattuita. Maurizio si ribella ed incita gli altri alla ribellione dicendo che quello era sfruttamento dei padroni verso i lavoratori. Una coltellata gli ha fatto un sette sulla camicia, fortunatamente senza ferirlo. Da quel momento non c’è più stata pace […]
Un pomeriggio, era il periodo della morte di Allende, mio figlio mette le scarpe da tennis e se ne va in fretta prima che gli possa chiedere dove va. Ricordo che il tempo era brutto, pioveva e mi seccava che si andasse a prendere un malanno. Torna per la cena e mi dice che deve uscire di nuovo, di non aspettarlo perché rientrerà tardi. A notte fonda rientra, bagnato come un pulcino.
– Dove sei stato? Che hai fatto?
– Mamma io non ho fatto nulla, però ho assistito ad una cosa grossa, domani lo saprai dalla tv.
In quella notte era avvenuto l’incendio della Face Standard, per protesta contro gli americani che avevano favorito la fine di Allende. Maurizio si rese conto che i compagni non andavano bene, parlavano di rapine per finanziare il movimento e il mio ragazzo non voleva passare da ladro.
Insomma il comportamento degli autonomi lo aveva deluso. […] Io mi ricordo che ogni giorno aumentavano le simpatie e il proselitismo a causa della pubblicità che alcuni giornali davano alle azioni terroristiche.[…]
Durante l’anno faceva il muratore e metteva da parte i soldi per girare l’Europa durante le vacanze.
E’ stato in Portogallo, quando c’è stata la rivoluzione dei garofani, per rendersi conto che nulla era cambiato, la musica era sempre la stessa. La rivoluzione -diceva- non si può farla con i fiori.
Anche in Spagna era stato ospite di ragazze basche, le sue vacanze erano politiche. […]
Intanto è arrivata la cartolina: lo Stato lo chiamava a fare il suo dovere. Mi aspettavo l’obiezione di coscienza, sarebbe stata in carattere con il personaggio, invece fa domanda per entrare nei paracadutisti. Questo suo desiderio di imparare a paracadutarsi e ad usare le armi nasceva da una ormai radicata speranza nella rivoluzione. Mi dispiaceva che fosse così lontano a fare il soldato e che soffrisse per tante cose che non andavano ma per me è stato un periodo di calma. Potevo dormire senza l’angoscia della perquisizione, senza il timore che mio figlio finisse morto ammazzato.
Si vede che io di pace non dovevo averne perché alla fine del servizio militare, quando Maurizio torna, mio marito si ammala e in breve muore.[…]
Maurizio inizia un lavoro politico con i compagni del quartiere. Lavora insieme a Democrazia Proletaria. Scrive articoli, prepara relazioni, alcune sere va alle assemblee e si va avanti così. Per me la scuola e per lui lo studio di giorno e la politica, che non rende niente, la sera.
Gli domando se ha intenzione di farsi mantenere dalla madre per tutta la vita, in attesa di una rivoluzione che non verrà mai.[…] Io con mio figlio ho parlato, ho ricevuto le sue confidenze e ho tentato di convincerlo a considerare pericolose illusioni i suoi ideali ma, alla fine, è riuscito lui a farmi condividere in parte i suoi ideali di giustizia, di uguaglianza, di fraternità.
Comunque io potevo comprendere questo desiderio di pulizia, questa voglia di una società più giusta, questa delusione per il comportamento dei partiti politici, ma le azioni violente no, quelle non le ho mai comprese, non le ho mai giustificate.
[…] Mi stupisce in quel periodo la sua prudenza. Non si faceva vedere in giro, non fa mai una fotografia e si fa crescere i baffi spioventi alla mongola. E’ un comportamento di persona che non vuol lasciare nulla dietro di sé, non vuole essere identificata. […] Maurizio mi sta cercando. E infatti lo vedo. Sono molto brusca, incattivita dal suo comportamento e gli chiedo chi vuol prendere in giro!
– Dove sei e con chi, si può sapere?
– Sono con le Brigate Rosse.
Queste parole mi arrivano come uno schiaffo d’acqua gelida.
– Verrò a riconoscerti all’obitorio – è la mia raggelante profezia.
Ora che Maurizio si è confessato viene spesso a casa, di nascosto dai compagni. Cerca di non incontrare gente, e quando torno da scuola, se non trovo lui in casa, trovo un suo scritto. Le lettere che ci scrivevamo purtroppo le ho distrutte perché temevo da un momento all’altro la perquisizione, ed ora vorrei averle perché erano belle, erano interessanti, anche se per indicare l’organizzazione, scriveva “L’azienda”. In una sua lettera mi dava notizia del suo innamoramento per una compagna di latitanza! Fra tante ragazze che ha conosciuto di bell’aspetto, di buona famiglia, va ad innamorarsi di una brigatista! Così ragionavo sul momento.
Poi, pensandoci bene, dicevo a me stessa che tramite quella ragazza la sua vita di disperato forse diventava più sopportabile, forse riusciva a godere ancora qualche gioia dell’amore e finivo per simpatizzare con questa sua innamorata.
[…]
Prende un libro di poesie di Prévert dalla biblioteca e si confida:
– Mamma ho bisogno di nutrire l’anima e l’intelletto.
Sono le sue ultime parole.
Lo accompagno all’ascensore. Mi abbraccia. Ci scambiamo un bacio e io gli dico:
– Tesoro attento a venerdì, c’è l’allineamento degli astri: porta disgrazia.
Sorride della mia superstizione e, scuotendo la testa, se ne va. […]
Intanto arriva venerdì notte 13 novembre 1982. Verso le sei e mezza suona il campanello. So già chi può essere: c’è una perquisizione in vista, quella è l’ora canonica. Domando: Chi è?
– Carabinieri, aprite!
Prendo fiato, poi apro la porta. Come bolidi si infilano in casa col mitra spianato molti carabinieri in borghese. Girano per tutta la casa, guardano in tutti gli angoli, poi il comandante mi fa sedere e mi interroga.
– Ha una foto di suo figlio?
– No. Ho solo questa che gli è stata fatta da militare, mentre cavalca.
La guarda, e poi mi chiede di telefonare. Sono spaventatissima, hanno individuato Maurizio e lo stanno cercando.
– Dov’è suo figlio?
– In Inghilterra per lavoro, ma per l’amor di Dio che cosa è successo?
– Nulla, signora, solo che suo figlio non è in Inghilterra. Chiami il suo avvocato perché dobbiamo fare una perquisizione.
– No, non ho l’avvocato e non ne ho bisogno, in casa non c’è nulla di compromettente.
Entrano nella camera del mio Maurizio e con un’occhiata il comandante fa capire ai suoi uomini che devono comportarsi educatamente. […]
Lunedì mattina, molto presto, corro a comperare i giornali.
Al ritorno in cortile incontro un vicino di casa che sconsideratamente mi grida:
– E’ suo figlio quello che è caduto dal sesto piano di Cinisello!
Arrivano intanto alcune mie colleghe […] e anche l’alto ufficiale dei Carabinieri che aveva comandato il blitz di Cinisello e che era venuto a far la perquisizione. Gli dico:
– Perché non mi ha detto che mio figlio era morto? Avrei autorizzato il prelievo dei suoi organi, perché lui, che era generoso, ne sarebbe stato contento.
Chissà, forse non sarebbe stato possibile, perché credo che il corpo del mio Maurizio sia rimasto a terra tutta la notte e cioè fino a quando non è arrivato il magistrato per constatarne il decesso. […]
Ho cominciato ad attendere una chiamata per il riconoscimento del cadavere che era stato portato all’obitorio di Monza. Passano i giorni, rotolano via lenti e dolorosi. Nessuno mi chiama. Non so chi mi riferisce che qualcuno a Radio Popolare dice che quel povero cadavere è stato abbandonato, nessuno si presenta per il riconoscimento. ma cosa posso fare io, a chi mi presento? Mentre sono disperata a pensare al da farsi un caro amico mi propone di portarmi a Monza dal mio Maurizio. Abbiamo perduto tutto il pomeriggio, però sono riuscita a fare questo riconoscimento.
I giorni passano e non si riesce a fare il funerale. L’impresa di pompe funebri mi dice:
– Signora, se fosse morto un cane avrebbero più riguardo. Attendiamo l’ordine non so da chi. […]
Trascorrono altri giorni, poi finalmente mi avvertono che il funerale avrà luogo il lunedì mattina. […]
Arrivati a Lambrate, trovo la cassa mortuaria sotto una volta del cimitero, sola, abbandonata.
Con il mio arrivo si avvicinano molte persone, tutte con un garofano rosso in mano. Gli operai che avevano diviso le fatiche con mio figlio, quando faceva il muratore, erano tutti lì, con il pianto negli occhi. Erano stati loro a trovare i fiori e lo sa Iddio dove, perché al lunedì il cimitero è chiuso, per cui non arrivano i mezzi pubblici e non ci sono banchetti di fioristi. Ma loro li avevano trovati e distribuiti alle persone presenti.
Ed erano tante, malgrado le previsioni ed il desiderio delle autorità che avrebbero voluto fare le cose alla chetichella. Ad un certo punto, dopo il lancio dei garofani nella fossa i compagni si sono riuniti, col pugno alzato, a cantare sommessamente l’Internazionale. Allora, in quel preciso istante, molte persone, di idee anche opposte, si sono avvicinate al gruppo e si sono unite con le loro voci al coro.

[…] Spesso pensavo a quella Daniela di cui mio figlio si dichiarava innamorato, avrei tanto voluto conoscerla, parlarle, ma come fare? Fra tutte le brigaste arrestate quale poteva essere? Cercavo di immaginarmela.
Un mattino, precisamente il 22 febbraio 1983, mi arriva una lettera dal carcere di Voghera.
“Gentile signora, se avessi seguito l’istinto avrei scritto questa lettera qualche mese fa ma un sacco di preoccupazioni che mi rimbalzavano nella mente di volta in volta, mi hanno impedito di farlo. La paura più grande è quella di riaprire ferite comunque non rimarginabili, di far riemergere sentimenti e sensazioni incancellabili, le stesse che con grande sforzo si tenta quotidianamente di razionalizzare e nascondere e soffocare nei meandri più reconditi del pensiero e della memoria. Ho amato Maurizio profondamente e questo filo che mi accomuna a lei contiene in sé il motivo che mi ha spinta a scriverle.
La mia intenzione è quella di renderla partecipe dell’amore genuino nato tra me e Maurizio e sviluppatosi nel tempo, nella maniera più felice possibile. Ci siamo conosciuti, amati, plasmati giorno per giorno a vicenda, ci siamo dati e abbiamo dato insieme il massimo di noi stessi e ciò che mi fa felice anche oggi è l’essere stata il soggetto di quell’amore, così come lo è stata diversamente lei. Vorrei trovare altre parole e suoni in grado di comunicare tutta la bellezza di quell’amore ma non le conosco e forse non esistono. Sono sicura, però, che lei saprà cogliere da questa mia il dolore che si sa esiste senza bisogno di dirglielo, ma almeno un po’ della gioia vissuta. Un abbraccio con tanto affetto.”
Dopo questa missiva ci siamo scritte per tutto il tempo in cui è rimasta prigioniera. Non solo, ma ho ottenuto il permesso di andarla a trovare. Non saprei raccontare la prima volta, davanti a quell’immenso carcere bianco, in mezzo ai campi, con un carro armato che faceva il giro dell’isolato e tante guardie carcerarie con grossi cani lupo. Come sono entrata nel cortile, ho sentito un coro di voci:
– Vittoria, Vittoria, ciao!
Le voci venivano da lontano, io non vedevo le ragazze, ma forse loro vedevano me. Mi sono sentita commuovere fino alle lacrime. Erano in sei o sette dietro ai vetri. Le ho guardate tutte: belle, carine, spavalde. […] Per cinque anni sono andata regolarmente a trovare Daniela, prima a Voghera e poi a San Vittore. Mi sono legata a lei come se fosse mia figlia. […]
_Vittoria Dilda Biscaro, “L’ultimo caduto della Walter Alasia”, Milano 1992. Frammenti di un dattiloscritto dell’Archivio Progetto Memoria

Quando entrò in clandestinità non lo vidi più. Lessi della sua morte sul giornale, andai al funerale.
C’erano i garofani rossi e cantammo l’Internazionale. Ma erano gli anni ottanta, tempo di tradimenti.
Il cielo era livido come il cuore di tutti noi.
Là presenti a testimoniare che quel ragazzo che era morto era stato capace di sognare.
Non aveva difetti? Ne aveva. Ma è morto giovane, non ho fatto in tempo a riconoscerli.”
_Rossella Simone, testimonianza al Progetto Memoria_

entrambi i testi sono tratti da “Sguardi ritrovati” , vol. 2 del Progetto Memoria _Ed. Sensibili alle Foglie 1995_

Fonte:

http://baruda.net/2011/10/27/la-storia-di-maurizio-biscaro-morto-per-scappare-allarresto-nell83-e-di-sua-madre/

12 novembre 1977: la Polizia irrompe a radio Onda Rossa

12 novembre 1977: la Polizia irrompe a radio Onda Rossa

Mercoledì 12 Novembre 2014 11:56

Il 12 novembre 1977 a Roma avvennero scontri intorno a Campo de’ Fiori tra militanti e simpatizzanti dei collettivi autonomi e le forze dell’ordine. Nell’occasione, alcuni agenti in borghese fecero uso di armi da fuoco. Subito dopo gli scontri gli agenti irruppero nelle sedi di radio Onda Rossa e radio Città Futura e i loro redattori venero accusati di formentare la guerriglia. Al termine degli scontri si conteranno duecento fermi, venti arresti e decine di feriti.

 

Gli scontri erano avvenuti in seguito al sequestro da parte della polizia della sede dei Comitati autonomi operai in via dei Volsci e della sede del Comitato di lotta Monteverde in via Donna Olimpia, nell’ambito di un’inchiesta che accusava l’autonomia di costituzione di banda armata e che vide l’iniziale denuncia di 96 militanti.

Pochi giorni dopo le due radio riuscirono a tornare a trasmettere regolarmente.

Radio Onda Rossa, radio dei comitati autonomi operai, era nata appena 6 mesi prima. E’ il 24 maggio quando per la prima volta si sentì nell’etere romano la voce di via dei Volsci. Allora “a Roma c’erano diverse realtà di comunicazione, Radio città futura, Radio Radicale, Il manifesto, Lotta continua, Il quotidiano dei lavoratori, ma tutte, difficilmente, parlavano delle vere lotte che il movimento romano faceva…”.

“Pur coordinandosi con le altre radio, Radio Onda Rossa non si è mai autodefinita “radio libera”, ma “radio militante”, “radio di movimento”, “radio rivoluzionaria”. «Radio onda rossa non è una radio “libera” (libera da chi?), ma una radio militante, una radio rivoluzionaria. Opera una scelta di campo ed è subito una radio di Movimento: non è una radio libera perché accetta immediatamente il condizionamento di una parte, i soggetti rivoluzionari emergenti, non-garantiti, si schiera faziosamente e talvolta anche le sue trasmissioni sono faziose e settarie, è un passaggio della comunicazione antagonista, non la sua mediazione» (Osvaldo)”

Sul manifesto che ne annunciava l’apertura si leggeva: “per chi crede che la libertà di stampa e di informazione non è libertà dei padroni di insultare i proletari che lottano per la loro liberazione, è doveroso fare ogni sforzo perché i proletari abbiano le loro fonti di informazione. Radio Onda Rossa è una di queste fonti. ” (dal numero 10 del 1980 “I Volsci”, numero speciale contro la chiusura giudiziaria di radio Onda Rossa)

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3176-12-novembre-1977-la-polizia-irrompe-a-radio-onda-rossa

18 ottobre 1949: nasce Luca Mantini

 Sabato 18 Ottobre 2014 05:01

Luca Mantini nasce a Firenze il 18 Ottobre 1949, da una famiglia di estrazione proletaria.
S19 ottobretudia all’ Università di Firenze ed inizia il suo percorso politico in Lotta Continua. Viene arrestato per la prima volta nel ‘ 72 in seguito ad alcuni scontri con la polizia avvenuti a Prato, ad un comizio elelttorale dell’Msi.
Viene condannato a due anni e 8 mesi di reclusione, che sconterà nel carcere di Firenze, per il lancio di alcune bottiglie molotov.

Mantini all’ interno del carcere rifiuta di essere recluso insieme agli altri detenuti politici.

Preferisce la convivenza con i detenuti comuni, la maggioranza dei quali condannati per rapina.
In loro, Mantini individua una trasformazione, avvenuta proprio all’interno della relatà carceraria che li ha portati a politicizzarsi.
Con loro, Mantini forma il collettivo George Jackson, in onore al militante delle Pantere Nere che durante la reclusione in carcere iniziò la sua militanza, diventando marxista. Proprio alle Pantere Nere e alla loro teoria della centralità degli appartenenti al sotto-proletariato urbano che vivono ai margini della società e della legalità, Mantini ispirava le sue idee.
Il collettivo Jackson è la prima aggregazione di detenuti politicizzati. Alcuni di essi, insieme a Mantini, divengono dirigenti dei Nuclei Armati Proletari.

Il 29 Ottobre 1974 si scatena un conflitto a fuoco con le forze dell’ ordine, durante un tentativo di rapina per autofinanziamento alla Cassa di Risparmio di Firenze.
Muoiono Luca Mantini e Giuseppe Sergio Romeo, i loro compagni Pietro Sofia e Pasquale Abatangelo vengono catturati mentre un quinto riesce a trarsi in salvo.

I Nap in seguito, con una telefonata anonima, rivendicano il tentato esproprio dalla banca.
Nei giorni seguenti vengono affissi sui muri di Firenze molti manifesti, scritti a mano e firmati “Autonomia Proletaria, Collettivo Autonomo Santa Croce e Collettivo Jackson”, che danno notizia della morte di Luca Mantini e invitano ai funerali che si terranno il 31 ottobre.

L’ 8 Luglio dell’anno successivo, la sorella di Luca, Anna Maria Mantini, viene uccisa da una squadra dell’antiterrorismo, in seguito ad una delazione.

 

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/2903-18-ottobre-1949-nasce-luca-mantini

5-8 settembre 1974: le occupazioni di S.Basilio. La polizia uccide Fabrizio Ceruso

 

san_basilio.jpgRoma, 5 settembre 1974. La lotta per il diritto alla casa era molto forte a Roma quando, il 5 settembre, nella borgata di San Basilio, all’estrema periferia est della capitale, la polizia interviene con un ingente schieramento, iniziando a sgomberare le quasi 150 famiglie che da circa un anno occupavano altrettanti appartamenti IACP in via Montecarotto e via Fabriano.

L’incontro fra la decisa opposizione popolare agli sfratti e la volontà dei militanti della sinistra rivoluzionaria di difendere una delle più estese occupazioni in atto nella città, portò a organizzare una dura resistenza, che sfociò in vere e proprie battaglie di strada.

Fin dalle prime ore del mattino di venerdì vengono erette barricate agli ingressi del quartiere con pneumatici, vecchi mobili e oggetti di tutti i tipi. La polizia, accolta da sassi, bottiglie incendiarie, bulloni lanciati con le fionde, spara centinaia di lacrimogeni, ma nel pomeriggio è costretta a sospendere gli sfratti.

Sabato, mentre gli occupanti hanno ripreso tutti gli appartamenti, e una loro delegazione si è recata in pretura e allo IACP, vengono di nuovo tentati gli sgomberi.

Questa volta a resistere ci sono centinaia di manifestanti affluiti da tutta la città, tra i quali numerosi membri di consigli di fabbrica.

La giornata trascorre in un susseguirsi di “tregue”, accordate dalla polizia a Lotta Continua, che gestisce l’occupazione, per dare spazio a quella che si dimostrerà una trattativa-truffa, con l’unico scopo di prendere tempo e fiaccare il forte schieramento proletario. La delegazione rientra a San Basilio con un accordo di sospensione degli sfratti fino al lunedì mattina.

Nonostante ciò, domenica 8 i poliziotti irrompono di nuovo nelle case occupate intimidendo le famiglie e abbandonandosi ad atti di vandalismo. Riprendono gli scontri.

L’assemblea popolare nella piazza centrale della borgata, organizzata per le 18 dal Comitato di Lotta per la casa di San Basilio, viene caricata con lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo. Nella battaglia che segue, mentre un plotone di polizia è costretto a ritirarsi, da un altro vengono sparati numerosi colpi di arma da fuoco.

Fabrizio Ceruso, 19 anni, militante del Comitato Proletario di Tivoli, organismo dell’Autonomia Operaia, è colpito in pieno petto da una pallottola.

Caricato su un taxi, giungerà senza vita n ospedale.

Alla notizia della morte del giovane comunista tutto il quartiere scende in piazza. La rabbia esplode in modo violento. I pali dei lampioni vengono divelti e le strade rimangono al buio.

Questa volta è la polizia ad essere presa di mira da colpi di arma da fuoco sparati in strada e dalle case. Otto poliziotti, tra i quali un capitano, rimangono feriti, alcuni in modo grave. Brevi scontri isolati si accendono fino a tarda notte. l giorno seguente avranno inizio le trattative per le assegnazioni di alloggi alle famiglie d San Basilio e agli occupanti di Casalbruciato e Bagni di Tivoli.

Alfredo Simone

Fonte:

http://www.senzasoste.it/anniversari/5-8-settembre-1974-le-occupazioni-di-s-basilio-la-polizia-uccide-fabrizio-ceruso

Strage di Bologna, ecco i documenti di Mauro Di Vittorio di cui Raisi negava l’esistenza

Dal blog di Paolo Persichetti:

La pista palestinese si è rivelata inidonea ha fornire una spiegazione della strage di Bologna. Ricorrono ad un linguaggio contorto ed involuto i magistrati della procura bolognese per argomentare la loro richiesta di archiviazione dell’indagine supplementare aperta per fugare ogni ombra di dubbio sull’attentato alla stazione che il 2 agosto 1980 provocò la morte di 85 persone e oltre 200 feriti.

«Inserita all’interno di una cornice terroristica internazionale e suggestivamente intrecciata ad un groviglio di fatti storicamente accertati o meramente ipotizzati, la pista palestinese ha rivelato una sostanziale inidoneità ha fornire una complessiva spiegazione delle vicende della strage di Bologna, precludendo una ragionevole formulazione dell’imputazione dell’esecuzione della strage di Bologna al gruppo Carlos, nelle sue diverse articolazioni, operative nell’Europa Occidentale, e, direttamente o indirettamente, alle organizzazioni palestinesi».

Alla fine l’inconsistenza del movente (la rappresaglia per la presunta violazione del Lodo Moro) e l’assenza di elementi probatori nei confronti dei due cittadini tedeschi finiti nel registro degli indagati hanno imposto il riconoscimento della loro «sostanziale» estraneità alla strage, nonostante l’imponente campagna politico-mediatica dispiegata nell’ultimo decennio, il flusso incontrollato di documenti provenienti dagli ex archivi dell’Est, a volte inattendibili o male utilizzati, l’azione di quella che può definersi una “agenzia di disinformazione e depistaggio”.
I magistrati lo hanno fatto scegliendo un profilo basso, rinunciando nonostante le 82 pagine ad infierire lì dove le contraddizioni, le fandonie, i continui aggiustamenti, le palesi falsità e contraffazioni, richiedevano ben altre parole e potevano persino configurare ipotesi di reato, di fronte ad uno scenario che col tempo ha assunto sempre più le sembianze di un depistaggio piuttosto che quelle di una pista investigativa alternativa.

Una pista senza movente
Un mese prima dell’attentato del 2 agosto l’Italia era riuscita a far riconoscere al Consiglio d’Europa il diritto del popolo palestinese ad un proprio Stato. Era quello il primo riconoscimento a livello internazionale della Resistenza palestinese. Perché mai un mese dopo una organizzazione come l’Fplp, inserita nelll’Olp, avrebbe dovuto organizzare per rappresaglia un attentato dalla portata devastante (il più grave in Europa prima delle bombe di Madrid), come la strage alla stazione di Bologna, solo perché due missili di loro proprietà in transito sul territorio italiano erano stati sequestrati e un suo rappresentante arrestato?
Un atto illogico, al di fuori di ogni ragionevole proporzione, rilevano i pm sulla base anche delle testimonianze fornite da esponenti del Sismi, come Armando Sportelli, direttore della Divisione Esteri “R”, dal 1977 al 1985, diretto superiore del colonnello Stefano Giovannone, capocentro a Beirut, uomo di Moro e tessitore dei rapporti con gli esponenti della Resistenza palestinese.
Sportelli offre una lettura del “Lodo Moro” ben diversa da quella narrata nella pubblicistica corrente. Nessun passaggio di armi tollerato, ma solo un appoggio politico per il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi in cambio della cessazione delle azioni armate contro obiettivi israeliani, e non solo, sul territorio italiano. In realtà i carteggi del Sismi rintracciabili negli archivi segnalano anche una intensa collaborazione di intelligence.
Secondo Sportelli, il colonnello Giovannone avrebbe poi applicato una sua “personale” interpretazione dell’accordo offrendo garanzie supplementari che provocarono, una volta venute alla luce, il suo trasferimento.
Insomma il “Lodo Moro”, secondo l’interpretazione dei pm bolognesi, non sarebbe stato un protocollo rigido ma una politica puntuale, duttile, messa in atto di volta in volta a senconda delle situazioni. In sostanza, lasciano capire i magistrati, vi può essere stata rappresaglia contro qualcosa che non esisteva? L’arresto di Saleh, l’indifferenza della magistratura e dei carabinieri alle pressioni di Giovannone, sarebbero la prova dell’assenza di un accordo complessivo, che altrimenti avrebbe legato le mani agli apparati e alle istituzioni.

Margot Christa Frohlich
Entra nell’inchiesta perché un cameriere dell’hotel Jolly di Bologna l’avrebbe riconosciuta due anni dopo la strage in una foto apparsa sui giornali che la raffigurava al momento del suo arresto nello scalo aereo di Fiumicino, perché trovata in possesso di una valigietta in cui era nascosta una miccia detonante.
Rodolfo Bulgini è il testimone che l’avrebbe riconosciuta come l’esuberante ballerina con forte accento tedesco che avrebbe fatto di tutto per farsi notare quel giorno chiedendo ad un inserviente di portare la sua valigia in stazione.
Solo che le verifiche del racconto di Bulgini non hanno trovato riscontri. Nel locale dove avrebbe lavorato la ballerina nessuno aveva mai visto la Frohlich (che non è ballerina) e tantomeno una qualunque altra ballerina tedesca. Il Bulgini viene descritto dai colleghi di lavoro come una personaggio fantasioso, sempre pronto a inventare storie e situazioni per darsi importanza e mettersi al centro dell’attenzione. Cercato per essere interrogato, il testimone è risultato affetto da una grave invalidità civile per malattia psichiatrica. Insomma del tutto inattendibile, salvo che per Raisi, Pellizaro e Paradisi.
Di squilibrati che parlano a vanvera in questa vicenda ce ne sono fin troppi. Alla pagina 36 della richiesta di archiviazione si trova la testimonianza di una cittadina tedesca, Rosemarie Eberle, affetta secondo una perizia disposta dal tribunale di Darmstadt da «psicosi cronicizzata paranoide» che aveva affermato di aver visto nella stazione di Bologna il 2 agosto 1980 il futuro ministro degli Esteri tedesco e vice-Cancelliere del governo Schrôder dal 1998 al 2005, Joscka Fischer.

Thomas Kram
Non fa parte del gruppo Carlos ma delle Cellule rivoluzionarie e si presenta in frontiera e in albergo a Bologna con la sua carta d’identità. Un comportamento ben lontano da quello di una persona che si appresta a commettere un grave reato. «La sua presenza ingiustificata a Bologna – scrivono i pm – non è sufficiente alla formulazione dell’accusa di partecipazione alla strage della stazione ferroviaria». Tuttavia i magistrati censurano pesantemente il comportamento di Kram che con il suo atteggiamento reticente non fuga il «grumo di sospetto» che si addensa sulla vicenda.

Mauro Di Vittorio, vittima della strage
Veniamo alla figura di Mauro Di Vittorio, chiamato in causa dall’ex carabiniere missino, poi onorevole trombato, Enzo Raisi.
Quando l’ipotesi della rappresaglia come movente della strage per il sequestro dei missili palestinesi intercettati davanti al porto di Ortona prima del loro imbarco cominciò a traballare, venne introdotta la variante dell’incidente intercorso durante un trasporto di esplosivo.
Tecnicamente le perizie hanno sempre smentito un simile scenario perché la valigia esplosiva era collocata in una posizione tale da far pensare che la deflagrazione dovesse sortire il massimo effetto, e soprattutto conteneva l’innesco. Non si trasporta esplosivo innescato.
Contro ogni principio di realtà tuttavia i sostenitori della pista palestinese hanno cercato il complice italiano, l’anello mancante, quello che avrebbe dovuto portare con sé la valigia, e questo perché nessuno ha mai visto Kram o la Froelich in stazione. Il complice italiano era fondamentale anche per creare il nesso con le organizzazioni armate della sinistra rivoluzionaria italiana.
E così, come fanno le Jene (vedi qui), si è cominciato a rovistare tra i morti. Si cercava un giovane, possibilemente romano, legato all’area dell’autonomia, meglio se al collettivo di via dei Volsci, come Pifano e Baumgartner arrestati ad Ortona  con i missili insieme ad Abu Saleh, il rappresentante dell’Fplp. Ma ancora meglio se fosse stato in odore di Brigate rosse. Magari uno di quei giovani presi nelle retate di Br city, tra la Tiburtina e Cinecittà. Alla fine è sbucato Mauro Di Vittorio, 24 anni, di Tor Pignattara. Non era affatto un militante. Nella sua zona c’era una sezione di Lotta continua, era molto conosciuto e amato nel quartiere, ma lui guardava altre periferie, quelle londinesi, portava lunghi capelli un po’ rasta, una barba molto folta (vedi qui la sua storia).
I Pm gli dedicano appena una pagina per scagionarlo. Si affidano ad alcuni rapporti della Digos ed alle parole della sorella Anna, intervenuta per difenderne la memoria nel silenzio più assoluto (leggi qui) dell’associazione delle vittime della strage e del suo presidente, Paolo Bolognesi, che per ragione sociale avrebbe dovuto fare tuoni e fulmini contro questo linciaggio.

Qui sotto potete trovare una pagina manoscritta del suo diario di viaggio. Rimandato indietro alla frontiera londinese, la mattina del 2 agosto si ritrovò a Bologna per morire nella deflagrazione.
Enzo Raisi ha sempre negato l’esistenza di questo diario di cui avevamo già pubblicato il testo integrale apparso su Lotta continua nei giorni successivi alla strage (leggi qui).

Quaderno MDV

Per i sostenitori della pista palestinese non solo il diario era una contraffazione costruita postmortem ma Mauro Di Vittorio sarebbe stato a Bologna in anonimato, propio perché stava trasportando dell’esplosivo. Raisi ha sempre sostenuto che non vi era traccia della sua carta d’identità. Eccolo servito.
La carta d’identità di Mauro è stata restituita alla sorella Anna, insieme con altri effetti personali del fratello, dalla Polfer  il 12 agosto 1980. Ecco l’incipit del processo verbale di consegna presente negli atti dell’inchiesta di cui i pm hanno chiesto l’archiviazione:

L’anno 1980 addì  12 del mese di Agosto, alle ore 11.45, negli Uffici del Comando Posto Polizia Ferroviaria di Bologna, Innanzi a Noi sottoscritti Ufficiali di P.G., è presente la Signorina DI VITTORIO Anna, nata a Roma il 3.8.1954 ivi residente in Via Anassimandro Nr.26, nubile Insegnate,Tessera Mod AT rilasciata dal Ministero della Prubblica Istruzione-Provvedditorato Agli Studi di Roma il 14.1.1977 Nr.38290339.

C.I.Mauro

 

Per saperne di più

0. Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
1. Puntata, L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
2. Puntata, Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
3. Puntata, Strage di Bologna, Mauro Di Vittorio viveva a Londra tra ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani
4. Puntata, Cutolilli, Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza è Raisi che deve giustificare le sue accuse
5. Accuse contro Mauro Di Vittorio, Paradisi e Pellizzaro prendono le distanze da Enzo Raisi ma non convincono affatto

Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

 

 

Fonte:

http://insorgenze.wordpress.com/2014/08/03/strage-di-bologna-ecco-i-documenti-di-mauro-di-vittorio-di-cui-raisi-negava-lesistenza/

 

 

14 maggio 1977: Milano, una sparatoria “tranquilla”

 

Mercoledì 14 Maggio 2014 07:06

Milano, 12 maggio 1977; mentre a Roma le forze speciali infiltrate di Kossiga sparano ai manifestanti di Piazza Navona e uccidono 14 maggioGiorgiana Masi, il sostituto procuratore della Repupplica Luigi De Liguori ordina l’arresto di alcune persone, tra le quali due noti avvocati di Soccorso Rosso, Giovanni (Nanni) Cappelli e Sergio Spazzali. L’imputazione più grave nei loro confronti è quella di promozione di associazione sovversiva. I gruppi della sinistra extraparlamentare e i collettivi dell’area dell’autonomia indicono per il pomeriggio del 14 maggio una manifestazione contro la repressione.

 

La mattina del 14 maggio i quattro referenti dei servizi d’ordine delle diverse anime dell’Autonomia milanese si riuniscono alla Statale per valutare le azioni di piazza. Ci sono Pietro Mancini (Piero), Raffaele Ventura (Coz) e Maurizio Gibertini (Gibo) per il gruppo che si riuniva intorno alla rivista “Rosso”, Oreste Scalzone per i gruppi vicini a Potere Operaio, Andrea Bellini per il “Casoretto” e infine una delegazione del partito marxista-leninista. Si decide per un corteo duro, che ad un certo punto si stacchi dai gruppi della sinistra extraparlamentare (Democrazia Proletaria in testa) per proseguire intorno al carcere di San Vittore e portare la solidarietà agli avvocati arrestati due giorni prima. Un corteo “duro”, questo si, ma che non preordina in alcun modo uno scontro a fuoco con la polizia, né alcuna altra provocazione. Niente molotov, né spranghe, né fionde e neanche sassi, niente di niente. Ai primi disordini si abbandona il corteo, l’accordo è questo.

 

La sera prima però, anche la componente armata del collettivo Romana-Vittoria, composta da Marco Barbone, Enrico Pasini Gatti, Giuseppe Memeo, Marco Ferrandi, Luca Colombo e Giancarlo De Silvestri si riunisce per definire il piano per la manifestazione del giorno successivo. Bisogna provocare la polizia nei pressi di San Vittore, sciogliere il corteo per poi ricomporlo nella zona di Porta Genova, da presidiare militarmente il più a lungo possibile. Il Romana-Vittoria aprirà il corteo.

 

 

Il corteo parte alle 16,45 da piazza Santo Stefano, i partecipanti sono più di 10.000. All’incrocio via San Vittore-Via Olona lo spezzone dell’autonomia, composto da circa 1000 manifestanti, abbandona il troncone principale come previsto. Cominciano subito gli slogan: “Da San Vittore all’Ucciardone, un solo grido: evasione”, “Carabiniere, sbirro maledetto, te l’accendiamo noi la fiamma sul berretto”.

 

Ad un certo punto la colonna di polizia (fino a quel momento tenutasi molto distante dal corteo) del III° reparto Celere si schiera in assetto di ordine pubblico (un cordone di scudi e un secondo con i lancia-lacrimogeni) all’angolo tra via Olona e via De Amicis. Dopo un breve consulto, la squadra armata di Romana-Vittoria decide per l’attacco, e forza facilmente i cordoni di contenimento capeggiati da Bellini e Scalzone, accortisi di quanto stava per accadere.

 

 

S’alza un grido secco: “Romana fuori!” seguito da un successivo: “Sparare!”. Nel giro di un solo minuto Ferrandi, Memeo, Barbone, Pasini Gatti, De Silvestri e Colombo, accostati da alcuni studenti del Cattaneo armati di molotov, dal collettivo di Viale Puglie e dal collettivo Barona ingaggiano un violento scontro a fuoco con le forze dell’ordine, durante il quale rimane ferito a morte il vicebrigadiere Custra. Altri due agenti vengono lievemente feriti, mentre un passante, Marzio Golinelli, perde un occhio e un’altra passante, Patrizia Roveri, viene ferita in maniera non grave al capo.

 

Via De Amicis è oscurata dal fumo dei lacrimogeni, delle molotov e della carcassa del filobus 96 dato alle fiamme. Tutti coloro che si erano inoltrati nella strada raggiungono di corsa via Carducci dove alcuni manifestanti stanno improvvisando una barricata con del materiale edile di un cantiere.

 

 

La sera del 14 nell’abitazione di Colombo si riuniscono alcuni dirigenti di Rosso a confronto con Ferrandi, Barbone, Memeo, Pasini Gatti, Colombo e De Silvestri. La notizia che l’agente Custra è clinicamente morto è stata diffusa radiogiornali e dai telegiornali. I dirigenti di Rosso si rendono disponibili a fornire soldi e documenti falsi per il prudenziale allontanamento di Pasini Gatti, Ferrandi e di tre studenti del Cattaneo. Ne nasce poi un violento diverbio tra Mancini, molto critico rispetto all’azione della Romana-Vittoria, e Alunni, che invece ne prende la difesa. In seguito a questo e ad altri personali contrasti, nel mese di luglio Alunni, Marocco, Ricciardi, Barbone, Colombo, De Silvestri daranno vita, con altri e altre militanti, alle Formazioni Comuniste Combattenti. In seguito, Ferrandi aderirà a Prima Linea; Memeo ai Proletari armati per il comunismo; Pasini Gatti alla Brigata Antonio Lo Muscio.

 

Durante il processo per i fatti del 14 maggio, gli imputati Ferrandi, Barbone e Pasini Gatti si presenteranno col profilo, già assunto al momento dell’arresto, dei cosiddetti “pentiti”.

 

Pubblichiamo di seguito alcune fotografie del 14 maggio 1977 recentemente riscoperte nel volume “Storia di una foto” a cura di Sergio Bianchi, edito per Derive Approdi.

11 aprile 1979: Tre compagni autonomi muoiono a Thiene

Venerdì 11 Aprile 2014 07:17

Verso le 17 dell’11 aprile 1979, a Thiene, in provincia di Vicenza, esplode un ordigno in un appartamento in via Vittorio Veneto 48.

11 aprile

Muoiono dilaniati dall’esplosione tre militanti dei Collettivi Politici Veneti, Maria Antonietta Berna (22 anni), Angelo Del Santo (24 anni) e Alberto Graziani (25 anni). L’esplosione è provocata dallo scoppio accidentale della pentola a pressione piena di polvere di mina, con cui stanno preparando un ordigno. In quei giorni ci furono decine di azioni e incendi in risposta all’arresto di centinaia di compagni del movimento comunista veneto e non solo avvenuto il 7 aprile dello stesso anno.

L’intestatario dell’appartamento, Lorenzo Bortoli, anch’egli militante dei CPV, viene arrestato insieme ad altri tredici militanti nell’inchiesta apertasi in seguito all’esplosione.

Lorenzo Bortoli morirà suicida in carcere il 19 giugno 1979.

Il 12 aprile 1979 i tre giovani vengono ricordati in un volantino intitolato “Ci sono morti che pesano come piume e vite che pesano come montagne”. I tre militanti , dice il comunicato, “sono morti esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo Stato, contro questa società fondata ed organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.

Il  13 aprile è il giorno dei funerali di Maria Antonietta Berna, sepolta a Thiene, e di Angelo Del Santo che sarà seppellito in una frazione vicina, a Chiuppano; qui la polizia ha militarizzato l’intera area, impendendo l’accesso al cimitero. Parecchie centinaia di giovani riescono comunque ad avvicinarsi alla chiesa utilizzando piccole strade che passano attraverso i campi, per dare l’ultimo saluto al militante morto.

Il 14 aprile 1979 vengono celebrati a Sarcedo i funerali di Alberto Graziani. Parecchie centinaia di persone, dopo aver superato i posti di blocco posti dalle forze dell’ordine intorno alla città, lo salutano in silenzio a pugno chiuso.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/1039-11-aprile-1979-maria-antonietta-berna-angelo-del-santo-e-alberto-graziani

7 aprile 1979: quando lo Stato si scatenò contro i movimenti

Dal blog di Paolo Persichetti, http://insorgenze.wordpress.com/ 
dicembre 21, 2010
 

Ogni volta che apre bocca Maurizio Gasparri ci ricorda che esiste il Cottolengo. Ma questo non è sempre un buon motivo per ignorare le sue sortite. La sua richiesta di scatenare contro il movimento “arresti preventivi”, l’accusa di “assassini potenziali” rivolta contro i manifestanti, danno voce in realtà a settori consistenti degli “apparati dello Stato” e pezzi di opinione pubblica reazionaria. I tentativi di dialogo con le forze di polizia sponsorizzati in questi giorni da alcuni giornali ed esponenti politici, come Veltroni, la ricerca di una mediazione con i manifestanti, mostrano tuttavia che negli apparati esistono linee diverse.
Liquidare l’offensiva repressiva lanciata dal presidente dei senatori Pdl, uno dei più servili maggiordomi del Berlusconismo che da ministro ebbe il compito di varare una riforma del sistema televisivo scritta dagli uffici studi di Mediaset, come un rigurgito fascista sarebbe un grave errore. Il nuovo “sette aprile” chiesto a gran voce dall’ex missino, fratello di un generale dell’Arma dei carabinieri, non fu uno strumento di repressione ripreso dal ventennio mussoliniano, ma un dispositivo di repressione giudiziario-poliziesco e politico-culturale, messo a punto dal partito comunista italiano, sostenuto con feroce coerenza dal giornale fondato e direto da Eugenio Scalfari. Il fatto che oggi sia un ex-post sempre fascista a reclamarlo chiama in causa gli eredi del Pci sparpagliati un po’ ovunque, nel Pd, nella Federazione della sinistra, in Sel o nell’Idv, alcuni persino nel Pdl. Se oggi chi milita in queste formazioni pensa che evocare il 7 aprile sia prova di fascismo, deve spiegarci perché allora venne congeniato quel modello di repressione dei movimenti e perché fino ad oggi non ne ha mai preso le distanze

 

Paolo Persichetti
Liberazione 22 dicembre 2010

Chi ha definito un rigurgito fascista la richiesta di un «nuovo 7 aprile» fatta da Maurizio Gasparri, cioè di «una vasta e decisa azione preventiva» da scatenare  contro i centri sociali ritenuti, a suo dire, i responsabili degli scontri avvenuti il 14 dicembre scorso a Roma, non ha detto una cosa giusta. Pietro Calogero, il pm di Padova che congeniò il teorema accusatorio firmando i primi 22 ordini di cattura che diedero via al blitz contro il gruppo dirigente dell’area dell’Autonomia operaia, tra cui Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, non era fascista. L’intera inchiesta, in realtà, fu preparata e supportata dal sostegno politico diretto del partito comunista, dall’azione di un suo dirigente locale, Severino Galante, dal lavoro riservato della sezione “Affari dello Stato” diretto da Ugo Pecchioli, dalla funzione di raccordo tra magistratura e sistema politico svolta da Luciano Violante. Membri del Pci erano alcuni dei testimoni chiave che consentirono di formulare la prima salva di accuse. In quegli anni il Pci dispiegò tutta la sua macchina organizzativa senza badare a sfumature per monitorare nei quartieri e nei posti di lavoro gli “estremisti” e i “sovversivi”, i cui nomi venivano poi affidati ai nuclei speciali del generale Dalla Chiesa. Addirittura intervenne sui giurati del processo di Torino contro il nucleo storico delle Br. Democristiano era invece Achille Gallucci, il giudice istruttore romano che lo stesso giorno spiccò altri mandati di cattura per «insurrezione armata contro i poteri dello Stato», avviando così il secondo troncone dell’inchiesta. Quell’episodio che molti giuristi, come Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, continuano a ritenere una delle pietre miliari dell’emergenza giudiziaria che ha scardinato il sistema delle garanzie giuridiche avviando anche quella cultura della supplenza giudiziaria, senza la quale non avrebbe mai visto la luce “Mani pulite”, che aprì la strada al berlusconismo, nacque nel cuore della stagione del compromesso storico, della linea della fermezza, del consociativismo che annullava ogni differenza tra maggioranza e opposizione. Il Movimento sociale, partito nel quale militava all’epoca l’attuale presidente dei senatori del Pdl, era fuori dell’arco costituzionale. La legislazione speciale, l’introduzione delle carceri speciali, gli spregiudicati metodi d’indagine che permisero l’arresto dei militanti dell’Autonomia, votati anche con l’assenso dell’opposizione parlamentare, resero di gran lunga più repressivo il capitolo dei delitti politici presente nel codice penale elaborato per punire gli antifascisti da Alfredo Rocco, guardasigilli del regime mussoliniano. Il modello 7 aprile introdusse il ricorso al «rastrellamento giudiziario», cioè la contestazione di reati associativi di vecchio e nuovo conio senza l’individuazione di fatti circostanziati, la cui prova veniva rinviata nel tempo grazie ad una custodia preventiva allungata a dismisura. Di fatto l’arresto si trasformava in un vera e propria pena anticipata scontata prima della sentenza. In questo modo le accuse si fondavano sul principio della “tipologia d’autore”, ad essere contestata era l’identità e la storia politica dell’imputato. Scelta motivata all’epoca con la necessità “prosciugare l’acqua dove nuota il pesce” per difendere lo Stato dall’attacco dei gruppi armati: l’anno prima era stato rapito e ucciso dalle Br il presidente della Dc Aldo Moro, attorno al movimento del ’77 si era diffusa un’area insurrezionale, un’arborescenza di sigle che alimentava azioni armate ovunque mentre il conflitto sociale era giunto all’apice. Pochi mesi prima era stato ucciso Guido Rossa. Tuttavia l’introduzione di quello che fu un vero “stato di eccezione giudiziario” venne sempre negata dalle forze politiche, ciò spiega il rimosso e il tabù attuale. La sinistra non ha mai fatto i conti con quella scelta, anzi col passar delle svolte e delle sigle l’ha iscritta a pieno nel proprio patrimonio culturale ritrovandosi nella paradossale situazione che vede oggi un fascista di allora rivendicarne con estrema naturalezza l’impiego. E’ stata la sinistra, spalleggiata dal partito-giornale di Repubblica, a mettere in piedi il micidiale modello repressivo e l’arsenale giuridico rivendicati oggi contro i movimenti da un personaggio come Gasparri. Quanto basta per avviare una riflessione critica mai veramente affrontata.

Fonte:

http://insorgenze.wordpress.com/2010/12/21/7-aprile-1979-quando-lo-stato-si-scateno-contro-i-movimenti/