Ecco la testimonianza di un detenuto uscito venerdì dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. Intanto a Bologna aumentano i contagi.

 CARCERE  13 Apr 2020 21:00

«Detenuti picchiati in carcere da 300 agenti a volto coperto»

A scatenare la violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sarebbe stata la protesta pacifica dei reclusi per i contagi da coronavirus, come confermato dal sindacato di polizia penitenziaria

L’ultima telefonata l’aveva ricevuta nella tarda mattinata del 6 aprile scorso, poi più nulla. Solo dopo alcuni giorni, la moglie di un altro detenuto l’aveva avvisata che suo marito non avrebbe effettuato nessuna chiamata perché non era in condizioni fisiche a causa delle numerose percosse subite. Ma non è un caso isolato. A seguito di una protesta avvenuta al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero stati presunti pestaggi perpetrati nei confronti dei detenuti e, secondo alcune testimonianze, ne avrebbero fatto le spese anche coloro che non sarebbero stati parte attiva della protesta. Da ricordare che tale protesta (secondo i detenuti sarebbe consistita nelle battiture) è scaturita dalla circostanza che alcuni detenuti erano risultati positivi al covid 19. Ma non solo. La preoccupazione era rivolta al fatto che risultavano assenti le dotazioni di sicurezza anti contagio.

 

Alcune delle ferite riportate da un detenuto di Santa Maria Capua Vetere dopo il pestaggio

 

La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano presunte violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Diverse sono le testimonianze. La più emblematica consiste nel fatto che, in maniera singolare, il giorno dopo la rivolta e il presunto pestaggio, diversi detenuti non hanno avuto la possibilità di effettuare le videochiamate. Perché? Secondo i familiari sarebbero state evitate per non far vedere loro i segni delle presunte percosse. Diverse testimonianze coincidono perfettamente e ricostruiscono ciò che sarebbe avvenuto nella sezione coinvolta. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena.

 

Altri segni del pestaggio

 

A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta.

«Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle – racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate». Ma non solo. «Per dimostrare la loro superiorità e durezza – racconta sempre l’ex detenuto – dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba». L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse – prosegue sempre l’ex detenuto – «gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma».

Il garante regionale Samuele Ciambriello ha raccolto varie testimonianze, comprese quelle ottenute dall’associazione Antigone, e le ha portate all’attenzione non solo della Procura ma anche della magistratura di sorveglianza.

 

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/detenuti-picchiati-carcere-da-300-agenti-volto-coperto/?fbclid=IwAR0dRIzTzCpthNKHCd1a-6dirNA3WxZ2nW1MT5m0VdhwdkDxRT-F3b51FJU


Ancora contagi in carcere: 10 nuovi casi a Bologna

Sono oltre duecento gli operatori della Polizia penitenziari affetti da Covid-19 su tutto il territorio nazionale

Aumentano casi Covid 19 nel carcere bolognese de la Dozza.  Oggi pomeriggio è pervenuto l’esito dei tamponi, a cui erano stati sottoposti una ventina di detenuti, con esito positivo per dieci di loro.

«Il dato assoluto è di per sé molto preoccupante, ma ciò che più allarma è la media di circa il 50% di positivi sugli ultimi tamponi effettuati», denuncia  Gennarino De Fazio, per la Uilpa Polizia Penitenziaria nazionale che ha reso pubblica la notizia del dato relativo alla Casa Circondariale di Bologna.

«Dal carcere di Bologna proveniva il primo detenuto deceduto per Covid – ha aggiunto – e sono attualmente almeno dodici i ristretti ivi affetti da coronavirus, mentre altri ancora sono risultati positivi dopo essere stati trasferiti presso altri istituti. Non sappiamo se le proteste che hanno interessato il penitenziario il 9 e il 10 marzo scorsi possano aver avuto incidenza su quanto sta avvenendo, tuttavia, considerato anche che è passato oltre un mese, a noi pure questo sembra indicativo della sostanziale inefficacia con cui l’emergenza sanitaria viene affrontata dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria».

I focolai nelle carceri oramai non sembrano essere episodici, ma vengono registrati in differenti zone geografiche, da Bologna a Verona a Torino a Voghera, solo per citare alcuni istituti e non considerando i penitenziari dove il numero dei detenuti contagiati rimane relativamente contenuto. Il sindacalista della Uil pol pen sottolinea che sono ben oltre duecento, secondo le sue stime, gli operatori della Polizia penitenziari affetti da coronavirus su tutto il territorio nazionale.

Il carcere di Bologna ha visto un primo detenuto morto per coronavirus, già debilitato da numerose patologie e che si era visto – inizialmente – rigettare l’istanza per incompatibilità ambientale. Un carcere dove gli stessi agenti penitenziari hanno denunciato la mancata protezione individuale e si è scoperto che ci fu un ordine ben preciso – da parte dell’azienda sanitaria – per non indossare le mascherine per non spaventare i detenuti. Nel frattempo il leader sindacale De Fazio denuncia: «Continuiamo a pensare che sia indispensabile una svolta sistemica nella gestione carceraria e che questa non possa realizzarsi sotto l’attuale conduzione, per questo auspichiamo ancora che la responsabilità venga pro-tempore assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri».

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/ancora-contagi-carcere-10-nuovi-casi-bologna/

Il silenzio sulle violenze in carcere dopo le rivolte di marzo

Dal profilo Facebook della giornalista
Maria Elena Scandaliato

7 h 

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Il servizio sulle violenze nelle carceri dopo le rivolte andato in onda questa mattina a Buongiorno regione Lombardia

BUONA PASQUA AI DETENUTI

Domani, su Rai tre, alle 7.30 Buongiorno Regione Lombardia trasmetterà un mio servizio con le testimonianze dei parenti dei detenuti che hanno partecipato (o di questo sono stati sommariamente accusati) alle rivolte di inizio marzo.
È un servizio cui tengo moltissimo, perché moltissimo è costato a chi ha accettato di denunciare. Non solo chi – come vedrete – ci ha messo la faccia (Alfonsina e Federica), ma anche chi ha scelto l’anonimato ed è stato costretto a rivivere dei momenti terribili, in cui non sapeva se il proprio marito, il proprio figlio, fossero vivi o morti chissà come nel chiuso di una cella.
Nelle rivolte di inizio marzo sono morti 14 detenuti. Abbiamo scoperto i loro nomi da poco; alcuni erano in attesa di giudizio (quindi innocenti fino a prova contraria), uno sarebbe dovuto uscire dopo due settimane. Si tratta per lo più di stranieri: chissà le loro famiglie – magari lontane, magari no – cosa avranno provato.
Di questa strage si è parlato poco e male. Dando per certo il fatto che questi si fossero strafatti di roba dando l’assalto alle infermerie. Una cosa che ha la stessa verosimiglianza del fatto che io sia un’attivista occulta della Lega nord. Eppure, tutti zitti.
No, non tutti. Per fortuna, ci sono i parenti dei detenuti; e i loro gruppi, in cui si passano le informazioni che lo Stato nega loro, in modo crudele e padronale. E poi le associazioni. Come Associazione Yairaiha Onlus, senza la quale non avrei raccolto alcuna testimonianza.
Il carcere è una realtà ristretta e amplificata al tempo stesso. Le rivolte dei detenuti sono state l’unico segno di lucidità e di vita, in una società che ormai delega a élite ultrarisicate anche la libertà di uscire di casa.
Loro sapevano che avrebbero pagato: eppure si sono ribellati. Eppure, si sono ribellati.


Il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la mattanza della settimana santa

(disegno di sam3)

Franco (nome di fantasia), recluso nelle sezioni di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, è in attesa di giudizio e non sa ancora se il giudice lo riterrà colpevole o innocente. Si ammala qualche settimana prima di Pasqua. Picchi di febbre e problemi respiratori fanno pensare al peggio. Dopo qualche ora di monitoraggio viene “isolato” in infermeria per verificare l’evoluzione dei sintomi. I familiari riescono ancora a comunicare con lui tramite videochiamate ma hanno l’impressione che le cose stiano prendendo una brutta piega. Hanno paura, come tutti. Riescono a sapere tramite l’associazione Antigone e l’ufficio del garante dei detenuti che la situazione per ora è monitorata, ma si dovranno fare accertamenti specifici per capire il tipo di malessere. Qualche giorno dopo, la direzione sanitaria che opera in carcere avverte la famiglia che Franco è stato sottoposto a tampone da Covid-19 risultando positivo. Nel frattempo, sarebbe stato ricoverato presso la struttura ospedaliera napoletana del Cotugno.

La notizia in breve tempo si diffonde e arriva in carcere, Franco è il primo detenuto ammalato di Covid della regione, la seconda dopo la Lombardia per indici di sovraffollamento carcerario. La tensione sale all’interno dell’istituto. Il corpo detenuto teme il contagio e si sente sguarnito da ogni difesa: cosa si potrebbe fare per evitare di ammalarsi? Il carcere non è un luogo impermeabile: il distanziamento sociale è impraticabile, guanti e mascherine non ci sono e in istituto entrano ed escono moltissime persone. «Il carcere, essendo chiuso e isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia», sostiene invece il procuratore Gratteri. A oggi, i contagiati sono circa duecentotrenta (sessanta detenuti e centosettanta poliziotti).

Franco intanto è stato ricoverato. È il weekend che precede la settimana delle feste pasquali. Si avvicina l’orario di chiusura delle celle ma i detenuti di una sezione non vogliono rientrare. Inizia la protesta con una battitura e l’occupazione simbolica della sezione. La polizia penitenziaria denuncia che per impedirle l’accesso in sezione è stato riversato dell’olio bollente. La tensione in questa fase raggiunge facilmente stadi di acuzie e rapidi cali perché nessuno sa in verità come si uscirà dalla vicenda del virus. Chi ha il potere naviga a vista e chi non lo ha spesso sente di affogare.

Le proteste rientrano nel corso della stessa serata di domenica, dopo un primo intervento della penitenziaria. Sembra essere stato uno sfogo caduto nel vuoto. Bisogna che le cose sfumino da sé. Anche gli sforzi di chi in questi giorni sta tentando di stabilire un dialogo con le controparti, offrendo soluzioni per fronteggiare la devastante emergenza, si sgretolano di fronte al muro del Dap e del ministero.

A questo punto la storia cominciata con il contagio di Franco assume contorni inquietanti. Lunedì in carcere arriva la magistratura di sorveglianza e incontra i detenuti per i colloqui. Si constata che gli atti di insubordinazione che si sono verificati non hanno assunto i connotati di una vera rivolta (come quella ai primi di marzo nel carcere di Fuorni, Salerno). Secondo le testimonianze raccolte da Antigone e dall’ufficio del garante, si è verificata invece una fortissima rappresaglia da parte della polizia penitenziaria. Appena la magistratura di sorveglianza ha concluso il suo lavoro (tra le sue competenze c’è quella di monitorare lo stato, le garanzie e i diritti dei reclusi) quasi cento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa sono entrati in un padiglione e hanno cominciato i pestaggi all’interno delle “camere di pernottamento”. Probabilmente non sono gli stessi poliziotti in servizio presso l’istituto, anche perché picchiano chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana, anche qualche detenuto che dopo pochi giorni potrebbe uscire dal carcere con i segni del martirio sulla carne.

Le violenze si svolgono secondo modelli già visti: ad alcuni detenuti vengono tagliati barba e capelli, vengono spogliati e pestati con manganelli, pugni e calci su tutto il corpo. Il racconto di queste torture non sembra fermarsi, perché alcuni familiari sostengono che i pestaggi continuino anche ora. Nel corso di questa settimana, le famiglie, preoccupate per le violenze, hanno organizzano una manifestazione pacifica nei pressi del carcere. Ma all’interno si respira un’aria gelida e qualche agente continua il gioco al massacro psicologico: «Avete anche il coraggio di far venire le vostre famiglie? Non vi è bastato?».

In questo video un detenuto racconta, attraverso una telefonata, le violenze di questi giorni al carcere di Santa Maria Capua Vetere

Mattanze di questo tipo, in stile scuola Diaz, servono a (ri)stabilire un rapporto di dominio: svuotare il corpo di ogni difesa fisica e mentale, colpire la persona fino a suscitare un sentimento di vergogna verso se stessi. Di fronte al deflagrare di quest’energia cinetica bisogna essere nudi: è il modo migliore per rendere docile un corpo che ha mostrato segni di insubordinazione. In questi giorni sono stati presentati alcuni esposti alla Procura della Repubblica (solo Antigone ne ha già depositai tre, in diversi penitenziari del paese) che dovrà accertare cosa è successo nel carcere casertano.

La tensione nel frattempo, anche quella della polizia penitenziaria, si trasforma di continuo in atti di forza, soprattutto quando non si hanno direttive per fronteggiare la crisi. Il virus viaggia velocemente e la direzione sanitaria cerca di stargli dietro. È tuttavia difficile, perché i detenuti sono tanti e in alcune sezioni sono ammassati in clamoroso sovrannumero. Oggi i contagi nel carcere di Santa Maria sono arrivati a quattro e un intero piano di una sezione è stato isolato.

Se il sistema sta svelando un’altra falla, dopo gli ospedali e le case di cura, è anche vero che esiste una differenza tra il carcere e gli altri ambienti. Nei nosocomi e nelle RSA, finanche in alcune fabbriche (tutto pur di non interrompere le linee di produzione) si stanno predisponendo – dopo centinaia di morti tra pazienti, medici, infermieri e vigili del fuoco – misure di sicurezza per arginare il contagio. Nelle carceri si guarda il sistema implodere senza prendere alcuna decisione. La mattanza di Santa Maria ne è la dimostrazione e poiché il carcere è uno spazio di guerra, la possibilità di usare in ogni momento delle strategie per indebolire o neutralizzare una delle parti è all’ordine del giorno.

“Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo (Mc 15,16-20)”. Adesso è necessario monitorare le persone che sono ancora recluse, per evitare che il massacro continui. (luigi romano)

Fonte:

https://napolimonitor.it/il-carcere-di-santa-maria-capua-vetere-e-la-mattanza-della-settimana-santa/?fbclid=IwAR1okhjICUkXQ-OZc4QQ4g7V545OoGmdumNlTY1cqiGVxu9XmhDmaIaYkcE

Cella zero, 22 agenti indagati per i pestaggi nel carcere di Poggioreale

carcere

A Gennaio 2014 Fanpage.it, in un servizio esclusivo, raccoglie la testimonianza di un ex detenuto che apre lo squarcio decisivo sull’orrore della “cella zero” del carcere di Poggioreale. Ma le denunce – scopriamo –  erano già 40, ed erano tra le mani della Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco. Pareti sporche di sangue, maltrattamenti, percosse, timpani perforati a suon schiaffi e pugni. “Erano le dieci e mezza di sera. All’improvviso, senza motivo sono stato portato giù nella cella zero: le guardie mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno picchiato, mi hanno umiliato”: così iniziava l’intervista realizzata dal nostro giornale, che raccontava l’esistenza di una “cella zero” e di indicibili violenze. Una Abu Ghraib napoletana.

Una lunga battaglia contro le violenze in carcere

Ma erano anni che si parlava di una cella degli orrori. Il primo a denunciarne l’esistenza, nel 2012, è stato Pietro Ioia, attivista per i diritti dei detenuti, presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani, che contro i maltrattamenti nel carcere napoletano ha ingaggiato una lunga battaglia. Sempre nel 2012, dopo la denuncia di Ioia, l’associazione “Il carcere Possibile”, guidata a quei tempi dall’avvocato Riccardo Polidoro, presentò un esposto in Procura a Napoli. Nel 2014, a seguito del servizio e della conseguente bufera mediatica, fu aperta un’altra inchiesta condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, che accorpò anche la precedente. Poi seguì una visita della Commissione Libertà Civili del Parlamento europeo e la direttrice, Teresa Abate, fu sollevata dall’incarico e trasferita in un’altra sede. Anche l’associazione Antigone Campania e i Radicali ebbero parole dure per quella modalità di gestione del carcere, improntata sulla violenza. L’esistenza della cella espressamente “adibita” ai pestaggi non sembra aver trovato ancora riscontri specifici nell’attività investigativa, ma ci sono 22 agenti indagati e un medico per lesioni e abuso di mezzi di correzione nei confronti dei detenuti.

L’inchiesta della Procura di Napoli

L’inchiesta della Procura di Napoli, condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, è molto complessa ma stamattina sono arrivati i 23 avvisi di conclusione delle indagini: ora bisognerà capire se per gli indagati si deciderà il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Al di là della verità giudiziaria, che emergerà, c’è quella raccontata, vissuta, incisa sulla pelle degli ex detenuti. “Dopo le denunce, con il nuovo direttore non arrivano più notizie di pestaggi e violenze sui detenuti – racconta Pietro Ioia – E’ un risultato straordinario. Io per primo ho subito tante volte violenze all’interno di quel carcere. Anche per futili motivi, come nel 1995: mi pestarono a sangue perché avevo un mazzetto di carte in cella, con il quale passavo il tempo. Una volta, negli anni Ottanta, sono stato anche incappucciato e minacciato con un cappio”. Ma Ioia non era certo un’eccezione: “Negli anni ho visto centinaia di detenuti con i timpani spaccati e gli ematomi sul corpo”.  Tanto è stato fatto, dopo la bufera, ma tanto resta ancora da fare: “Per trent’anni c’era una squadretta, un gruppo fisso di persone – racconta – Da quello che so, le guardie indagate non hanno più contatti con i detenuti”. Se ci sarà un processo, annuncia Ioia, l’associazione degli ex detenuti napoletani si costituirà parte civile: “Oggi è un’ulteriore conferma che ho sempre detto la verità, nonostante i tanti attacchi ricevuti per questo”.

Il carcere di Poggioreale sta lentamente cambiando

Dopo lo scandalo, il direttore del carcere di Poggioreale, da due anni, è Antonio Fullone: dagli ambienti penitenziari trapela una relativa serenità rispetto a quanto sta accadendo, si era preparati all’eventualità di uno sviluppo delle indagini in questo senso e negli anni si è cercato di rasserenare il clima tra guardie penitenziarie e detenuti, seppur in un contesto complicatissimo – sovraffollamento, inclinazione alla violenza, condizioni a volte fatiscenti del carcere – e ora un primo risultato raggiunto sembra essere una complessiva diversità relazionale. Contestualmente, ci sono stati alcuni cambiamenti all’interno della casa circondariale che – ricordiamo –  tra il 2013 e il 2014 è stata nell’occhio del ciclone e sotto i riflettori dell’Europa, pietra dello scandalo per la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Si è avviata la ristrutturazione di alcuni padiglioni, avviate alcune azioni di manutenzione straordinaria, sono state raddoppiate le ore di passeggio, si stanno introducendo varie attività e si stanno sperimentando le celle aperte, almeno in una parte dell’istituto di pena. Ma tanto resta ancora da fare: basti pensare che Poggioreale è di nuovo sovraffollato, e quest’anno ha toccato e superato più volte la soglia dei 2mila detenuti. Sul versante della violenza, dagli ambienti penitenziari c’è chi pone l’accento sul lavoro psicologico e di accompagnamento che si sta facendo, un cambiamento culturale assolutamente necessario. ( Gaia Bozza da Fanpage )

Poggioreale/Antigone. “Bene si faccia chiarezza. Se le denunce fossero provate, ancora una volta mancherebbe il reato di tortura”

Si è chiusa oggi l’inchiesta sulle violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Poggioreale – e in particolare nella cosiddetta “cella zero” – tra il 2012 e il 2014. A denunciarle furono alcuni detenuti che, direttamente, avrebbero subito tali violenze per le quali oggi 23 persone (22 agenti di polizia penitenziaria e un medico) risultano indagate.

La cella zero sarebbe una stanza vuota, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti.

I reati ipotizzati a vario titolo dalla Procura di Napoli – che segue l’inchiesta – vanno dal sequestro di persona, all’abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni, violenza privata.

“Ogni tentativo di fare chiarezza è sempre importante, soprattutto nei casi di violenze che avvengono quando un cittadino è sottoposto all’affidamento dello Stato” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Quello che ci auguriamo è che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili”.

“In episodi come quelli denunciati nel carcere di Poggioreale, infatti, il rischio di prescrizione, proprio nei casi di colpevolezza, è sempre molto alto poiché spesso le denunce avvengono molto tempo dopo i fatti, anche per paura di eventuali ritorsioni finché si è sottoposti a custodia” prosegue Gonnella che sottolinea come, dai primi casi che emergerebbero da queste denunce, sarebbero già passati 4 anni.

“Purtroppo, se i fatti denunciati corrispondessero a realtà, dovremo constatare ancora una volta come in Italia manchi il reato di tortura poiché, soprattutto le violenze che sarebbero avvenute nella cella zero, questo sono”. “Reato di tortura – sottolinea ancora il presidente di Antigone – che eviterebbe anche il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità”.

“Per tale ragione – conclude Gonnella – chiediamo che non si perda ulteriormente tempo e a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile”.

Un ulteriore elemento riguarda la questione dell’isolamento.

“Benché la cella zero, se fosse riconosciute le accuse, rappresenterebbe un luogo che va al di là di ogni regolamento – sottolinea ancora Gonnella – l’isolamento è un particolare regime dove, più facilmente, possono avvenire violenze. Rappresenta inoltre una soluzione particolarmente afflittiva che spesso porta i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi”. “Per questa ragione – conclude Gonnella – abbiamo da poco presentato una proposta di legge, invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato di farla loro, per una riforma profonda di questo regime”.

La proposta di legge di riforma dell’isolamento e alcuni degli episodi avventui in questi reparti nel corso degli anni.

 

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Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/cella-zero-22-agenti-indagati-pestaggi-nel-carcere-poggioreale/