LA LUNGA NOTTE DELLA CAPITANA CAROLA RACKETE. MOBILITAZIONE A ROMA.

Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3, a bordo della nave, il 27 giugno 2019. (Till Moritz Egen, Sea Watch)

La lunga notte della comandante 

“Idda si è messa in mente cose. Idda non è italiana, vero? Dicono che Idda vuole comandare. Ma io mi chiedo perché non li ha portati a Malta questi migranti”. Francesco avrà sessant’anni, fa l’autista per i turisti a Lampedusa e non si dà pace al pensiero che una donna si sia messa alla guida di una nave per condurla nel porto della sua isola. Ma è anche convinto che “Idda” porterà a termine quello che ha promesso. “Devono sbarcare prima o poi, stanotte o domani. Sbarcheranno”, assicura.

Al di là della banchina, al di là delle barchette turistiche in fila sul molo, al di là dei frangiflutti, c’è la nave umanitaria che batte bandiera olandese. È ferma dal mattino a un miglio dalla costa, all’entrata del porto. Si è spostata di parecchie miglia nelle ultime ore, non è in fonda, sembra come in balia della corrente. A qualche metro di distanza, una nave militare della guardia di finanza la sorveglia. Gli agenti hanno consegnato a Carola Rackete un avviso di garanzia.

Le accuse contro di lei sono favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione del codice della navigazione per non aver rispettato l’alt imposto dalla guardia di finanza il 26 giugno. “Idda”, come la chiama Francesco, è la comandate della SeaWatch 3 e sembra determinata a portare a terra i quaranta migranti che da diciassette giorni sono bloccati a bordo dell’imbarcazione che li ha soccorsi al largo della Libia per effetto del decreto sicurezza bis voluto dal ministro dell’interno Matteo Salvini.

Così all’una e mezza di notte, Rackete si mette al timone e decide di fare l’ultimo miglio, come aveva detto da giorni, se le autorità non fossero intervenute. “Abbiamo dichiarato lo stato di emergenza da sessanta ore, nessuno ci ha ascoltato, nessuno si è preso la responsabilità, ancora una volta sta a noi portare queste quaranta persone in salvo”, scrive su Twitter, poi comincia la manovra di avvicinamento al porto.

Le luci di Lampedusa si avvicinano. Punta la prua verso il molo e procede a una velocità molto bassa. La nave militare che ha il compito di sorvegliarla non è impreparata, intima l’alt come aveva fatto qualche giorno prima, ma la comandante tira dritto. Allora i militari le sbarrano la strada, senza riuscire a fermarla. La SeaWatch 3 entra lentamente nel porto commerciale. Sembra una piattaforma di luci che emerge dal buio della notte. La guardia di finanza fa cenno di accostare alla banchina. Nella manovra le due navi si urtano.

L’arresto
A terra c’è trambusto, tutti quelli che sono ancora svegli sull’isola corrono al molo. C’è Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa da poco diventato europarlamentare, c’è l’ex sindaca Giusi Nicolini, c’è il parroco don Carmelo, ci sono gli attivisti del Forum Lampedusa solidale, ci sono i valdesi di Mediterranean Hope e ci sono i turisti con gli smartphone alzati, i giornalisti e le telecamere. Se l’aspettavano tutti che “Idda” sarebbe alla fine arrivata a terra, che altri giorni non si potevano aspettare. C’era il rischio che qualcuno si buttasse in mare, vedendo l’isola così vicina e così incomprensibilmente inaccessibile. La nave tocca la banchina, sul molo scoppia un applauso, le persone si abbracciano.

“Ce l’abbiamo fatta”, dicono gli attivisti che per giorni hanno dormito sul sagrato della chiesa avvolti con coperte termiche per chiedere lo sbarco dei naufraghi. Il parroco grida: “Buon Natale, buon Natale”. Carola Rackete si affaccia dal ponte, alza le braccia al cielo per qualche minuto, poi torna all’interno del ponte di comando. È in quel momento, mentre in molti sono emozionati che si alzano le urla dell’ex senatrice della Lega Angela Maraventano. “Non li fate scendere, fanno commercio di carne umana, assassini, andatevene a casa vostra. Se scendono ci scappa il morto”, strilla Maraventano e dietro a lei un gruppo di persone che da giorni presidia il molo con lo striscione “Porti chiusi”.

A un’ora dall’attracco un lungo schieramento di polizia e agenti della guardia di finanza presidiano la nave, alcuni salgono a bordo, fino al ponte di comando e poco dopo ne escono portandosi via Carola Rackete, la comandante. La donna ha un’espressione austera, regale. La bloccano, prima che salga sulla macchina della guardia di finanza, guarda per terra. Sembra serena. Partono gli applausi, cominciano anche i fischi. Un gruppo di leghisti le urlano: “Zingara, vattene, mettitici ‘e manette”. Altri in siciliano le augurano lo stupro. “Le mogli vi devono stuprare questi clandestini”. Carola Rackete si infila in macchina e sparisce dietro le spalle di un poliziotto per riapparire dietro al finestrino, sempre assorta nei suoi pensieri.

“Ho provato un’emozione straordinaria”, si commuove Lillo Maggiore del Forum Lampedusa Solidale. “La cosa più straziante è stata vedere la comandante farsi arrestare per l’umanità”. Don Carmelo vorrebbe che i migranti fossero fatti scendere il prima possibile e invece dovrà aspettare l’alba prima di vedere il primo ragazzo mettere piede a terra: “È una storia che è durata fin troppo” e ora bisogna avere fiducia “che le autorità sappiano comprendere lo stato di necessità nella quale si è trovata la comandante”.

Ma le accuse a carico di Rackete sono gravi: c’è la violazione del codice della navigazione, “resistenza o violenza contro nave da guerra”. Saranno i magistrati a dover confermare i capi di imputazione. Su Rackete è aperta anche un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Se le accuse dovessero essere confermate, la comandante rischia pene sono molto severe: da tre a dieci anni di carcere per resistenza a nave da guerra, da cinque a quindici anni di reclusione e una multa di 15mila euro per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

La comandante è trasferita nella caserma della guardia di finanza, poi all’hotspot per essere identificata e lasciare le impronte digitali. Dopo aver concluso tutti passaggi formali, Rackete esce dall’hotspot e incontra tutti i migranti, che nel frattempo sono stati portati nel centro di Contrada Imbriacola. I ragazzi, quando la vedono scortata dagli agenti, la salutano, battono le mani.

È l’alba, le case dei pescatori intorno alla spiaggia riflettono una luce rosa. Tutti sono scesi dalla nave e a poco a poco sono portati nell’hotspot con degli autobus. Scendono anche i cinque parlamentari – Riccardo Magi, Nicola Fratoianni, Graziano Delrio, Matteo Orfini e Davide Faraone – che avevano deciso di non lasciare la nave fino all’attracco. “Non dovrebbe succedere che dopo un soccorso le persone siano trattenute per così tanto tempo su una nave”, dice l’ex ministro dei trasporti Delrio, visibilmente provato dalle lunghe ore a bordo. “Queste non sono politiche migratorie, non ci si può confrontare in questo modo sulla vita delle persone”.

Matteo Orfini del Partito democratico è ancora più duro: “Resta la vergogna di aver tenuto per giorni senza alcuna ragione 42 persone su questa nave. La comandante ha svolto un lavoro difficilissimo in un momento di enorme tensione”. Per Magi l’imputazione di tentato naufragio è un’assurdità: “Mentre la SeaWatch aveva cominciato la manovra di attracco la motovedetta si è posizionata lungo la banchina, spostandosi via via per chiudere lo spazio”.

Il piazzale del molo commerciale lentamente si svuota, due soccorritrici ancora bordo si abbracciano. Una delle due scoppia in lacrime: “Come europei dovremmo vergognarci di quello che è successo in questi giorni, noi siamo stati costretti a fare quello che i governi non vogliono più fare”, dice Heidi Steder, un’olandese di 29 anni. “La nostra comandante è stata dipinta come una criminale per aver fatto il suo dovere e avere difeso la legge e ora invece dovrà subire un processo”. Dal porto sale un odore forte di gasolio e salsedine, i pescatori stanno tornando dalla pesca notturna, qualche anziano è sceso in strada e siede sui muretti del porto, le strade sono deserte. Il piazzale è diventato improvvisamente silenzioso, dopo il trambusto della notte, la nave sembra fluttuare sulla superficie del mare. È una visione rassicurante, ma eterea. Per “Idda” è cominciato il giorno più lungo: la procura di Agrigento ha disposto gli arresti domiciliari in attesa che si svolga il processo per direttissima.

Fonte:
*

Free Carola: mobilitazione permanente

Dopo 17 giorni in mare, Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, ha attraccato e portato in salvo i migranti soccorsi.

 

La rete Restiamo Umani e Mediterranea Saving Humans lancia per oggi (sabato 29 giugno) un presidio a Piazza dell’Esquilino alle ore 20.

 

Di seguito il testo di convocazione:

Rivolgiamo un appello a tutta la società civile e democratica di questa città, ai cittadini e alle cittadine, alle associazioni, al mondo della cultura e dello spettacolo, alla stampa, alle forze politiche e sindacali, a partecipare al presidio di solidarietà contro l’arresto della capitana della Sea Watch Carola Rackete, che si terrà questa sera a partire dalle ore 20 presso piazza dell’Esquilino.

E’ in corso un attacco senza precedenti da parte di questo Governo alle libertà fondamentali delle persone, al diritto alla solidarietà e alla cooperazione. Finalmente tiriamo un sospiro di sollievo per lo sbarco dei 40 migranti, ma rimaniamo sconcertati di fronte all’arresto immediato della Comandante, entrata in porto a Lampedusa sospinta dallo stato di necessità.

Le accuse formulate sono pesantissime e sembrano essere dettate unicamente da ragioni politiche. La chiusura dei porti è la causa del crescere del razzismo e dell’incomprensione. Difendiamo i diritti dei migranti, il diritto alla solidarietà!

Costruiamo tutt* insieme una piazza colorata e attraversata da molteplici voci che sappia dare una risposta di civiltà a questa barbarie e gridare con forza il nostro no al razzismo e alla discriminazione.

Vogliamo il rilascio immediato di Carola, la libertà di movimento per tutt* i/le migranti che sbarcano in Italia, il dissequestro immediato della nave Mare Jonio e il ritiro del Decreto Sicurezza Bis!

MOBILITAZIONE PERMANENTE

 

Fonte:

https://www.dinamopress.it/news/free-carola-mobilitazione-permanente/

Migranti, la fake news su Josepha: “Ma quale naufragio, ha lo smalto”. Non è vero, giornalisti a bordo spiegano perché

Migranti, la fake news su Josepha: “Ma quale naufragio, ha lo smalto”. Non è vero, giornalisti a bordo spiegano perché
In Rete sono centinaia i post pieni di odio all’indirizzo della migrante camerunense, salvata dalla ong Open Arms, corredati dalla sua foto con smalto rosso e braccialetti: “È un’attrice”. Ma Annalisa Camilli di Internazionale, che era sulla nave, spiega: “Applicato dalle volontarie di Open Arms per distrarla e farla parlare. Non lo aveva quando è stata soccorsa, serve dirlo?”
“Una naufraga con lo smalto”. Eccola, l’ultima fake news diventata virale sul web. Involontaria protagonista è Josepha, la naufraga salvata dalla ong Open Arms dopo 48 ore trascorse alla deriva in mare, aggrappata a un pezzo di legno. In Rete sono centinaia i post pieni di odio all’indirizzo della migrante camerunense, corredati dalla sua foto con smalto rosso e braccialetti. Da lì la montatura virale: “È un’attrice”, “Non c’è stato alcun naufragio”. Una montatura che acquista toni che vanno oltre le fake news, venati di razzismo.“Scappa dalla guerra ma si è pitturata le unghie. Inoltre le mani non hanno l’aspetto spugnoso tipico di chi resta in acqua per ore”, discetta un account su Twitter. La fake news corre tra un post e l’altro, tra un social e l’altro, si colora di complottismo. “Si è rifatta le unghie tra un naufragio e l’altro”, scrive qualcuno. “Funziona come Cocoon, dopo 48 ore in acqua sei più bella”, postano altri con cinismo.

La verità dietro quello scatto, la racconta Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale che era a bordo dell’Open Arms quando hanno soccorso Josepha: “Ha le unghie laccate perché nei quattro giorni di navigazione per raggiungere la Spagna le volontarie di Open Arms le hanno messo lo smalto per distrarla e farla parlare. Non aveva smalto quando è stata soccorsa, serve dirlo?”.

A riprova – e incredibilmente ce n’è bisogno – la foto del salvataggio della donna dove chiaramente non ha smalto, né braccialetti. Ma neanche questo placa l’odio in rete. “Sulla nave Open Arms ci si diletta con lo smalto”, ironizza qualcuno e subito sotto accusa finiscono i volontari di Open Arms ‘colpevoli’ di avere lo smalto a bordo e di aver regalato un attimo di umanità, di normalità e anche di legittima vanità alla migrante.

di | 23 luglio 2018
Fonte:

I libici ci hanno picchiato, parla la donna sopravvissuta

La donna salvata e la dottoressa Giovanna Scaccabarozzi sulla Open Arms, il 17 luglio 2018. (Annalisa Camilli)

Questo articolo fa parte della serie Cronache dal Mediterraneo, il diario di Annalisa Camilli sulla nave impegnata nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo.

Josefa ha occhi enormi, allungati e larghi. Mi guarda aprendo le palpebre lentamente. È sdraiata sul ponte della Open Arms. L’equipaggio ha messo dei giubbotti di salvataggio sotto alla sua schiena e l’ha coperta con dei teli termici che sembrano d’argento e d’oro. Il suo viso è sofferente, apre gli occhi per chiedere aiuto, li sgrana. Poi torna a chiudere le palpebre come per riposare.

“Sono del Camerun, sono scappata dal mio paese perché mio marito mi picchiava. Mi picchiava perché non potevo avere figli”, racconta Josefa (non Josephine, come si era detto inizialmente) con un filo di voce in un francese dolce. Si tocca la pancia. “Non potevo avere figli”, ripete. Ha il corpo robusto e le mani piccole ancora raggrinzite per essere stata in acqua tutta la notte.

Non riesce quasi a parlare, due occhiaie profonde le scavano gli occhi, le sue pupille sono di un nero intenso. Alza il braccio per salutarmi, poi mi stringe la mano. È ancora fredda, sembra che abbia i brividi. Giovanna Scaccabarozzi, la dottoressa italiana di Open Arms che da stamattina si sta prendendo cura di lei, dice che ora è fuori pericolo, ma è ancora sotto shock. Trema, non si riesce a tranquillizzare, sembra stanchissima.

Non si ricorda nulla di cosa è successo e ha un unico timore. Non vuole essere portata in Libia

Una flebo di soluzione fisiologica è appesa sul palo del ponte della nave: goccia a goccia entra nelle vene di Josefa per reidratarla. “Siamo stati in mare due giorni e due notti”, racconta. Non si ricorda da dove sono partiti e non sa dove sono i suoi compagni di viaggio. “Sono arrivati i poliziotti libici”, dice. “E hanno cominciato a picchiarci”.

Non si ricorda nulla di cosa è successo dopo e ha un unico timore. Non vuole essere portata in Libia. “Pas Libye, pas Libye”, ripete come in una preghiera, una litania sussurrata con un filo di voce. “Pas Libye”. Per tranquillizzarla i volontari le dicono che ora è al sicuro, che presto arriverà in Europa.

A turno vengono vicino a lei sul ponte per passarle un fazzoletto bagnato sulla fronte: ha i capelli pieni di una polvere bianca, forse un per un periodo è stata rinchiusa in un carcere senza potersi lavare. “Se avessimo tardato ancora qualche ora sarebbe morta anche lei”, afferma la dottoressa italiana originaria di Lecco che stamattina l’ha accolta sul ponte della nave spagnola e le ha diagnosticato una grave ipotermia.

“Ha una forza incredibile che l’ha fatta recuperare rapidamente”, spiega Giovanna Scaccabarozzi, che insieme a Marina Buzzetti fa parte dell’équipe medica che a bordo della Open Arms ha accudito Josefa dal primo momento. “Abbiamo fatto delle manovre di riscaldamento e la stiamo idratando”. Alle due dottoresse è toccato anche il compito di fare il referto medico sui due cadaveri recuperati. Uno è di un bambino che ha un’età stimata tra i tre e i cinque anni. “Il bambino era tutto nudo, non sappiamo se abbia un legame di parentela con le due donne”, racconta Scaccabarozzi.

Momenti decisivi
“È morto di ipotermia, poco prima che arrivassimo”, conferma il medico. Questa è la notizia più dura da accettare per tutta la squadra di volontari che da anni dedica le proprie vacanze e i momenti liberi dal lavoro per soccorrere chi rischia di perdere la vita in mezzo al mare. “Arrivare anche solo un’ora prima avrebbe potuto fare la differenza”, questa consapevolezza tormenta i volontari.

La nave Open Arms chiede di poter sbarcare Josefa e i corpi del bambino e della donna senza nome. “Abbiamo dovuto chiamare la Spagna, il nostro stato di bandiera, poi abbiamo chiamato i libici, quindi gli italiani”, spiega Marc Reig, comandante della Open Arms. Tutto è bloccato in una serie di polemiche e di rimpalli infiniti, le stesse polemiche e gli stessi ritardi che hanno decretato la morte di un bambino senza nome che ora giace in un sacco bianco a prua.

Giovanna Scaccabarozzi passa ancora una pezza bagnata sulla fronte di Josefa, che sussurra “Merci”. Grazie. Poi alza il braccio e la saluta, come una bambina al suo primo giorno di scuola. Sul braccio ha i segni di una bruciatura. Non oso chiederle chi o cosa le ha lasciato questo segno. Dice di avere dolore dappertutto.

Dall’inizio del mondo, almeno da quando si racconta la storia di Antigone e Creonte, la legge degli uomini si contrappone a quella dei potenti e sceglie il corpo e la voce di una donna per dire che il potere non potrà mai cancellare la legge naturale, quella che ha a che fare con la vita e la morte, con la malattia e la sepoltura. Josefa ha occhi grandi e una voce flebile, dalla pezza sulla fronte le spunta una ciocca di capelli ricci e bianchi. Ha quarant’anni.

Leggi anche:

A IDOMENI UNA CRISI UMANITARIA E’ AFFRONTATA CON LE RUSPE

 

 

 

 

Fonte:

 

http://www.internazionale.it/opinione/annalisa-camilli/2016/05/25/idomeni-profughi-sgombero