Yulia Tsvetkova, l’artista e attivista russa che rischia 6 anni di galera per i suoi disegni della vagina. La mobilitazione per fermare il processo

10 Luglio 2020

Yulia Tsvetkova è un’artista e un’attivista russa impegnata nella difesa dei diritti delle donne e Lgbt. Il suo lavoro ha provocato cambiamenti positivi nelle discussioni sulla body positivity (il movimento che vuole trasmettere un messaggio ottimista nei confronti del proprio corpo) e sugli stereotipi di genere. Eppure questo successo l’ha resa un bersaglio.

Il 9 giugno scorso Tsvetkova è stata accusata di “produzione e diffusione di materiale pornografico” per aver pubblicato, nel 2018, sul social network russo VKontakte alcuni disegni stilizzati di vagine per promuovere una campagna sulla body positivity nella pagina del suo gruppo “Monologhi della vagina”, che prende il nome dal titolo dell’opera teatrale di Eve Ensler e che si pone come obiettivo celebrare il corpo femminile e protestare contro i tabù che lo circondano.

Se condannata, la donna rischia sei anni di carcere.

Residente a Komsomolsk-on-Amur, una cittadina della Russa orientale, in un’area della Siberia che ospitava i gulag, il 22 novembre 2019 Tsvetkova è stata messa agli arresti domiciliari revocati quattro mesi dopo, il 16 marzo 2020, ed è tuttora sottoposta a severe restrizioni di viaggio.

Da quando le autorità l’hanno pesa di mira la 27enne non può più esercitare le sue attività.

A marzo dello scorso anno è stata infatti costretta a cancellare il Festival delle arti della gioventù da lei curato perché la polizia lo ha ritenuto un gay pride camuffato.

In Russia la “propaganda omosessuale” viene punita in base a una legge controversa entrata in vigore nel 2013 e condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2017 perché omofoba.

In un’intervista telefonica rilasciata alla CNN, Tsvetkova ha raccontato che i problemi con la polizia sono cominciati all’inizio del 2019, quando ha portato in scena, con la compagnia teatrale Merak da lei diretta, due spettacoli che affrontavano temi particolarmente scottanti per le autorità: gli stereotipi di genere e il militarismo.

«Non so quale sia stato lo spettacolo peggiore per loro, se quello sul genere, che non capiscono e di cui hanno paura, o l’altro, che era piuttosto politico, molto acuto. Immagino sia stata la combinazione di entrambi», ha detto.

Da quel momento la donna è stata convocata alla stazione di polizia periodicamente. All’inizio ogni settimana, poi ogni due settimane, per essere interrogata sui suoi disegni, una serie di vignette sulle donne accompagnate da didascalie come “Le donne vere hanno i peli sui propri corpi ed è normale” o “Le donne vere hanno i muscoli ed è normale”.

A novembre dello scorso anno la polizia ha perquisito la sua abitazione, sequestrando materiale informatico e documenti.

«Mi hanno fatto molte domande e poi hanno trovato il mio lavoro su Internet e hanno capito in che modo poter costruire il caso», ha dichiarato. «È uno schema abbastanza comune: la polizia va alla ricerca di un reato che può trovare nel lavoro dell’attivista e poi apre il caso».

A causa di un disegno raffigurante due famiglie dello stesso sesso con bambini, accompagnato dalla didascalia “La famiglia è dove c’è amore. Sostieni le famiglie Lgbt!”, a gennaio 2020 Tsvetkova è stata inoltre accusata di “propaganda omosessuale”.

Tsvetkova – che organizza conferenze per la comunità Lgbt e che tiene lezioni sull’educazione sessuale vietata nelle scuole russe – ha dichiarato di non essersi stupita per l’accusa di propaganda sessuale e per aver ricevuto una sanzione (50.000 rubli russi che corrispondono a circa 620 euro), ma di essere rimasta molto sorpresa per l’incriminazione del reato di pornografia. «So che cos’è la pornografia e non è quella», ha detto riferendosi ai suoi disegni.

L’attivista, che nel frattempo ha ricevuto e continua a ricevere minacce, non è molto ottimista sul processo: «Sto cercando di non perdere la speranza, ma in Russia solo l’1% dei casi è assolto. Questo significa che ho solo l’1% [di possibilità] di essere prosciolta».

Insignita lo scorso 17 aprile del premio Freedom of Expression 2020 nella categoria “arte” conferitole da Index on Censorship (un’organizzazione per la difesa della libertà di espressione con sede a Londra), la donna ritiene di essere stata accusata dalle autorità di diffondere materiale pornografico perché si tratta di un reato “infamante”, che può ridurre al minimo il sostegno in suo favore dell’opinione pubblica, e pensa che la “vaghezza” della legge sulla pornografia sia un buon pretesto per reprimere il suo attivismo.

 

In Russia, le autorità promuovono fortemente i valori familiari tradizionali. Non è un caso che gli emendamenti costituzionali recentemente approvati con una consultazione referendaria abbiano incluso un articolo in cui si afferma che il matrimonio è esclusivamente quello celebrato tra un uomo e una donna, vietando di fatto i matrimoni omosessuali.

Come riportato da Deutsche Welle, un recente sondaggio condotto da Levada Center, il principale istituto indipendente che si occupa di rilevazioni in Russia, ha rivelato che il 50% delle persone intervistate pensa che gli omosessuali debbano essere “liquidati” o tenuti isolati dalla società. La percentuale scende al 27% se si tratta di femministe, poiché il concetto di “femminismo” è spesso visto come appartenente all’Occidente ed estraneo alla Russia. Eppure, in passato, il paese è stato a lungo all’avanguardia nell’uguaglianza di genere, garantendo nel 1917 pari diritti alle donne e diventando nel 1920 il primo paese a legalizzare l’aborto.

Nonostante si sia aperta una caccia alle streghe, è grande il sostegno mostrato nei confronti di Yulia Tsvetkova.

Associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani come Amnesty International e la ONG russa Memorial l’hanno dichiarata prigioniera di coscienza e una petizione lanciata su change.org, in cui viene chiesto il ritiro delle accuse, ha raccolto quasi 240.000 firme.

Il 27 giugno, Giornata nazionale della gioventù in Russia, oltre cinquanta agenzie di stampa hanno organizzato lo “sciopero dei media per Yulia”, chiedendo che il procedimento giudiziario contro di lei venga fermato. Scrittori, giornalisti, attori, influencer e blogger hanno pubblicato post con l’hashtag #forYulia (#заЮлю) e #FreeJuliaTsvetkova (#СвободуЮлииЦветковой).

Durante l’ultimo fine settimana di giugno circa quaranta manifestanti sono stati arrestati a Mosca e a San Pietroburgo nel corso di una manifestazione pacifica a sostegno dell’attivista russa. A riferirlo OVD-info, un gruppo che fornisce assistenza legale alle vittime di arresti arbitrari. La maggior parte dei dimostranti sarebbe stata fermata per aver violato il regolamento sui raduni pubblici, incluso il divieto di organizzare eventi di massa introdotto nel paese a marzo scorso per bloccare la diffusione del COVID-19.

Sui social tantissime donne hanno mostrato il proprio sostegno all’attivista russa pubblicando foto in cui mostrano i propri corpi o immagini e disegni femministi o oggetti di uso quotidiano, come fiori o frutti, che sembrano vagine, accompagnate dallo slogan “il mio corpo non è pornografia”.

Di recente, l’Alto commissario dei diritti umani della Federazione Russa, Tatyana Moskalkova, ha annunciato che a seguito del grande “riscontro pubblico” sollevato dal caso intende seguirlo personalmente inviando un membro del suo staff a monitorare il processo.

Per Tsvetkova il supporto nazionale e internazionale è “incredibile” e rappresenta un’ancora di salvezza. «Mi aiuta a non sentirmi sola. L’anonimato è la cosa più spaventosa. Lo so perché ero sola all’inizio e questo significava che quando andavo alla stazione di polizia, sapevo che avrebbero potuto fare quello che volevano e nessuno lo avrebbe mai scoperto», ha detto.

L’attenzione suscitata nell’opinione pubblica ha dimostrato che l’attivismo della giovane donna russa ha colpito nel segno mostrando quanto il paese abbia bisogno di una discussione pubblica sull’uguaglianza di genere e la comunità Lgbt.

«Voglio continuare a lavorare come attivista. E il fatto di essere stata incriminata aumenta soltanto il mio desiderio di cambiare le cose e combattere le ingiustizie».

Immagine anteprima “Le donne non sono bambole”, 2018 – Yulia Tsvetkova/TAN via Ministry of Counterculture

Fonte:
https://www.valigiablu.it/yulia-tsvetkova-artista-russa-processo/
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Amnesty International lancia la campagna #IOLOCHIEDO “Il sesso senza consenso è stupro”

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Egitto, si suicida l’attivista Sarah Hegazi: arrestata per una bandiera arcobaleno

Rifugiata in Canada dopo il carcere, non è riuscita a superare il trauma delle torture e degli abusi subiti.
ROMA – Non ce l’ha fatta Sarah Hegazi, rifugiata di origine egiziana che tre anni fa ha dovuto lasciare il suo Paese e trasferirsi in Canada dopo essere stata incarcerata per il fatto di essere lesbica. Dietro le sbarre la donna aveva denunciato violenze e torture, poi una volta fuori si erano aggiunte pressioni e stigma sociale. Due giorni fa la 30enne si e’ tolta la vita, e come riferisce il quotidiano ‘Egypt today’, prima di morire ha lasciato un biglietto con su scritto: “Ho cercato di sopravvivere, ma non ce l’ho fatta”.

La donna era un’attivista per i diritti umani e della comunita’ Lgbt. Le difficolta’ per lei avevano avuto inizio nel 2017, quando era stata arrestata con l’accusa di aver esposto una bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo. A incriminare lei e un suo amico, una foto che la ritraeva sorridente mentre sventolava il simbolo della comunita’ Lgbt. La procura del Cairo accuso’ entrambi di far parte di un movimento che intendeva diffondere l’ideologia omosessuale nel Paese.

In Egitto non esiste una legge che criminalizza esplicitamente gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma queste persone possono incorrere in denunce e arresti per aver tenuto “comportamenti immorali”, giudicati come “attacchi” alla cultura tradizionale.

In carcere, Hegazi ha raccontato di aver subito torture, anche dalle altre detenute, con accuse di violenze sessuali.
Nel 2018 l’attivista era stata rilasciata ma qualche tempo dopo aveva chiesto l’asilo politico in Canada, poiche’ temeva nuovi procedimenti penali e soprattutto stava ricevendo pressioni da parte della societa’ egiziana, prevalentemente conservatrice. In Canada, pero’, la donna sarebbe caduta in uno stato depressivo.

Qualche giorno prima di togliersi la vita, Hegazi ha pubblicato una foto su Instagram accompagnata dal commento: “Il cielo e’ meglio della terra, e io voglio il cielo, non la terra”.

“I segni e il ricordo della tortura non ti lasciano in pace neanche in esilio” ha dichiarato all’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. Secondo Noury, questa e’ “un’altra storia che chiama in causa le autorita’ egiziane”.

 

Fonte:

https://www.dire.it/15-06-2020/473930-egitto-si-suicida-lattivista-sarah-hegazi-arrestata-per-una-bandiera-arcobaleno/?fbclid=IwAR3S1bdiulYBctLwJ0PF3_PYXgBvFF-gXxnY3a6_rENBl7sxct5WiGlUK4Q

LA BARCA ALEX DI MEDITERRANEA HA ATTRACCATO AL PORTO DI LAMPEDUSA

  1. Dal profilo Twitter di Mediterranea Saving Humans:
    1. Tweet fissato

    La barca a vela Alex di ha attraccato al porto di Lampedusa con 41 naufraghi a bordo.

  2. 42 migranti soccorsi e l’equipaggio del veliero sono allo stremo delle forze. Richiediamo lo sbarco

  3. L’imbarcazione è stata trasferita al Molo Favaloro di per consentire rifornimenti acqua a bordo e approdo traghetto turistico.

  4. 🔴 è da più due ore ormeggiata al molo Commerciale di : incredibilmente non sono state ancora attivate le procedure di sbarco. La gente a bordo sta male. Qualcuno da Roma intende gestire un ?

  5. Il veliero Alex approda a Lampedusa: il pianto liberatorio di un migrante

  6. Gentile ministro Salvini, lei può rivendicare sanzioni contro chi infrange leggi, ma mi permetta fantozzianamente di rilevare con il massimo rispeto che impedire lo sbarco di 45 passeggeri di una barca di diciotto metri è un’assurdità. Lei sta perdendo la testa

  7. Mediterranea Saving Humans ha ritwittato Mauro Biani

    Mediterranea Saving Humans ha aggiunto,

  8. Naufraghi ed equipaggio sono stremati. Le 41 persone salvate hanno bisogno di essere soccorse e curate. Stiamo vivendo una situazione surreale ed è un’inutile crudeltà prolungare l’attesa. , subito.

  9. 🔴 Alex è entrata in porto per stato di necessità. Ora i naufraghi soccorsi vengano fatti sbarcare subito e curati.

  10. 🎙️ Alessandra Sciurba da Lampedusa: “Non avevamo altra scelta. Siamo stremati ma felici di aver portato in salvo queste persone”.

  11. La Alex ha attraccato nel porto a

 

Fonte:

https://twitter.com/RescueMed?lang=it

L’OMICIDIO DI MARIELLE FRANCO RISVEGLIA LA SOCIETA’ BRASILIANA

Marielle Franco durante un’intervista a Rio de Janeiro, il 9 gennaio 2018. (Ellis Rua, Ap/Ansa)

SIRIA: LA COALIZIONE A GUIDA USA HA USATO FOSFORO BIANCO

Siria: la coalizione a guida Usa ha usato fosforo bianco

16 giugno 2017

Siria, Amnesty International conferma: la coalizione a guida usa ha usato fosforo bianco. Possibile crimine di guerra

Amnesty International ha confermato che l’impiego, da parte della coalizione a guida statunitense, di munizioni al fosforo bianco nella zona di al-Raqqa, in Siria, è stato illegale e può costituire crimine di guerra.

L’organizzazione per i diritti umani ha esaminato cinque video, pubblicati in rete l’8 e il 9 giugno, in cui si vede l’artiglieria della coalizione lanciare munizioni al fosforo bianco contro le zone di Jezra ed el-Sebahiya.

Il fosforo bianco è prevalentemente usato per creare una densa cortina fumogena per rendere invisibili al nemico i movimenti delle truppe e per indicare gli obiettivi dei successivi attacchi. In casi del genere, il suo uso non è vietato anche se è richiesta estrema cautela, mentre è assolutamente vietato nelle vicinanze di insediamenti di civili.

L’uso di munizioni al fosforo bianco da parte della coalizione a guida Usa mette gravemente in pericolo la vita di migliaia di civili intrappolati ad al-Raqqa e nei dintorni della città e può costituire un crimine di guerra. Può provocare terribili ferite bruciando la pelle e le ossa e può riattivarsi riprendendo fuoco a distanza di settimane“, ha dichiarato Samah Hadid, direttrice delle campagne sul Medio Oriente di Amnesty International.

Le forze sotto il comando degli Usa devono immediatamente indagare sugli attacchi contro Jezra ed el-Sebahiya e prendere tutte le misure possibili per proteggere i civili. L’uso di fosforo bianco in zone densamente abitate determina un rischio inaccettabilmente alto per i civili e quasi sempre rappresenta un attacco indiscriminato“, ha continuato Hadid.

Amnesty International ha verificato, anche attraverso riscontri incrociati, cinque video pubblicati in rete l’8 e il 9 giugno 2017. Le immagini mostrano chiaramente, da diverse angolature, il lancio di munizioni al fosforo bianco e la loro caduta incendiaria sugli edifici. Il ripetuto impiego del fosforo bianco in circostanze in cui è probabile che le parti incendiarie vengano a contatto con i civili viola il diritto internazionale umanitario.

Secondo l’analisi di Amnesty International, le munizioni al fosforo bianco dovrebbero con ogni probabilità essere degli M825A1 da 155 millimetri di fabbricazione statunitense.

Secondo il gruppo locale di monitoraggio “Raqqa viene massacrata nel silenzio” e altre fonti locali, in uno degli attacchi sono stati uccisi almeno 14 civili. Nelle zone oggetto dell’attacco erano presenti anche molti profughi provenienti dai quartieri occidentali di al-Raqqa. I combattimenti si sono intensificati con l’inizio dell’offensiva delle Forze democratiche siriane, sostenute dalla coalizione a guida Usa, destinata a strappare la città allo Stato islamico. I civili intrappolati in città e nei suoi dintorni sono centinaia di migliaia.

Amnesty International sta monitorando la condotta di tutte le parti coinvolte nel conflitto di al-Raqqa, le quali hanno l’obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario e le norme applicabili in quel contesto del diritto internazionale dei diritti umani.

La protezione delle forze militari non può prendere il sopravvento sulla protezione dei civili. La coalizione a guida Usa e le Forze democratiche siriane devono evitare l’uso di armi esplosive di grande impatto e di armi imprecise contro le zone popolate e devono assumere tutte le misure possibili per proteggere la popolazione civile”, ha sottolineato Hadid.

Fosforo bianco usato anche a Mosul

Anche se non si è ancora espressa su al-Raqqa, la coalizione a guida Usa ha confermato il recente uso di fosforo bianco a Mosul, a suo dire per creare una cortina fumogena che favorisse la fuga dei civili dalle aree ancora sotto il controllo dello Stato islamico.

 

Fonte:

https://www.amnesty.it/siria-amnesty-international-conferma-la-coalizione-guida-usa-usato-fosforo-bianco-possibile-crimine-guerra/

SIRIA, L’ACCUSA DEGLI USA A ASSAD: “50 IMPICCAGIONI AL GIORNO E FORNI CREMATORI NEL CARCERE DI SEDNAYA”

Siria, l’accusa degli Usa ad Assad:
«50 impiccagioni al giorno e forni crematori nel carcere di Sednaya»

Il Dipartimento di Stato Usa mostra una serie di immagini satellitari che provano la costruzione di una struttura per bruciare i corpi degli oppositori detenuti e uccisi nella prigione militare. La Casa Bianca: «Siria non sicura fino a quando ci sarà Assad»

Una delle immagini diffuse dal Dipartimento di Stato che mostra a destra la costruzione adibita a forno crematorio Una delle immagini diffuse dal Dipartimento di Stato che mostra a destra la costruzione adibita a forno crematorio

«Assad sta impiccando cinquanta persone ogni giorno e usa i forni crematori per sbarazzarsi dei corpi degli oppositori uccisi». L’accusa, pesantissima, arriva dagli Stati Uniti. Il responsabile del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente Stuart Jones, durante una conferenza stampa che si è tenuta a Washington, ha spiegato di avere prove dell’esistenza di una fornace, vicino al carcere di Sednaya, la prigione militare a nord di Damasco, i cui orrori sono già stati denunciati, tra gli altri da Amnesty International il febbraio scorso in un dettagliato rapporto. E la Casa Bianca torna a lanciare un ultimatum al regime: «La Siria non sarà sicura e stabile finché Assad sarà al potere», ha detto il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer.

Secondo il Dipartimento di Stato il forno sarebbe stato utilizzato per sbarazzarsi dei corpi dei prigionieri morti. Gli americani sono in possesso di diverse immagini satellitari, presentate alla stampa, da cui si desume che una struttura all’interno della prigione militare è stata modificata trasformandola in un crematorio. Sempre secondo l’intelligence qui vengono impiccati almeno 50 detenuti ogni giorno un dato che coincide con quanto riportato da Amnesty International che parlava nel suo rapporto di 13 mila morti in 6 anni. Nella prigione si trovano migliaia di persone, detenute dal regime in sei anni di guerra civile. Il mondo, ha detto Stuart Jones, assistente segretario per gli Affari esteri del Vicino Oriente, è di fronte a «nuovi livelli di depravazione raggiunti» dal regime di Bashar Assad.

Amnesty International e molti oppositori hanno denunciato in passato gli orrori del carcere militare fatto costruire dagli Assad negli anni ‘80 e da sempre utilizzato per far sparire i dissidenti. «Quando ci dissero che saremmo andati a Sednaya cominciammo a piangere. E non smettemmo per tutto il tragitto», ha raccontato al Corriere della Sera uno dei sopravvissuti. Appena arrivati lui e i suoi compagni sono fatti denudare e picchiati duramente. Dopodiché sono loro spiegate le poche semplici regole della prigione. «Primo non puoi alzare la testa e guardare i secondini in faccia. Pena la morte. Ho visto molta gente essere uccisa così», ha aggiunto l’uomo. L´altra regola è quella del silenzio: i prigionieri non possono parlare tra loro, nemmeno sussurrare. Dopo questo «benvenuto» il testimone ha raccontato al Corriere di essere stato rinchiuso in una cella sotterranea da nove persone, grande circa due metri quadrati. Uno dormiva, e gli altri stavano in piedi. «Tutti completamente nudi uno attaccato all’altro».

Secondo quanto si legge nel rapporto di Amnesty le esecuzioni avvenivano di notte, ogni lunedì o martedì, quando nella prigione regnava il silenzio, gruppi di 50 detenuti venivano impiccati due o tre volte a settimana. Una pratica tenuta segreta e praticata tra settembre 2011 e dicembre 2015 ma che potrebbe essere tuttora in vigore. Molti prigionieri, spiegava ancora la ong, sono morti anche per le «politiche di sterminio» delle autorità, che comprendono torture ripetute, privazione del cibo, dell’acqua e delle medicine. Secondo Amnesty le esecuzioni erano state autorizzate dal governo siriano ai più alti livelli.

La rivelazione americana arriva alla vigilia della nuova tornata di colloqui negoziali sulla Siria previsti per martedì a Ginevra e che – ha detto l’inviato dell’Onu in Siria, Staffan De Mistura – procedono «in tandem» con i negoziati di Astana. Per De Mistura i colloqui di Ginevra servono a «battere il ferro finché è caldo» e a disegnare, a partire dagli accordi di Astana, un «orizzonte politico» per il paese mediorientale devastato dal conflitto civile.

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Fonte:
http://www.corriere.it/esteri/17_maggio_15/siria-l-accusa-usa-ad-assad-50-impiccagioni-giorno-forni-crematori-carcere-sednaya-59c90362-398c-11e7-8def-9f1d8d7aa055.shtml

Amnesty International, bambini Intersessuali sottoposti a interventi dolorosi e non necessari

Lo denuncia il rapporto “Primo, non ferire” che ha raccolto testimonianze di 16 persone intersessuali in Germania e Danimarca. Diritti umani e salute a rischio

Amnesty International, bambini Intersessuali sottoposti a interventi dolorosi e non necessari

Il rapporto “Primo, non ferire rilasciato qualche giorno fa da Amnesty International si basa su uno studio della realtà medica di Germania e Danimarca e sulle testimonianze di 16 persone intersessuali e 8 genitori di persone intersessuali raccolte nei due Paesi.

Fino 5 interventi non urgenti, invasivi e traumatici nel primo anno di vita

Secondo quanto documentato e denunciato dal rapporto, i bambini nati con caratteristiche sessuali che non corrispondono alle norme o alle aspettative maschili e femminili rischiano di essere sottoposti a una serie di procedure mediche e chirurgiche non necessarie, invasive e traumatiche – fino a cinque nel corso solo del primo anno di vita – in violazione dei loro diritti umani. Si tratta di interventi assolutamente non urgenti e spesso irreversibili con conseguenze a lungo termine sulla salute psicofisica e sul benessere delle persone che vi sono sottoposte, senza poter esprimere alcun parere o consenso, per la sola ragione di non corrispondere agli obsoleti stereotipi di genere.

Procedure di ‘normalizzazione’ solo per via degli stereotipi

«Queste cosiddette procedure di ‘normalizzazione’ vengono condotte senza la completa conoscenza degli effetti potenzialmente dannosi a lungo termine che producono sui bambini», ha dichiarato Laura Carter, ricercatrice di Amnesty International sull’orientamento sessuale e l’identità di genere.

«Stiamo parlando di incisioni che vengono fatte su tessuti sensibili, con conseguenze per tutta la vita, tutto a causa degli stereotipi su ciò a cui un ragazzo o una ragazza dovrebbe assomigliare. La domanda è a chi giova, perché la nostra ricerca mostra che si tratta di esperienze incredibilmente tristi».

Un rischio che cade su una percentuale di popolazione stimata a livello globale intorno all1’7%. Come quella delle persone coi capelli rossi.

Interventi chirurgici con danni permanenti e irreversibili

Sulla base delle interviste alle persone intersessuali, alle loro famiglie e ai medici professionisti in Danimarca e Germania, Amnesty ha raccolto le prove che bambini nati con variazioni delle caratteristiche sessuali sono sottoposti, spesso nei primissimi anni di vita, a procedure quali la riduzione della “clitoride allargata, con danni sensoriali, cicatrici e dolori, la vaginoplatica o chirurgia vaginale, per creare o ampliare un’apertura vaginale, la gonadectomia, con la rimozione delle gonadi, inclusi tessuti ovarici e testicolari che comporta la necessità di trattamenti ormonali a vita e l’impossibilità di concepire figli, e ad operazioni di riparazione di ipospadia per riposizionare l’uretra all’apice del pene e creare un pene funzionale considerato esteticamente normale, al prezzo di complicazioni permanenti.

La testimonianza, medici incapaci di pensare fuori dallo schema binario ‘maschio’ – ‘femmina’

Sandrao, persona intersessuale che vive in Germania, racconta di come solo due anni fa, a oltre trent’anni, abbia scoperto di aver subito l’asportazione dei testicoli a 5 anni e di aver rimosso completamente i suoi primi 11 anni di vita. «Ho avuto altre operazioni, chirurgia genitale. Non so se avevo una vagina alla nascita o è stata ricostruita. La mia uretra è in una posizione diversa, Ho visto un ginecologo nel 2014 e ha trovato un sacco di cicatrici» – Racconta – «Sapevo di essere differente, pensavo di essere una sorta di mostro, ero incapace di sviluppare un’identità di genere. Ero spinto verso il ruolo femminile, dovevo indossare camicette, avevo capelli lunghi. Era doloroso avere rapporti sessuali con gli uomini e pensavo che fosse normale».

Una condizione che nessuno gli aveva spiegato finché non decide di approfondirla: «Ho preso parte a uno studio e hanno trovato un “disordine genetico”. Ma non mi piace questa parola. Io ho una variazione». Una cosa però appare certa: «I medici non danno abbastanza informazioni ai genitori. Penso che la professione medica pensa solo al sistema binario di genere. Anziché dire che “tuo figlio è normale, e crescerà in salute”, loro dicono che c’è “qualcosa di sbagliato che può essere corretto con la chirurgia”».

Impressione confermata, a Sandrao, anche dai primi colloqui avuti con i sanitari: «Ho visto un endocrinologo. Quando l’ho incontrato la prima volta mi ha detto che dovevo decidere se essere maschio o femmina. Erano incapaci di pensare fuori dallo schema. Ma ora ha cambiato opinione. Questo è quel che mi dà il potere e la forza di combattere».

Violati diritti umani dei bambini

Un’esperienza questa che riassume il percorso di molte persone intersessuali, medicalizzate sulla semplice base di stereotipi e pregiudizi sin dai primi mesi di vita, poco o male informate da medici e familiari, costrette a subire per tutta la vita le conseguenze di scelte consumatesi sulla loro testa.

«Quando penso a quello che è accaduto, sono sconvolto, perché non si trattava di qualcosa che spettava ad altri decidere – si sarebbe potuto aspettare», ha detto H. dalla Danimarca.

Amnesty International ritiene che l’attuale approccio al trattamento dei bambini intersessuali in Danimarca e Germania non protegge i loro diritti umani, compresi quelli alla riservatezza e al più alto livello di salute raggiungibile.

Anche gli esperti delle Nazioni Unite hanno esplicitamente condannato tali pratiche, classificando interventi chirurgici inutili in bambini intersessuati come pratiche nocive e in violazione dei diritti del bambino.

Fonte:

http://www.prideonline.it/2017/05/15/amnesty-international-bambini-intersessuali-sottoposti-interventi-non-necessari/

 

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Russia, arrestati alcuni attivisti gay. Protestavano contro abusi in Cecenia verso gli omosessuali. Altre informazioni da Amnesty International

La polizia russa ha arrestato una decina di attivisti gay oggi a San Pietroburgo nel corso di una protesta contro i presunti abusi nei confronti degli omosessuali in Cecenia, denunciate da Novaya Gazeta. Lo ha constato un giornalista presente oggi a San Pietroburgo e la testata online Fontanka.ru.
Attivisti Lgbt sono allarmati dopo le notizie diffuse da Novaya Gazeta che da circa un mese pubblica una serie di reportage denunciando che la polizia cecena arresta, tortura e uccide le persone sospettate di essere omosessuali.
Fontanka.ru ha scritto che gli attivisti arrestati hanno urlato “Kadirov (il leader ceceno filo-Cremlino, ndr) all’Aia”, riferendosi alla Corte penale internazionale.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Fonte:

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Altre informazioni e un appello da Amnesty International:

Cecenia: uomini sospettati di omosessualità rapiti, torturati e uccisi

Il 1 aprile il Novaya Gazeta, quotidiano indipendente russo, ha riportato che oltre cento uomini sospettati di essere omosessuali erano stati rapiti nei giorni precedenti, nell’ambito di una campagna coordinata. A quanto si dice, gli uomini sono stati torturati o comunque maltrattati e costretti a svelare l’identità di altre persone LGBTI a loro note. Novaya Gazeta ha affermato di aver verificato le informazioni su almeno tre uomini che sono stati uccisi dai loro carcerieri, anche se affermano che in base alle loro fonti ci sono stati molti altri omicidi.

Pare che alcuni degli uomini rapiti siano stati riconsegnati alle loro famiglie, probabilmente perché i loro rapitori non hanno confermato il loro orientamento sessuale, ma essi rimangono in grave pericolo a causa dell’intolleranza omofobica locale. Membri dell’Ong Russian LGBTI network hanno confermato queste informazioni e hanno creato una linea telefonica diretta per offrire aiuto a coloro che potrebbero star cercando protezione al di fuori della regione.

Le reazioni dei funzionari ceceni a queste notizie variano dalla negazione (per esempio da parte di Alvi Karimov, portavoce del leader ceceno) al ritenerle false, a ulteriori velate minacce. Il 3 aprile Dimitry Peskov, addetto stampa dell’Amministrazione Presidenziale Russa, ha annunciato che il Ministero degli Interni stava “verificando le informazioni sulla presunta persecuzione di uomini con orientamento non-tradizionale”.

News correlate

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Minacce contro i giornalisti che hanno denunciato le persecuzioni in Cecenia

Fonte:

BAHRAIN: GLI ORGANISMI LOCALI SUI DIRITTI UMANI, SOSTENUTI DAL REGNO UNITO, SONO VENUTI MENO ALLE PROMESSE DI RIFORME

21 novembre 2016

In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha dichiarato che, cinque anni dopo la rivolta del 2011 in cui manifestanti pacifici vennero picchiati, feriti e uccisi, le riforme introdotte per rispondere alle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza devono ancora portare giustizia alla maggior parte delle vittime e dei loro familiari.

Il rapporto descrive in dettaglio le gravi carenze riscontrate nell’azione di due organismi istituiti nel 2012, che secondo le autorità del Bahrein e quelle del Regno Unito – strenuo alleato del regno del Golfo persico – avrebbero dovuto dimostrare l’impegno a migliorare la situazione dei diritti umani.

“Nessuno nega che il governo del Bahrein abbia fatto bene a istituire organismi per indagare sulle violazioni dei diritti umani e portare di fronte alla giustizia i responsabili, ma purtroppo queste riforme risultano profondamente inadeguate. I maltrattamenti e le torture da parte delle forze di sicurezza proseguono, in un contesto di radicata impunità segnato dalla mancanza d’indipendenza del potere giudiziario” – ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice per la ricerca presso l’Ufficio regionale di Amnesty International di Beirut.

“Un vero cambiamento dev’essere ben più che di facciata. Le autorità del Bahrein non possono continuare a ingannare il mondo con una mera patina di riforme, quando l’assunzione di responsabilità per le violazioni dei diritti umani scarseggia e i difensori dei diritti umani continuano a venire arrestati in modo arbitrario, a subire condanne a seguito di processi iniqui, a essere privati della nazionalità o a vedersi impedito di viaggiare all’estero” – ha commentato Maalouf.

La brutale repressione delle proteste del 2011 suscitò l’indignazione internazionale. Su raccomandazione della Commissione indipendente d’inchiesta del Bahrein, istituita dal re Hamad bin Isa al-Khalifa, le autorità emendarono alcune leggi e costituirono alcuni organismi di monitoraggio e per indagare e processare persone sospettate di aver commesso violazioni dei diritti umani.

Tra queste istituzioni, dal 2012 vi sono l’ufficio del Difensore civico presso il ministero dell’Interno e l’Unità speciale per le indagini presso l’Ufficio del procuratore generale. Entrambe hanno ricevuto formazione e sviluppo delle rispettive capacità istituzionali da parte del Regno Unito.

Sebbene abbiano ottenuto qualche risultato, Amnesty International giudica che queste due istituzioni non siano state in grado di fermare in modo significativo le violazioni dei diritti umani.

“La descrizione fattane dal governo di Londra come istituzioni modello è profondamente falsa, come illustriamo nel nostro rapporto. Invece di raccontare mezze verità al mondo intero sui progressi del Bahrein, il Regno Unito e gli altri alleati internazionali dovrebbero smetterla di dare priorità alla difesa e alla cooperazione in materia di sicurezza, a scapito dei diritti umani” – ha sottolineato Maalouf.

L’ufficio del Difensore civico è generalmente reattivo nel segnalare le denunce di tortura e di altre gravi violazioni dei diritti umani all’Unità speciale per le indagini. Tuttavia, in alcuni casi, non ha assunto rapide iniziative per proteggere i detenuti dai maltrattamenti e dalla tortura, indagare sulle loro denunce o assicurare il loro accesso alle cure mediche.

Ad esempio, nonostante i ripetuti allarmi di Amnesty International circa il rischio che il difensore dei diritti umani Hussain Jawad potesse subire torture dopo il suo arresto, avvenuto il 16 febbraio 2015, l’ufficio del Difensore civico non ha verificato immediatamente le condizioni del detenuto e non è riuscito a evitare che venisse torturato. Jawad ha riferito di essere stato bendato, picchiato con le mani ammanettate dietro la schiena e minacciato di violenza sessuale se non avesse “confessato”.

L’ufficio del Difensore civico ha anche ritardato di due anni l’inchiesta sulla denuncia di tortura sporta da Mohamed Ramadhan, guardia di sicurezza aeroportuale, condannato a morte dopo essere stato giudicato colpevole di aver preso parte a un attentato.

L’Unità speciale per le indagini, dal canto suo, ha sottoposto a procedimento 93 appartenenti alle forze di sicurezza ma sono risultati condannati solo 15 funzionari di basso livello. Nessun alto dirigente delle forze di sicurezza che sovrintendeva alle gravi violazioni dei diritti umani del 2011 è mai stato incriminato.

Dei casi di maltrattamento o tortura, decesso in carcere o uccisione illegale registrati da Amnesty International a partire dalla rivolta del 2011, solo 45 su circa 200 sono arrivati a processo.

Ali Hussein Neama, 16 anni, venne ucciso da un agente di polizia nel settembre 2012. Nonostante le prove fotografiche e il certificato di morte indicassero che il ragazzo era stato colpito alle spalle, l’Unità speciale per le indagini ha concluso che l’agente agì per autodifesa contro il ragazzo e un altro manifestante che stavano scagliando bombe Molotov.

L’Unità speciale per le indagini risulta anche lenta nell’esame delle denunce. In un caso, le sono voluti oltre due anni per raccogliere elementi sulle torture riferite da un prigioniero di coscienza, col risultato che prove scientifiche e altri indizi sono andati persi.

Sia l’ufficio del Difensore civico che l’Unità speciale per le indagini non sono riusciti a ottenere la fiducia dell’opinione pubblica, in parte per la percepita mancanza d’indipendenza e d’imparzialità. Entrambi gli organismi sono considerati eccessivamente vicini al ministero dell’Interno e ad altre istituzioni di governo e alimentano la disistima non tenendo adeguatamente informate vittime e famiglie sugli sviluppi delle indagini.

La giornalista Nazeeha Saeeda ha raccontato che nel 2011 è stata picchiata, presa a calci, umiliata e sottoposta a scariche elettriche mentre veniva interrogata dalle forze di sicurezza. Tre anni dopo, l’Unità speciale per le indagini l’ha condotta nella medesima stanza delle sevizie perché riconoscesse i suoi torturatori. Nonostante il trauma e pur avendo identificato cinque persone, il caso è stato chiuso per “assenza di prove”.

Un altro caso emblematico è quello di Ali Isa al-Tajer, che ha denunciato di essere stato torturato per 25 giorni. L’ufficio del Difensore civico non è stato in grado di garantire che egli fosse tenuto in un luogo sicuro e protetto dalla tortura, mentre l’Unità speciale per le indagini non ha agito tempestivamente sulla sua denuncia, evitando anche di disporre una visita di un medico legale. Entrambi gli organismi non hanno reagito agli allarmi che il detenuto era sottoposto a tortura né hanno tenuto informata la sua famiglia sugli sviluppi delle indagini.

“L’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini hanno la possibilità di apportare i tanto necessari cambiamenti e di migliorare la situazione complessiva dei diritti umani. Ma per essere davvero efficaci, devono operare con trasparenza e rapidità e dimostrare la loro indipendenza, nell’ambito di un più ampio progresso verso la fine dell’impunità e delle pratiche repressive e in direzione di una reale indipendenza del potere giudiziario” – ha aggiunto Maalouf.

“Il governo del Bahrein prese una decisione importante quando creò le due istituzioni, conferendo loro un mandato tale da poter favorire un reale cambiamento. Ora deve dare l’esempio, dimostrando che gli ostacoli politici e giudiziari all’impunità possono essere superati e che ha il coraggio necessario per rendere l’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini due istituzioni solide, in grado di ottenere la fiducia dell’opinione pubblica e agire efficacemente contro le violazioni dei diritti umani” – ha concluso Maalouf.

Ulteriori informazioni

Il rapporto si basa su oltre 90 interviste condotte dal 2013 con vittime di violazioni dei diritti umani, loro familiari, avvocati e difensori dei diritti umani, su informazioni tratte dalla corrispondenza intrattenuta con il governo e altre istituzioni locali del Bahrein e sulle costanti ricerche di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel paese.

FINE DEL COMUNICATO                                                                          Roma, 21 novembre 2016

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/bahrein-gli-organismi-locali-sui-diritti-umani-sostenuti-dal-regno-unito-sono-venuti-meno-alle-promesse-di-riforme