Linguaggi inclusivi tra terminologia e cinematografia: ne parlo con Stefania Ratzingeer

 

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Io: Ciao, Stefania. Grazie per aver accettato quest’intervista.

S.: Grazie a te. Mi fai sentire importante.

Io: Tu sei una docente d’italiano e hai scritto una tesi sulla democrazia linguistica. Cosa ne pensi del dibattito sul maschile sovraesteso nella nostra grammatica e sui nomi professionali al femminile?

S.: Io non insegno italiano, ma italiano seconda lingua. Ho scritto una tesi sull’ipotesi di democratizzazione della lingua dominante e sulla teorizzazione di una lingua comune per tutti, ovvero l’esperanto. Per quanto riguarda la lingua italiana, al momento credo che sia necessario introdurre termini che identifichino professionalmente anche il femminile, perché è dal linguaggio che passa la normalizzazione di concetti ancora eccessivamente stereotipati. In Italiano non abbiamo a disposizione pronomi neutri, come succede ad esempio con lo Svedese e con altre lingue di matrice anglosassone, e questo crea un importante ostacolo alla creazione prima dell’idea e poi della concretizzazione dell’esistenza di determinate figure professionali (e non) scevre da distinzioni di genere.

Io: Hai in parte anticipato la domanda successiva. Vorrei chiederti, infatti, qual è la tua opinione su asterisco, scevà e altre desinenze per superare il binarismo di genere.

S.:  E’ assolutamente necessario introdurre nella lingua italiana espedienti grammaticali che ci permettano di non concentrarci sul binarismo di genere, per poter passare dal concetto alla realtà. Sono piuttosto sfiduciata per quanto riguarda le tempistiche di questo cambiamento linguistico: l’italiano è una lingua che cambia in modo biologico, non a tavolino. Istituzioni come la nota Accademia della Crusca si occupano di legiferare in merito ai neologismi, ma si tratta di costrutti che nascono spontaneamente e non di decisioni prese a tavolino: per quanto riguarda l’annullamento nel linguaggio di quella che è una vera e propria discriminazione bisognerebbe valutare un intervento a tavolino, che va tuttavia contro le dinamiche di apprendimento cui siamo abituati. I tempi sono lunghi quindi, credo se ne possa parlare in modo sistematico almeno tra un paio di generazioni, iniziando a contare già dalla prossima, ma è una visione ottimistica.

Io: Sei anche una cultrice di cinema. Da qualche mese collabori con il sito agit-porn attraverso una rubrica di recensioni cinematografiche, nella quale rileggi trame di film horror in chiave pornografica. Come è nata quest’idea?

S.: Quest’idea è nata dal fatto che ho conosciuto Claudia Ska, la fondatrice di agit-porn insieme a Gea Di Bella, fondatrice di “La camera di Valentina”.  Parlando insieme a Claudia, è uscita fuori la mia passione per il cinema e abbiamo pensato che tra l’horror e il porno potessero esserci degli elementi in comune per via delle reazioni emotive che entrambi i generi suscitano: eccitazione nel caso del porno, paura nel caso dell’horror. Nell’horror c’è anche il fatto che spesso i personaggi vivono situazioni di non inclusione, oltre ad essere pure degli assassini, come nel film Psyco (di cui ho parlato nel mio ultimo articolo) o come (in un altro film di cui non ho ancora scritto) in Non aprite quella porta.

Ho messo insieme, quindi, due mie passioni, il cinema e il sesso, ed è nata una collaborazione proficua tra me e Claudia.

Io: Ci sono punti in comune fra il linguaggio letterario e il linguaggio cinematografico? Se sì, quali sono?

S: Io non sono particolarmente autorevole in materia ma una cosa su cui vorrei porre l’accento è la narrazione. Il cinema narra e la letteratura narra. Soprattutto i personaggi che nascono in contesti difficili hanno bisogno della narrazione. Oggi credo sia ancor più importante la contronarrazione. E’ quello che sto cercando di fare su agit-porn, rileggendo le trame di alcuni film conosciuti e creando delle contronarrazioni che le rendano meno tragiche. Per esempio, in uno dei film della saga di Alien c’è una narrazione traumatica di un aborto. Una contronarrazione potrebbe essere la rinuncia alla maternità non vista come un dramma ma come una libera scelta.

Riguardo alla letteratura, i romanzi evocano immagini nel lettore. Nel cinema, soprattutto mediorientale, esiste anche una tecnica di tipo evocativo. Il cinema horror è molto evocativo. Anche il cinema porno lo è. Penso, quindi, che anche da questo punto di vista cinema e letteratura si capiscano molto.

Io: Grazie per le tue risposte.

Donatella Quattrone

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Non binarismo di genere, bisessualità e pansessualità: ne parlo con Davide Andrea Amato

Io: Ciao, Davide Andrea. Benvenuta e grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
D.A.: Grazie a te.

Io: Tu ti definisci trans, bigenere, non binaria. Mi spieghi cosa s’intende con gli ultimi due termini?

D.A.: Sì. Mi definisco bigenere perché non mi sento solo maschio o solo donna. Non binary perché sono sempre stata al di fuori di quello che la società ha proposto a livello di genere. Il bigenere è la compresenza di queste due mie parti. Non binary perché sono sempre state inserite dentro di me ma non come le intende la società.

Io: Quali altre categorie possiamo trovare sotto l’”ombrello” del non binarismo?

D. A.: Moltissime. Per esempio, le persone demigender, genderfluid, pangender, agender. Ci sono anche persone genderqueer. C’è anche chi si definisce solo trans. Vi rientrano tutte quelle sfumature lontane dal binarismo di genere, diverse per funzionalità ed espressività di chi le vive. Ci sono anche le persone genderflux, le persone intergender anche. La differenza tra i non binary e le persone transessuali conformi è che le persone transessuali binarie, seguono un percorso di transizione medicalizzata per riassegnare il proprio corpo al genere di elezione. Genere che è diverso rispetto a quello assegnato loro alla nascita. Hanno necessità, quindi, di modifica di tutto il fisico, anche della voce, per poter esternare tutto l’interno della propria persona. Invece le persone non binary spaziano in tutte le sfumature del genere, al di fuori del binarismo, e quindi non per forza necessitano di conformare l’aspetto esteriore al proprio genere di elezione. Molte infatti non ne avvertono la necessità, mentre altre ancora prediligono solo isolati interventi estetici oppure assunzione di microdosing ormonale. Le persone non binary fanno molta fatica ad essere concepite dalla società.

Io: Quanto è forte la discriminazione nei confronti delle persone enby anche all’interno della comunità Lgbt+?

D. A.: Purtroppo ancora tanta. L’ultimo episodio che mi è capitato di recente è stato all’interno di un gruppo Lgbt+. La mia richiesta di usare grammaticalmente l’asterisco o la u è stata vista come un capriccio, come il voler essere puntigliosa, un non volermi conformare. Molti gruppi si dicono inclusivi e invece termini come non binary risultano estranei. Alla mia semplice definizione deriva l’essere derisa, segue l’invalidazione. Il fatto di riuscire a parlare di me viene visto come voler essere al centro dell’attenzione. Questi sono solo alcuni esempi. La discriminazione avviene anche all’interno del mondo transessuale, da parte delle persone transessuali binarie che si sentono in diritto di dare patentini di persona trans solo a chi fa un percorso di medicalizzazione. Oppure deridono chi non rientra nella concezione canonica di transessuale. Per fortuna c’è anche massima apertura in certi ambienti in cui mi sento sicura. Vorrei chiarire che il termine femminile che considero per me è perché mi sento molto più vicina a questa parte della mia identità. Tuttavia ciò non si esaurisce nella concezione di essere solo femmina o solo donna. Per me è un bene che mi si pongano queste domande da parte di chi vuole mettere in discussione le proprie convinzioni. La discriminazione avviene all’interno delle comunità Lgbt+ perché ancora non si è raggiunta consapevolezza sulle diverse identità sessuali. Ci sono cis-etero, cis-gay, cis-lesbiche, cis-bisessuali alleati che fanno fatica ad uscire dal binarismo della cultura. Questo dimostra come la transfobia sia più trasversale rispetto all’omofobia. Lo stesso si può dire della bifobia. Non è detto che in un gruppo Lgbt+ ci sia inclusività. Purtroppo accade il contrario. Le persone non binary come me si trovano a vivere in una condizione di stigma doppio, triplo. Bisogna essere molto fortunati per trovare gruppi positivi e accoglienti.

Io: Cosa ne pensi del dibattito su asterisco, scevà e altre desinenze usate per cercare di usare un linguaggio più inclusivo?

D. A.: Penso sia molto importante. Finalmente una certa parte di comunità formata, da un decennio, da persone non binary cerca di portarsi avanti in modo inclusivo. Credo che l’uso sia dell’asterisco, sia della scevà sia della u possa essere importante dal punto di vista grammaticale. Molte persone si mettono in gioco con un immaginario della grammatica che mette insieme tutte le personalità che finora erano escluse. Non sarà un passaggio immediato, ci vorrà tempo. L’Accademia della Crusca e altre società di grammatica italiana contribuiscono al dibattito dimenticando che, dietro il bisogno di usare un linguaggio più inclusivo, vi sono delle persone, vi sono delle identità, vi sono dei vissuti. Sono contenta che questo dibattito ci sia. E’ importante, però, andare con i piedi di piombo e portare avanti ciò rispettando i tempi di assimilazione di chi per la prima volta vede questo tipo di processo.

Io: Qualche anno fa, in un’intervista sul blog Progetto genderqueer dell’attivista Nathan Bonnì, raccontavi il tuo percorso da ex etero Lgbt friendly fino alla scoperta dell’orientamento bisessuale. Oggi ti definisci, tra l’altro, trans e pansex. Quando è avvenuta quest’ulteriore scoperta sul tuo orientamento sessuale e identità di genere?

D. A.: Direi recentemente, negli ultimi tre anni. In realtà è stato un crescendo. Ho scoperto la mia bisessualità circa cinque-sei anni fa poi mi sono resa conto che quel termine era poco rappresentativo di quello che sentivo. Più andavo avanti nel mio bagaglio personale più mi rendevo conto che il termine utilizzato prima era sbagliato. Ancora oggi non ho chiaro quali siano i confini del mio orientamento sessuale per questo il termine pansessuale è molto più indicativo. Per quanto riguarda la parte trans, io ho sempre saputo di essere al di fuori del binarismo di genere. C’è stata una riscoperta, un susseguirsi di occasioni e opportunità, di incontri con soggettività che per la prima volta usavano il termine non binary. Questo ha fatto viaggiare pari passo la mia autodeterminazione con il mio attivismo. Sto usando ultimamente i termini non binary e pansessuale nel fare coming out. Voglio adesso essere me stessa, nel senso di descrizione, al 100%.

Io: Molti attivisti bisessuali si sentono tenuti fuori dal dibattito sul ddl Zan, per via del termine omotransfobia usato di più rispetto ad altri più inclusivi ma più lunghi. Condividi queste preoccupazioni o le consideri polemiche sterili?

D. A.: Condivido queste preoccupazioni perché il nuovo disegno di legge, che altro non è se non l’estensione di una precedente legge sulle discriminazioni razziali, di religione o etniche, ancora non è completo e fatto in modo tale da salvaguardare chiunque sia al di fuori dell’orientamento eterosessuale o al di fuori dell’essere solo uomo o solo donna. E’ ancora limitato e limitante. Non a caso è stato usato il termine omotransfobia escludendo la richiesta di chi voleva inserire la bi nel termine. In più, il decreto di legge non chiarisce quali siano esattamente i termini con i quali ci si può esprimere in modo contrario a tutto ciò che è al di fuori dell’orientamento eterosessuale e dell’identità di solo donna e solo uomo. Di questo si è discusso in molti gruppi. Quindi sono d’accordo con questo dibattito perché non è chiaro quali potrebbero essere le azioni discriminatorie compiute e messe in atto.

Io: Cosa ne pensi del dibattito tra chi vuole includere la pansessualità sotto il termine ombrello della bisessualità e chi, invece, vorrebbe distinguere i due termini?

D. A.: Penso che, come dire, personalmente, ma questa è una mia personale considerazione, indubbiamente, la bisessualità rispetto al passato ha, finalmente, una rappresentazione molto più inclusiva rispetto agli anni ’50. Ma non trovo utile che la pansessualità venga inclusa nella bisessualità almeno fino a che non ci siano molti più gruppi che aprano un dibattito, non di tifoseria, ma per ampliare le vedute affinché persone bisessuali e pansessuali possano collaborare perché si trovi un termine anche più inclusivo dei due. Tuttavia trovo interessante questo dibattito perché ci sono tante persone che preferiscono restare nel termine bisessuale mentre ce ne sono tante altre che preferiscono che il termine pansessualità non venga associato alla bisessualità.

Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

D. A.: Sì. Voglio invitare la maggior parte delle persone che leggeranno ad andare a ricercare pagine, canali, notizie, articoli e che si diano la possibilità di ampliare le proprie conoscenze sulla sessualità in generale e in particolare su chi si considera non binary. Ce ne è assolutamente bisogno in termini di comunità. E soprattutto di rispettare tutte le modalità con le quali ogni singola persona si autodetermina e autodefinisce. E soprattutto capire che non esistono solo persone trans medicalizzate e che le persone trans non vogliono siano date loro patenti di transessualità.

D. Q. 

Bandiera NB

Bandiera non binary (dal  sito http://www.transmediawatchitalia.info/

Bisexuality VS Pansexaulity | LGBTQ TEENS+ Amino(Dal web)

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Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo

di Alessandra Vescio

Il 25 luglio scorso, il giornalista Mattia Feltri ha dedicato la sua rubrica “Buongiorno” sul quotidiano La Stampa al tema dell’asterisco e dello schwa [ndr, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale], soluzioni di cui da anni si discute negli studi di genere e in linguistica nell’ottica di creare un linguaggio inclusivo. Sarcasticamente intitolato “Allarmi siam fascistə”, nel suo pezzo Feltri ha schernito le proposte, considerandole di difficile applicazione, uso e pronuncia, e ha attribuito la soluzione dello schwa a “un’accademica della Crusca” che ne avrebbe – a suo dire – parlato su Facebook.

Pochi giorni dopo, il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini ha inviato una lettera di risposta al direttore de La Stampa Massimo Giannini per fare alcune precisazioni: “La notizia che un’accademica della Crusca si sarebbe pronunciata a favore dell’utilizzo dello schwa e dell’asterisco […] è falsa in tutti i sensi”, non solo perché “la persona con cui Mattia Feltri polemizzava non è affatto accademica della Crusca” e non lo è “da parecchio tempo”, ma anche perché “nessun accademico […] ha sostenuto quelle tesi”, anzi in più occasioni l’istituzione ha manifestato la stessa linea espressa da Feltri. Concludendo con “Ci riserviamo di difendere comunque nelle sedi opportune il buon nome dell’Accademia”, il presidente Marazzini ha dunque criticato l’operato del giornalista in particolar modo per aver associato l’istituzione a una (ex) collaboratrice e alle sue tesi, ma ha anche fatto emergere una certa affinità con Feltri e non soltanto per le posizioni sulle questioni linguistiche. Com’è stato infatti fatto notare dalla scrittrice Carolina Capria e dalla giornalista e autrice Loredana Lipperini, né il Presidente dell’Accademia della Crusca né Mattia Feltri hanno fatto il nome della donna di cui stavano parlando, mostrando così non solo la volontà di dissociarsi da lei e dai temi di cui si occupa, ma anche di svilirne il lavoro e la dignità personale e professionale. Una posizione che l’Accademia ha ribadito anche in un post successivo, pubblicato il 3 agosto, in cui il Presidente Marazzini ha parlato di “disinvolta leggerezza” con cui La Stampa ha attribuito la qualifica di accademica a “persona che non aveva nessun diritto a tale titolo”.

Chi è del settore o conosce l’ambiente, ha capito presto che Marazzini e Feltri stavano parlando di Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice e docente universitaria, che – come ha tenuto a precisare nuovamente l’Accademia in un post con scopo di chiarimento – ha interrotto la collaborazione con l’istituzione nel 2019. Gheno, autrice di numerosi saggi di linguistica e comunicazione tra cui “Potere alle parole” e “Femminili singolari”, da tempo studia alcuni fenomeni linguistici molto dibattuti come il superamento del binarismo di genere e del maschile sovraesteso nella lingua italiana.

Il maschile sovraesteso

L’italiano è una lingua flessiva con due soli generi, il maschile e il femminile, e in caso di moltitudini miste prevede che si ricorra al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato: basta che un solo uomo sia presente in un gruppo numeroso, infatti, per declinare il plurale al maschile.

L’Enciclopedia Treccani, in un approfondimento sul rapporto tra genere e lingua, spiega i modi diversi con cui il maschile sovraesteso si applica nella lingua italiana: con il ricorso a termini maschili che indicano gruppi composti da uomini e donne (“i politici italiani”, per indicare donne e uomini in politica); con quella che viene definita “servitù grammaticale”, ovvero l’accordo al maschile in presenza di parole maschili e femminili (“bambini e bambine erano tutti stretti ai loro genitori”) o tramite l’utilizzo di espressioni fisse al maschile che possono però anche riferirsi alle donne (“i diritti dell’uomo”, per indicare “i diritti umani”). “Ancora più particolare”, prosegue Treccani, “è l’uso di termini, professionali e no, al maschile, quando il referente, noto e specifico, è donna”.

Dei nomina agentis (o nomi professionali) al femminile si discute in Italia da molto tempo: ne hanno parlato ad esempio Alma Sabatini, nel suo saggio “Il sessismo nella lingua italiana” nel 1987, e Cecilia Robustelli, nelle “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, sottolineando la validità linguistica e l’importanza politica di declinare al femminile le professioni svolte da una donna. In uno dei suoi ultimi lavori, anche Vera Gheno ha mostrato come da un punto di vista linguistico l’italiano ammetta e preveda la formazione dei femminili. Le forzature e le stonature che alcune persone dichiarano di percepire quando si declinano certi termini al femminile, perciò, non possono essere ricondotte a motivazioni grammaticali e morfologiche quanto a una questione di abitudine o a un fatto socio-culturale, per cui il ricorso al femminile – stereotipicamente considerato come più debole rispetto al maschile – porta a immaginare uno svilimento della carica o del ruolo professionale.

Se la lingua evolve, però, è perché la società in cui viviamo sta cambiando: fino a non molto tempo fa, infatti, la presenza delle donne era limitata in alcuni settori e posizioni lavorative, per cui la necessità di declinare i nomi delle professioni in maniera corretta non era così ampiamente diffusa. Oggi che invece ci sono molte più avvocate, ministre, sindache, assessore, chiamarle con il loro nome diventa un’affermazione di esistenza, oltre che un’operazione linguisticamente esatta.

Come fa notare poi Gheno nel suo lungo e articolato post di risposta al “Buongiorno” di Feltri, il maschile sovraesteso viene spesso confuso con il genere neutro, che però in italiano non esiste: la nostra lingua infatti, come si è detto, comprende solo due generi, il maschile e il femminile, motivo per cui si parla anche di binarismo linguistico.

Il binarismo di genere e il rapporto con la lingua

Il binarismo di genere è un concetto che deriva dai gender studies e riconosce l’esistenza di due sole categorie, uomo e donna, a cui sono associati ruoli e caratteri specifici: all’uomo corrisponde tutto ciò che nell’immaginario comune è considerato maschile, alla donna tutto ciò che è definito come stereotipicamente femminile.

Il binarismo di genere non ammette, dunque, l’esistenza di identità di genere altre rispetto a quelle di uomo e donna, rinnega la distinzione tra sesso e genere e si basa su preconcetti che ci portano a definire per esempio la forza e l’autorevolezza come tratti tipicamente maschili e la sensibilità e la predisposizione alla cura come caratteristiche femminili. Il sesso e il genere invece sono ormai anche a livello istituzionale concepiti come entità separate: il sesso è l’insieme di caratteristiche fisiche, biologiche e anatomiche che caratterizzano un individuo mentre il genere è un costrutto sociale, che cambia nel tempo e nello spazio, e riguarda i comportamenti che la società attribuisce a un determinato sesso (ovvero il ruolo di genere), ma anche la percezione che ciascuno ha di sé (l’identità di genere). Il superamento del binarismo implica la concezione del genere non più come una classificazione fatta da due soli elementi, bensì come uno spettro di più possibilità. Coloro che non si identificano nelle categorie uomo-donna, ad esempio, possono riconoscersi come persone non binarie. Anche le persone transgender, ovvero coloro che hanno un’identità di genere diversa rispetto al sesso assegnato alla nascita, possono non rivedersi nel binarismo; e lo stesso vale per le persone intersex, ovvero chi nasce con caratteristiche cromosomiche, anatomiche e/o ormonali che non possono essere definite rigidamente come maschili o femminili.

Negli studi di genere e in certi ambiti della linguistica, ci si sta dunque interrogando su come costruire un linguaggio inclusivo che tenga conto di tutte le soggettività.

Le proposte per un linguaggio inclusivo

Nel saggio “Femminili singolari”, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice effequ, l’autrice Vera Gheno propone – a suo stesso dire, in modo scherzoso – l’introduzione dello schwa, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale. Per fare un esempio, nella frase “Buonasera a tutti” rivolta a un gruppo misto di persone, si potrebbe sostituire il maschile sovraesteso espresso dalla desinenza “-i” con lo schwa e dire dunque “Buonasera a tuttə”. La pronuncia corrisponde a un suono vocalico neutro, indistinto, già presente in molti dialetti del centro e sud Italia.

A prendere spunto da questa riflessione è stata proprio la casa editrice effequ in un’altra delle sue pubblicazioni. In “Il contrario della solitudine”, scritto dall’autrice brasiliana Marcia Tiburi e tradotto da Eloisa Del Giudice, effequ ha infatti introdotto lo schwa in riferimento a una moltitudine mista. Nel testo originale Tiburi ha adottato una delle soluzioni più utilizzate dai movimenti femministi e dalla comunità LGBTQIA+ di lingua spagnola, ovvero sostituire la desinenza maschile “-o” e quella femminile “-a” con una neutra “-e”, scrivendo per esempio “todes” al posto di “todos”. Per mantenere la neutralità del linguaggio e rispettare la scelta politica dell’autrice, effequ ha perciò deciso di tradurre “todes” con “tuttə”.

Per quanto al momento lo schwa appaia come la soluzione più praticabile poiché si tratta di un fonema neutro, già esistente e applicabile, presenta anch’esso dei limiti. Come spiega infatti proprio Gheno in un articolo uscito su La Falla, magazine del Cassero LGBT Center di Bologna, lo schwa “non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer”, ma solo nella sezione dei simboli e caratteri speciali dei programmi di scrittura: conseguenza di ciò è che scrivere un testo con lo schwa può risultare piuttosto macchinoso. Inoltre, essendo un suono presente solo in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, può risultare difficile da comprendere e pronunciare per coloro che non conoscono e non parlano quei dialetti. Per provare a far fronte a queste difficoltà, è nata “Italiano inclusivo”, una piattaforma che ha lo scopo di promuovere l’introduzione dello schwa e superare il binarismo linguistico. “Italiano inclusivo” infatti offre diversi strumenti utili per conoscere, scrivere e pronunciare il fonema.

Nel frattempo, molte altre sono le proposte di cui si discute nell’ambito degli studi di genere, come l’asterisco o la vocale “-u” (che però in alcuni dialetti italiani indica il maschile). In una nota introduttiva al suo saggio “Post porno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali” (Eris Edizioni), ad esempio, l’autrice Valentine Wolf chiarisce che, “in un’ottica di inclusività”, nel testo si è preferito non ricorrere al maschile generalizzato ma utilizzare l’asterisco e la desinenza “-u”. Proprio pochi giorni prima dell’uscita del “Buongiorno” di Feltri in cui si è parlato dello schwa, anche la condivisione di questa nota sui social ha generato una serie di reazioni polemiche e sprezzanti.

Il linguaggio inclusivo negli altri paesi

Mentre l’Accademia della Crusca ha manifestato ritrosia nei confronti della presa in considerazione di soluzioni inclusive, in molti altri paesi il tema dell’inclusività e il rispetto delle soggettività sono centrali anche da un punto di vista linguistico. Nel 2019 il celebre vocabolario statunitense Merriam-Webster ha scelto il pronome “They” come parola dell’anno. Nella lingua inglese infatti si sta sempre più diffondendo l’uso di “they” e “them” come pronomi singolari, per riferirsi alle persone non binarie e che dunque non si riconoscono nei pronomi “he/him” (lui), “she/her” (lei).

In Svezia, invece, nel 2015 l’Accademia che ogni dieci anni aggiorna il dizionario ufficiale della lingua, ha introdotto il pronome neutro “hen”, da utilizzare in relazione a persone che non si identificano nel pronome maschile (“han”) o femminile (“hon”) o laddove non si voglia fare riferimento al genere di qualcuno. Per quanto riguarda la Germania, dove il dibattito è da tempo molto acceso, il ministero della Giustizia ha di recente invitato gli uffici pubblici a utilizzare un linguaggio neutro nelle comunicazioni ufficiali. E ancora, nello spagnolo, oltre alla già citata desinenza “-e”, si sta diffondendo l’uso del simbolo “-@” e della lettera “-x” per sostituire il maschile generalizzato.    

Una nuova esigenza sociale

Ogni scelta linguistica è una scelta politica”, ha scritto la giornalista Jennifer Guerra nel suo saggio femminista “Il corpo elettrico” (edizioni Tlon). In una vera e propria “Nota alla traduzione”, infatti, l’autrice parla della necessità di un continuo confronto che durante la stesura del libro, proprio come fa di solito chi traduce un testo, ha dovuto mettere in atto con il linguaggio e con le parole, affinché la complessità potesse essere raccontata al meglio.

Di complessità ha parlato anche la stessa Vera Gheno nel suo intervento a “Prendiamola con filosofia”, evento organizzato dall’Associazione Tlon il 23 luglio scorso. “Saper vivere la complessità del presente”, infatti, è una delle competenze che la linguista definisce essenziali per essere pienamente cittadini, da aggiungere a “saper leggere, scrivere e far di conto”, menzionate da Don Milani. Saper vivere la complessità del presente vuol dire, secondo la studiosa, anche riconoscere il cambiamento e provare curiosità nei suoi confronti, anziché rifiutarlo a priori. Proprio le discussioni attorno allo schwa, continua Gheno, testimoniano che qualcosa attorno a noi si sta muovendo: “C’è una nuova esigenza sociale alla quale la lingua sta cercando di stare dietro”, ha detto la studiosa, e ha aggiunto che se una lingua viva continua a creare parole nuove è perché “la realtà continua a cambiare”.

Immagine in anteprima via breezy.hr

 

Fonte:

https://www.valigiablu.it/linguaggio-inclusivo-dibattito/

 

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