In memoriam, Paolo Pozzi

Il 7 gennaio è scomparso improvvisamente Paolo Pozzi, comunista. Il ricordo di un compagno della redazione di Rosso, attraverso le vicende della comune “epoca dei fatti”. Leggi anche In ricordo di Paolo Pozzi.

Non so quanto possa inoltrarmi nella morte di Paolo.

I nostri sempre più rari incontri, non più di tre negli ultimi dieci anni, non mi permettono di parlare di lui al presente: non so quanto il suo aspetto potesse essere cambiato, non so che libri avesse appena letto, cosa gli piacesse mangiare e che vini amasse bere, se guardasse la tv, che cosa pensasse di Renzi o di Grillo. Certo so di Laura, che conosco, e di Irene, che però ho visto solo piccolissima. So di ripetuti lunghi viaggi verso mete sconosciute, mi viene in mente Samarcanda; ho letto naturalmente Insurrezione e ho comprato la nuova edizione dell’intervista del ‘79 a Toni sull’operaismo, sempre molto attuale; abbiamo condiviso almeno una postfazione per Sergino e DeriveApprodi. Non ci frequentavamo, non ci sentivamo più. Non ho, per questo mio distacco da lui, alcuna recriminazione, alcun particolare rincrescimento. Sua scelta e dunque mia scelta.

Ma è proprio questa “sospensione” degli affetti tra di noi, degli automatismi emotivi “di tutti i giorni”, che mi fa sentire e credere, oggi, che il nostro legame, sia sempre rimasto forte, fortissimo: al suo apice, al vertice della tensione. Paolo è di Rosso, io sono di Rosso. Nelle nostre biografie, e dunque nelle nostre vite, Rosso si prende dai primi anni ’70 ai primi anni ’90. Diciotto anni, più o meno. Dalla nascita dell’AutOp alla Cassazione. Ed è questo legame credo, che qui mi spinge a parlare, a dare conto se non di tutta la sua vita, almeno di quegli anni, di quella comune “epoca dei fatti”. Non so se questo possa essere un vero, giusto necrologio per una persona che scompare. So, però, che è un sincero elogio per l’amico, il compagno che non c’è più.

Tempo, comincio qui la storia di Lenin…

Più seriamente, e più da vicino: Paolo nasce a Fano, dove rimane sino alla maturità. Studente modello, anche la media del 10, Pagella d’Oro del Corriere della Sera. Va a Trento per Sociologia. Credo che tutti ricordino il ruolo dell’ISSS, l’Istituto Superiore di Scienze Sociali, nella nascita e nella crescita del movimento degli anni ’70. Da laboratorio dell’ingegneria sociale neocapitalista che doveva essere, Sociologia si trasforma in un centro di elaborazione culturale e politica di piena avanguardia e poi di totale “rottura”: un passaggio critico di valore epocale e di larghissima portata, ben al di là della vulgata che si limita a descrivere questa Trento come il “nido d’infanzia” delle Brigate Rosse.

È a Trento che Paolo vive brillantemente tutti i capitoli del suo “romanzo di formazione”, nel quale agli studi canonici si affiancano sempre di più, sino a mutarne completamente il segno, momenti di ricerca e di critica “alternativa” sempre più spinta e radicale, nuovi linguaggi interpretativi, nuove ipotesi di progetto e di lotta. È quasi obbligatorio, dunque, che a Trento Paolo sia nella fondazione del Gramsci. Il Gramsci che si prepara a occupare un sia pur breve ma importantissimo ruolo negli orizzonti di attesa di quegli anni: quello di voler dare corpo politico non solo all’antagonismo di classe, ma anche, in uno spettro sempre più ampio, a tutti i temi della liberazione della persona e dell’appagamento dei bisogni e dei desideri di ogni individuo, uomo o donna.

Nel 1972 Paolo si laurea a pieni voti e viene a Milano. Una scelta, un’opzione personale e politica anch’essa quasi obbligata e conseguente. Formidabili quegli anni, ha declamato qualcuno. Lo sono stati: di più. Milano è diventata sempre più rapidamente, la città ideale della sovversione e di ogni tentativo “rivoluzionario”; accoglie in quegli anni centinaia di nuovi militanti, dando a essi territorio, spazio e luoghi per l’intervento, dal tessuto delle piccole officine e dalla cintura operaia delle grandi fabbriche-stalingrado sino alle sedi universitarie del centro. In Via Disciplini, dove sta il Gramsci (nei locali, Paolo lo ricordava sempre, che fino al 1958 erano stati l’atrio della più famosa casa di prostituzione cittadina) comincia a occuparsi del nuovo giornale “dentro il movimento” che si chiama con una felicissima tautologia anche visiva “Rosso”. Tenta anche, come potenziale insegnante, un qualche approccio con il mondo della scuola ma desiste subito. E “professionalizza” il suo impegno con il giornale. Della prima serie di Rosso escono una decina di numeri. Bella rivista. Ci scrivono compagni del calibro di Arrighi e di Madera.

C’est ne qu’un debut – il salto in avanti, lo dico credendoci ancora, è la crisi e lo scioglimento del Gramsci, l’incontro con gli ex PO del “gruppo Negri”, la nascita dei Collettivi Politici Operai, che subito tutti chiamano Rosso. Subito nel cuore del nuovo movimento, subito nel cuore di Milano. Rosso è immediato programma, fortissima urgenza di progetto: la militanza diventa subito appartenenza, impegno quotidiano, obbligo di tempi e di luoghi. Ma anche, oltre ogni formalismo e ogni ideologismo, nuove, più forti relazioni emotive e affettive tra i compagni, nuove forme sempre più libere di vita e di condivisione, spesso anche radicali ed estreme. Paolo è anche l’Esterno nel collettivo Siemens, ma il giornale lo assorbe sempre di più e gli offre sempre di più una quasi perfetta fusione di intenti politici e di lavoro culturale. È Paolo che dà corpo concreto a ogni numero, coordina la raccolta degli articoli, prepara i menabò, fa i titoli, impagina, segue la stampa in tipografia, organizza la distribuzione. Con Paolo, cresce sempre di più, numero per numero, la forza comunicativa di Rosso: controcultura, proletariato giovanile, femminismo sempre più forte e dirompente, movimenti di liberazione e di autovalorizzazione come quello omosessuale.

Scrive articoli che lasciano il segno: il suo pezzo più carico è del ‘75, si intitola “A Lenin non piaceva Frank Zappa”. Paolo descrive la tristezza del “militante perfetto [che] vive dei cascami della cultura riformista” eredità della Terza Internazionale, e a questo “comunista modello” intima che “… a noi piacciono i film western, quelli della ‘crisi’, il teatro-provocazione, il rock, i fumetti più illogici possibili, i libri senza martiri ed eroi, la riscoperta del proprio corpo […] e il comunismo lo pensiamo come una cosa molto lussuosa, dove nessuno starà in piedi su una zolla di terra a sudare piscia e sangue”.

“Il comunismo è giovane e nuovo”.

Certo è che Rosso, in ogni caso, è davvero nel cuore del nuovo movimento, si pone in maniera forte e autorevole (“Illegalità di massa”) al centro dell’Autonomia. Rosso è la Face di Fizzonasco, l’Esselunga di Quarto Oggiaro e di decine di altri negozi e supermercati, l’Assolombarda, la Stazione Centrale, la Face di Viale Certosa, la Siemens, l’Alfa; con Rosso partono le campagne contro i primi centri del lavoro nero, contro lo spaccio nelle “piazzette”, contro i presidi della repressione nei quartieri; nascono le reti sempre più larghe dell’AutOp, collettivi operai e proletari, circoli giovanili, gruppi di quartiere…

… Rosso della campagna contro il compromesso storico, Rosso contro ogni forma di riformismo, contro le illusioni del “lungo cammino attraverso le istituzioni”, contro ogni formalismo della politica e del suo ceto, anche quello di più recente vocazione…

Sembra una stagione che non tramonterà. Almeno nel nostro pianeta, nel nostro universo. Lasciamo ad altre pagine, non è questo il luogo, il racconto della fine, ingiusta e maliconica, soprattutto in un’altra galassia, dell’Autonomia e di Rosso. L’ultimo numero del giornale esce nella prima estate del ’78, la stagione sconvolta del “dopo Moro”.

Ci sono anch’io in tutto questo. Conosco Paolo praticamente agli inizi, perché vengo dal “gruppo Negri” e sono l’esterno della Face. Non posso dire di frequentarlo molto, se non nei momenti d’obbligo della nostra contigua militanza, anche se alcuni aspetti del suo carattere e della sua personalità non mi sfuggono: cultura a largo spettro, mai troppo ostentata, anche se al servizio di una dialettica spesso pungente però, e comunque mai ferma e in continuo movimento. Un carattere chiuso e mai condiscendente, che conserva tracce di timidezze e ritrosie, ma che all’occorrenza sa farsi sarcastico e vagamente aggressivo. Proverbiali anche certe sue esplosioni d’ira: non seconde anche a quelle di Francone. È proprio grazie a Francone, che con Paolo ha contatto continuo, e con me un rapporto molto stretto, che mi capita ogni tanto di incontrarlo a cena, in privato. Capita qualche volta anche lui, in ogni caso, al Torricelli o da Zia Carlotta. Inutile dire che ho comunque molta stima e considerazione per lui. E poi, siamo compagni, e compagni di Rosso, e questo è molto.

Dobbiamo cominciare a vederci spesso dopo il 7 aprile del ’79. Impegnati come possiamo, inutilmente, nella campagna contro le mostruosità del teorema Calogero e per la liberazione di Toni e degli altri compagni. Viene spesso a Roma, e andiamo a incontrare giornalisti, avvocati, qualche raro esponente del ceto politico e delle istituzioni. È con me la sera del 20 dicembre, io sarò arrestato all’alba del giorno dopo. È comunque anche lui ricercato: lo prendono nel marzo dell’80, e lo spediscono a Fossombrone. Lo rivedo a Rebibbia, quando dopo un po’ di mesi riusciamo a farlo uscire per il processo dal circuito dei camosci. Il nostro sodalizio, meglio: quello mio, di Paolo e Francone, è sempre più stretto. Il 7 Aprile dell’Aula Bunker pesa come un macigno, un anno e mezzo durissimo e combattutissimo, noi tre, stessa linea processuale, stessi avvocati, ma soprattutto stessa catena, stesso blindato, spesso anche la stessa panca nella gabbia. E come se ciò già non fosse “vera galera”, i continui e sempre più roboanti mandati di cattura che arrivano a valanga da altre città, da altre inchieste e da altri giudici. Sempre noi, Tommei, Pozzi e Funaro…

Paolo, comunque, continua sempre a essere se stesso: lucido, sempre fortemente critico, poco condiscendente ma sempre determinato e coraggioso, capace in ogni momento di offrire nel dialogo e nella discussione comune, che spesso tende a fuggire verso l’astratto e l’irreale, una sponda di concretezza e di intelligenza indispensabili.

Anni: poi finalmente la libertà. Per Paolo anche quella piena del nuovo futuro con Laura, e la loro figlia Irene, il lavoro, una certa fama di convincente narratore. Ma qui, come prima dicevo, deve terminare il mio racconto, da qui, come ho detto, oltre non so andare nella vita e nella morte di Paolo… del Pozzi, come lo chiamavamo con vezzo milanese.

Ma qualcosa, ancora, rimane da dirci. Con la tua fine tu mi hai chiamato, non poteva essere diverso, in quel tempo che abbiamo condiviso: scopro di trovarmi di colpo in un “non passato” che con la sua forza unisce la memoria e i ricordi al presente e li rende il nostro “qui e ora”. E io rispondo a questa tua inevitabile, necessaria chiamata. Della tua morte, Paolo, della tua fine, io mi sento, sono in qualche modo partecipe. Il dolore di Laura e di Irene mi arriva da vicino, nella “scena” del loro lutto sono silenziosa comparsa, non separato spettatore. Ed è in nome di questa mia presenza nel tuo “atto tragico” che ti rivolgo il mio chaire, il mio ave atque vale.

In memoriam Paolo Pozzi, gennaio 2016.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/in-memoriam-paolo-pozzi

 

7 aprile 1979: quando lo Stato si scatenò contro i movimenti

Dal blog di Paolo Persichetti, http://insorgenze.wordpress.com/ 
dicembre 21, 2010
 

Ogni volta che apre bocca Maurizio Gasparri ci ricorda che esiste il Cottolengo. Ma questo non è sempre un buon motivo per ignorare le sue sortite. La sua richiesta di scatenare contro il movimento “arresti preventivi”, l’accusa di “assassini potenziali” rivolta contro i manifestanti, danno voce in realtà a settori consistenti degli “apparati dello Stato” e pezzi di opinione pubblica reazionaria. I tentativi di dialogo con le forze di polizia sponsorizzati in questi giorni da alcuni giornali ed esponenti politici, come Veltroni, la ricerca di una mediazione con i manifestanti, mostrano tuttavia che negli apparati esistono linee diverse.
Liquidare l’offensiva repressiva lanciata dal presidente dei senatori Pdl, uno dei più servili maggiordomi del Berlusconismo che da ministro ebbe il compito di varare una riforma del sistema televisivo scritta dagli uffici studi di Mediaset, come un rigurgito fascista sarebbe un grave errore. Il nuovo “sette aprile” chiesto a gran voce dall’ex missino, fratello di un generale dell’Arma dei carabinieri, non fu uno strumento di repressione ripreso dal ventennio mussoliniano, ma un dispositivo di repressione giudiziario-poliziesco e politico-culturale, messo a punto dal partito comunista italiano, sostenuto con feroce coerenza dal giornale fondato e direto da Eugenio Scalfari. Il fatto che oggi sia un ex-post sempre fascista a reclamarlo chiama in causa gli eredi del Pci sparpagliati un po’ ovunque, nel Pd, nella Federazione della sinistra, in Sel o nell’Idv, alcuni persino nel Pdl. Se oggi chi milita in queste formazioni pensa che evocare il 7 aprile sia prova di fascismo, deve spiegarci perché allora venne congeniato quel modello di repressione dei movimenti e perché fino ad oggi non ne ha mai preso le distanze

 

Paolo Persichetti
Liberazione 22 dicembre 2010

Chi ha definito un rigurgito fascista la richiesta di un «nuovo 7 aprile» fatta da Maurizio Gasparri, cioè di «una vasta e decisa azione preventiva» da scatenare  contro i centri sociali ritenuti, a suo dire, i responsabili degli scontri avvenuti il 14 dicembre scorso a Roma, non ha detto una cosa giusta. Pietro Calogero, il pm di Padova che congeniò il teorema accusatorio firmando i primi 22 ordini di cattura che diedero via al blitz contro il gruppo dirigente dell’area dell’Autonomia operaia, tra cui Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, non era fascista. L’intera inchiesta, in realtà, fu preparata e supportata dal sostegno politico diretto del partito comunista, dall’azione di un suo dirigente locale, Severino Galante, dal lavoro riservato della sezione “Affari dello Stato” diretto da Ugo Pecchioli, dalla funzione di raccordo tra magistratura e sistema politico svolta da Luciano Violante. Membri del Pci erano alcuni dei testimoni chiave che consentirono di formulare la prima salva di accuse. In quegli anni il Pci dispiegò tutta la sua macchina organizzativa senza badare a sfumature per monitorare nei quartieri e nei posti di lavoro gli “estremisti” e i “sovversivi”, i cui nomi venivano poi affidati ai nuclei speciali del generale Dalla Chiesa. Addirittura intervenne sui giurati del processo di Torino contro il nucleo storico delle Br. Democristiano era invece Achille Gallucci, il giudice istruttore romano che lo stesso giorno spiccò altri mandati di cattura per «insurrezione armata contro i poteri dello Stato», avviando così il secondo troncone dell’inchiesta. Quell’episodio che molti giuristi, come Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, continuano a ritenere una delle pietre miliari dell’emergenza giudiziaria che ha scardinato il sistema delle garanzie giuridiche avviando anche quella cultura della supplenza giudiziaria, senza la quale non avrebbe mai visto la luce “Mani pulite”, che aprì la strada al berlusconismo, nacque nel cuore della stagione del compromesso storico, della linea della fermezza, del consociativismo che annullava ogni differenza tra maggioranza e opposizione. Il Movimento sociale, partito nel quale militava all’epoca l’attuale presidente dei senatori del Pdl, era fuori dell’arco costituzionale. La legislazione speciale, l’introduzione delle carceri speciali, gli spregiudicati metodi d’indagine che permisero l’arresto dei militanti dell’Autonomia, votati anche con l’assenso dell’opposizione parlamentare, resero di gran lunga più repressivo il capitolo dei delitti politici presente nel codice penale elaborato per punire gli antifascisti da Alfredo Rocco, guardasigilli del regime mussoliniano. Il modello 7 aprile introdusse il ricorso al «rastrellamento giudiziario», cioè la contestazione di reati associativi di vecchio e nuovo conio senza l’individuazione di fatti circostanziati, la cui prova veniva rinviata nel tempo grazie ad una custodia preventiva allungata a dismisura. Di fatto l’arresto si trasformava in un vera e propria pena anticipata scontata prima della sentenza. In questo modo le accuse si fondavano sul principio della “tipologia d’autore”, ad essere contestata era l’identità e la storia politica dell’imputato. Scelta motivata all’epoca con la necessità “prosciugare l’acqua dove nuota il pesce” per difendere lo Stato dall’attacco dei gruppi armati: l’anno prima era stato rapito e ucciso dalle Br il presidente della Dc Aldo Moro, attorno al movimento del ’77 si era diffusa un’area insurrezionale, un’arborescenza di sigle che alimentava azioni armate ovunque mentre il conflitto sociale era giunto all’apice. Pochi mesi prima era stato ucciso Guido Rossa. Tuttavia l’introduzione di quello che fu un vero “stato di eccezione giudiziario” venne sempre negata dalle forze politiche, ciò spiega il rimosso e il tabù attuale. La sinistra non ha mai fatto i conti con quella scelta, anzi col passar delle svolte e delle sigle l’ha iscritta a pieno nel proprio patrimonio culturale ritrovandosi nella paradossale situazione che vede oggi un fascista di allora rivendicarne con estrema naturalezza l’impiego. E’ stata la sinistra, spalleggiata dal partito-giornale di Repubblica, a mettere in piedi il micidiale modello repressivo e l’arsenale giuridico rivendicati oggi contro i movimenti da un personaggio come Gasparri. Quanto basta per avviare una riflessione critica mai veramente affrontata.

Fonte:

http://insorgenze.wordpress.com/2010/12/21/7-aprile-1979-quando-lo-stato-si-scateno-contro-i-movimenti/