Usa, Black lives matter. Che succede agli afroamericani?

Carnell Snell Jr, 18 anni, ucciso dalla polizia a Los Angeles. Nuova notte di proteste della comunità afroamericana. Una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia

di Antonello Zecca

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Ancora proteste negli Stati Uniti per l’uccisione di un altro afroamericano da parte della polizia la scorsa notte a Los Angeles. L’episodio è iniziato con l’inseguimento di un’auto che gli agenti ritenevano fosse stata rubata: il conducente non si è fermato e si è dato alla fuga. Ad un certo punto l’auto si è bloccata e un uomo ne è uscito fuggendo ed andandosi a nascondere sul retro di una casa. Lì è stato raggiunto dagli agenti che lo hanno ucciso. Pesante l’accusa di Black Lives Matter di Los Angeles: il 18enne Carnell Snell Jr è stato ucciso mentre teneva le mani in alto, ha denunciato con un tweet il movimento nato sui social media come hashtag dopo l’assoluzione del vigilante George Zimmerman, responsabile dell’uccisione di un altro ragazzo nero, Trayvon Martin.

Carnell Snell Jr, ricordiamocelo, questo nome. E poi Keith Lamont Scott, Ernest Satterwhite, Dontre Hamilton, Eric Garner, John Crawford III, Michael Brown, Levar Jones, Tamir Rice, Rumain Brisbon, Charly “Africa” Leundeu Keunang, Naeschylus Vinzant, Tony Robinson, Anthony Hill, Walter Scott.

È solo la punta dell’iceberg di una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia negli Stati Uniti, una mattanza che pare non avere fine, e anzi si intensifica ogni anno di più. Nel solo 2016 sono state uccise almeno 214 persone nere, seguendo la scia di un 2015 ancora più sanguinoso: 346 neri ammazzati. E ancora, il tasso di morti violente della popolazione nera per mano della polizia è più o meno costante dal 2013 (considerando solo gli ultimi tre anni), e tutte le statistiche mostrano dati inequivocabili: un nero ha tre volte la probabilità di essere ucciso dalla polizia che un bianco; il 30% delle vittime nere nel 2015 era disarmato rispetto al 19% delle vittime bianche; meno di un terzo dei neri assassinati dalla polizia nel 2016 era sospettato di un qualche tipo di crimine; nel 2014 in diciassette grandi città statunitensi la polizia ha ucciso cittadini neri ad un tasso superiore della percentuale generale di omicidi in quelle stesse città, e nel 97% dei casi nessun agente ha ricevuto alcun tipo di incriminazione.

Da questo schizzo pur disomogeneo emerge chiaramente la particolare “attenzione” di cui gode la popolazione nera (ma anche i bianchi poveri, come vedremo) presso tutti i dipartimenti di polizia del Paese, e che riflette una situazione di sostanziale subalternità politica, sociale ed economica strutturale degli afroamericani.

Mentre scriviamo, è il quinto giorno della rivolta di Charlotte, North Carolina, seguita all’omicidio di Scott, in cui centinaia e centinaia di manifestanti hanno invaso il centro città protestando contro la totale impunità della polizia. Una rivolta rabbiosa, che ha costretto il governatore dello Stato a decretare lo stato di emergenza nel tentativo di contenere la straripante indignazione per l’ennesimo omicidio di Stato. Nella seconda notte di scontri, un manifestante è stato colpito da un proiettile esploso dalla polizia, morendo poco dopo.  Al momento le manifestazioni proseguono e non è chiaro lo sviluppo che la situazione potrà prendere.

È tuttavia certo un fatto: il movimento Black Lives Matter (BLM), che qualcuno sperava potesse lentamente affievolirsi o arrendersi velocemente alla “ragionevolezza”, prosegue invece la sua marcia. Fondato da tre donne, Alicia Garza, Opal Tomezi e Patrisse Cullors, in seguito all’assassinio di Treyvor Martin nel 2012, il movimento è la prima risposta di massa della popolazione nera al razzismo e all’oppressione sistematica sofferti dagli afroamericani negli Stati Uniti dopo la fine dei grandi movimenti degli anni ’60, ’70 e gli inizi degli ’80.

Sebbene si ponga in ideale continuità con questi ultimi, BLM ha naturalmente caratteristiche peculiari al momento storico in cui è nato. A differenza dei suoi illustri predecessori, il contesto in cui si muove non può che essere profondamente influenzato da due fattori decisivi: la controrivoluzione neoliberista, di cui gli USA di Reagan furono capostipite insieme alla Gran Bretagna della Thatcher, e il consolidamento di un’ élite afroamericana assurta a ruoli di comando sia nella politica, che nella società e negli affari.

Questi due processi hanno segnato il passaggio da una fase di aperta discriminazione razziale e di segregazione, fondata prevalentemente su elementi naturalistici, ad una fase “post-razziale”, in cui l’inferiorità sociale degli afroamericani ha passato ad essere rappresentata ideologicamente con argomentazioni culturaliste e psicologistiche. Non che questi elementi fossero completamente assenti dalla prima fase ma sono assurti a motivazione dominante della discriminazione razziale in seguito all’emarginazione del razzismo tradizionale all’estrema periferia del discorso politico mainstream e all’affermazione ideologica del post-modernismo.

In maniera apparentemente paradossale, il razzismo di nuovo tipo è stato favorito dalla crescita del movimento per i diritti civili degli afroamericani che nel corso degli anni Sessanta e Settanta aveva consentito la crescita politica di leader neri che, principalmente nelle fila del Partito Democratico e grazie alle pressioni del movimento del tempo, cominciarono ad assurgere a cariche elettive a livello municipale e a ruoli di primo piano nella cosiddetta comunità degli affari.

Una volta consolidate queste acquisizioni, e in contemporanea con le controriforme liberiste all’opera sin dagli inizi degli anni Ottanta, cominciarono però ad essere visibili segnali di una tendenza che è ancora fortemente all’opera negli Stati Uniti: quanto più alle comunità afroamericane diventava necessario il rafforzamento dei servizi pubblici, la promozione dei diritti nei luoghi di lavoro, investimenti in scuola, cultura e formazione, tanto più le stesse amministrazioni locali governate dalla neonata élite nera si facevano custodi dello status quo e negavano nei fatti quegli stessi obiettivi per i quali i movimenti dei decenni precedenti avevano reso possibile la loro elezione, al fine di preservare la loro raggiunta posizione sociale.

È emblematico in tal senso il vergognoso comportamento di Barack Obama, che ha criticato in modo durissimo le rivolte e le proteste animate e sostenute dal BLM. Il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti ha infatti a più riprese stigmatizzato il movimento e la sua “violenza”, ammonendo i manifestanti a “smetterla di urlare” e ricordando che gli Stati Uniti sono un “Paese di leggi” e che le soluzioni ai problemi posti dal movimento avrebbero dovuto essere affidate ai “rappresentati legittimamente eletti”.

Tutto questo è stato al tempo causa ed effetto della disgregazione politica e organizzativa di quei movimenti che avevano animato la scena del Paese nei vent’anni precedenti e, in contemporanea con lo spostamento a destra sempre più marcato del Partito Democratico, si è venuta via via a cristallizzare una situazione per cui gli afroamericani, orfani di un riferimento politico/organizzativo autonomo di movimento, si sono affidati costantemente a quello stesso partito che nei fatti ha contribuito in maniera determinante a perpetuare la loro condizione di subalternità.

Ci sono stati, certo, episodi di rivolta di sicuro rilievo, come la “battaglia di Los Angeles” nel 1992, ma sono state esplosioni di rabbia, più che giustificata, che però non sono riuscite a tradursi nella strutturazione di un movimento duraturo. Con l’elezione di Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti, questa situazione era destinata a peggiorare, in concomitanza con l’approfondimento dell’offensiva neoliberista contro le condizioni del mondo del lavoro, i diritti sindacali e democratici, i servizi pubblici, la scuola e l’università pubbliche.

Questo è un aspetto decisivo, e non accessorio, della subalternità degli afroamericani nello Stato americano, e contribuisce a darne una motivazione non superficiale e impressionistica: in effetti, la condizioni della popolazione nera negli Stati Uniti non è comprensibile se non contemplando per intero la ineludibile dimensione di classe, di cui il razzismo (anche quello “post-moderno”) è in ultima analisi funzione.

Anche qui si comprende meglio il ruolo decisivo della polizia e, in generale, degli apparati armati dello Stato: poiché il loro compito fondamentale è proteggere e conservare l’attuale assetto della società dalle minacce esterne ed interne, è ovvia conseguenza che i quartieri poveri delle grandi città statunitensi, sia bianchi che neri, siano presi particolarmente di mira e soggetti ad un controllo asfissiante e a tratti parossistico. È questa una delle ragioni per cui la polizia è così aggressivamente restia a qualsiasi cambiamento o riforma che possa accrescerne la responsabilità nei confronti della pubblica opinione (accountability). Questi cambiamenti, se realmente applicati, ridurrebbero la capacità delle forze dell’ordine (capitalistico) di svolgere il proprio compito in modo efficiente ed efficace. È per questo che, al di là di parole di circostanza, i poteri costituiti non fanno nulla di concreto per cambiare la situazione.

Tuttavia tanto forte è la dimensione ideologica delle forme del razzismo contemporaneo, che la protesta contro l’oppressione quotidiana, anche nei confronti dell’élite nera, è spesso formulata dagli stessi afroamericani nell’accusa di agire “da bianchi”. La “bianchezza” (whiteness), contrapposta alla “negritudine” (blackness) è appunto espressione sul piano politico della persistenza ideologica del razzismo culturalista, che è sovente interiorizzato dagli afroamericani e a cui viene da essi data risposta rovesciandone il senso, ma in ultima analisi rafforzandone la presa, e puntellando l’ideologia dell’American Dream (peraltro sempre più in affanno a causa dei pesanti colpi ricevuti dalla crisi). Un effetto curioso di questo fenomeno è che nel discorso ufficiale i neri sono sovrarappresentati nella popolazione povera, sebbene in numeri assoluti la popolazione povera bianca sia di gran lunga superiore nel Paese. A sua volta ciò indebolisce la presa di coscienza che la propria oppressione non sia superabile se non in alleanza con il resto della classe lavoratrice bianca, povera o no, contro le élite bianche e nere, per cambiare radicalmente l’economia, la politica, la società intera. In altre parole, per rompere con il capitalismo.

L’unica speranza risiede nel rafforzamento del movimento, della sua capacità di cercare e trovare alleanze politiche e sociali, e, in ultima analisi, di disporre di strumenti politici indipendenti per affermare le proprie istanze di liberazione, che coincidono con quelle di tutti/e gli/le oppressi/e e gli/le sfruttati/e.

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/10/02/usa-black-lives-matter-che-succede-agli-afroamericani/

Spari a San Diego poliziotto uccide afroamericano

Polizia a San Diego

Un altro afroamericano ucciso da un poliziotto negli Stati uniti e questa volta è accaduto a El Cajon, vicino a San Diego in California. Poco dopo l’omicidio una folla di persone è scesa in strada nei pressi del commissariato di polizia, creando momenti di tensione. La polizia ha subito diramati comunicati attraverso i social network nei quali veniva specificato che la persona uccisa era disarmata «ma non con le mani alzate», aggiungendo che un video mostrerebbe la vittima nell’atto di prendere qualcosa da una tasca, puntandolo contro gli agenti.

Il capo della polizia di El Cajon, Jeff Davis, non ha voluto dire quale fosse l’oggetto che l’uomo ha estratto dalla sua tasca e puntato contro gli agenti, ma ha ammesso che non era un’arma.

Alcuni testimoni oculari che si sono uniti alla protesta sostengono che l’uomo é stato colpito quando aveva la mani alzate.

L’uomo ucciso soffriva di disturbi psichici: è quanto ha riferito alla polizia la sorella della vittima, secondo quanto riportato dal capo della polizia locale Jeff Davis. Circa 200 persone hanno protestato contro l’uccisione dell’uomo, che secondo alcuni amici di famiglia si chiamava Alfred Orlango e aveva 30 anni, secondo quanto riportato dall’edizione online del San Diego Union Tribune.

Sempre secondo gli amici di famiglia, l’uomo avrebbe avuto un crollo mentale: la polizia aveva ricevuto diverse segnalazioni di una persona che agiva in modo strano e camminava tra il traffico. Quando gli agenti lo hanno rintracciato, l’uomo si trovava dietro un ristorante e agli ordini dei poliziotti ha reagito estraendo un oggetto non identificato dalla sua tasca e glielo ha puntato contro tenendolo con entrambe le mani.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/spari-a-san-diego-poliziotto-uccide-afroamericano/

Charlotte, non si placa la rabbia: sfidato il coprifuoco, terza notte di scontri; morto un manifestante ferito

Venerdì 23 Settembre 2016 08:33

 

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Terzo giorno di proteste e scontri con la polizia a Charlotte. La comunità afroamericana non si dà pace, e non vuole sottostare al silenzio che si cerca di imporre manu militari nella città del Carolina. L’ondata di proteste ha raggiunto il centro-città, laddove ci sono stati i tentativi più decisi di disperdere la folla con lacrimogeni e bombe stordenti. Muore intanto un uomo di colore ferito per colpi di arma da fuoco nei primi giorni di scontri proprio a seguito dell’uccisione di Lamont Scott, accrescendo ancor di più la tensione, con il sindaco che ha dichiarato il coprifuoco notturno estendendolo a tutta la città.

Come se non bastasse l’arroganza dell’atteggiamento repressivo dei cops a Charlotte, è sopraggiunta la notizia di un’altra morte in appartamento per un 21enne afroamericano pestato da cinque agenti in Alabama.

Anche in questo caso la macchina mediatica del fango nordamericana si è messa repentinamente in moto, deviando l’attenzione sui comportamenti alterati del ragazzo che avrebbero portato alla segnalazione alle pattuglie di polizia che si sono mosse per fare poi irruzione nell’appartamento.

Cresce la solidarietà anche in altri stati federali, con varie marce e cortei, in particolare a New York, dove due notti fa un blocco improvvisato nei pressi di Manhattan ha portato all’arresto di 9 persone.

Frattanto, la continuità delle proteste e dei blocchi stradali a Charlotte sta mettendo in apprensione l’apparato istituzionale dello Stato Federale, portando al coprifuoco nelle strade, non rispettato dai manifestanti. La tensione è palpabile, anche perché il meccanismo protettivo delle guardie federali nei confronti del loro collega che ha ucciso Keith Lamont Scott (disabile) ha portato a dire che non risulterebbe chiaro se la vittima avesse in mano con sè un’arma da fuoco. Una comunicazione a mezzo stampa che stride fortemente con i testimoni oculari della scena del delitto, e di certo non placa la sete di giustizia nè può smorzare l’odio di chi è sceso in strada.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/metropoli/item/17631-charlotte-non-si-placa-la-rabbia-sfidato-il-coprifuoco-terza-notte-di-scontri-morto-un-manifestante-ferito

 

Leggi anche qui:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/17619-afroamericano-ucciso-a-charlotte-dalla-polizia-scoppia-la-rivolta-e-i-media-gettano-fango

Usa: nuove vittime di violenze della polizia contro i neri. L’America brucia

Violenti scontri sono scoppiati a Charlotte, in North Carolina, dopo che un poliziotto ha ucciso a colpi di pistola un uomo di colore armato che si era introdotto in un condominio.

I manifestanti hanno anche bloccato una parte dell’autostrada.

Le proteste di Charlotte seguono di poche ore la manifestazione contro la polizia tenutasi a Tulsa, in Oklahoma, per l’uccisione di un altro uomo e stavolta sono proprio le immagini che inchiodano gli agenti.

Terence Crutcher, questo il nome della vittima, era rimasto in panne con il suo suv in mezzo alla strada. I poliziotti si sono avvicinati e si vede che l’uomo mantiene sempre le mani sulla testa e bene in vista. Viene freddato quando fa il gesto di cercare qualcosa, forse i documenti, all’interno dell’auto, dopo che un agente sembra gli dica qualcosa.

Tutto il contrario di quanto affermato dalla polizia all’inizio. Gli agenti avevano accusato Crutcher di aver mantenuto un atteggiamento aggressivo. Ferito l’uomo è stato trasportato in ospedale, ma è arrivato già morto.

Crutcher era un pastore, un uomo di Fede senza una storia di violenze alle spalle.

La famiglia, qui la sorella, ha chiesto di non fare violenza e che le proteste siano pacifiche per rispetto della famiglia.

Difficile però che queste richieste vengano esaudite. Soprattutto perché le deposizioni degli agenti, prima che venissero alla luce le immagini, si sono rivelate l’esatto contrario di quanto si può osservare. L’uomo non ha mai rappresentato un pericolo per gli agenti.

Fonte:

 

Usa, polizia uccide 13enne afroamericano: aveva arma ad aria compressa

15 settembre 2016
Credit: Getty Images

Credit: Getty Images

Un 13enne afroamericano, armato di pistola ad aria compressa durante quella che inizialmente si pensava fosse una rapina a mano armata a una banca, è stato ucciso dalla polizia in Ohio. La giovane vittima è stata identificata come Tyree King.

 

 

 

La dinamica – Gli agenti, accorsi nel centro di Columbus dopo una segnalazione, si sono avvicinati a un gruppo di tre ragazzi che corrispondevano alla descrizione dei sospetti. Mentre due hanno cercato di fuggire, il terzo, riferiscono gli agenti, avrebbe estratto l’arma giocattolo, quella che in America viene chiamata Bb gun. Ed è a quel punto che il poliziotto avrebbe esploso i colpi che hanno ucciso a morte il 13enne. Un  testimone ha raccontato ai media locali di aver visto gli uomini in divisa che inseguivano due ragazzi e poi di aver sentito tre, forse anche cinque, spari.

 

 

Il caso precedente –  L’incidente è avvenuto a due anni dalla morte, sempre in Ohio, di Tamir Rice, il 12enne afroamericano ucciso da un agente che l’aveva visto con una pistola giocattolo in mano. L’uccisione provocò una serie di proteste nell’ambito del movimento Black Lives Matter. Lo scorso dicembre un grand jury ha deciso di non incriminare i due agenti coinvolti nella sparatoria, mentre ad aprile la città di Cleveland ha accettato di pagare 6 milioni di dollari alla famiglia Rice per chiudere il processo per violazione dei diritti  civili.

 

 

Fonte:

BRASILE: ALMENO OTTO UCCISIONI DI POLIZIA DURANTE LE OLIMPIADI

Forze di sicurezza in Brasile
Forze di sicurezza in Brasile

Il Brasile ha perso la più importante medaglia di Rio 2016: diventare campione dei diritti umani“, ha dichiarato Atila Roque, direttore generale di Amnesty International Brasile.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani, a Rio de Janeiro durante lo svolgimento delle Olimpiadi sono state uccise almeno otto persone nel corso di operazioni di polizia e manifestazioni pacifiche sono state duramente represse.

Le autorità brasiliane hanno perso un’occasione d’oro per dare seguito alla promessa di adottare politiche in materia di sicurezza che avrebbero reso Rio una città sicura per tutti. L’unico modo per rimediare ai molti errori commessi durante le Olimpiadi è quello di assicurare indagini efficaci sulle uccisioni e sulle altre violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia e assicurare i responsabili alla giustizia” – ha aggiunto Roque.

Nel 2016 le uccisioni ad opera della polizia sono aumentate di mese in mese mentre Rio si preparava a dare il benvenuto al mondo.

Secondo l’Istituto per la pubblica sicurezza dello stato di Rio de Janeiro, in città la polizia ha ucciso 35 persone ad aprile, 40 a maggio e 49 a giugno, con una media sempre superiore a un omicidio al giorno.

Operazioni di polizia segnate dalla violenza si sono svolte per tutta la durata delle Olimpiadi in diverse parti di Rio, tra cui Acari, Cidade de Deus, Borel, Manguinhos, Alemão, Maré, Del Castilho e Cantagalo. Tre persone sono state uccise a Del Castilho, quattro a Maré e una a Cantagalo. Il bilancio potrebbe aumentare se arriverà la conferma di ulteriori morti in due altre favelas, Acari e Manguinhos.

Gli abitanti di queste zone hanno denunciato altre violazioni dei diritti umani da parte della polizia, come irruzioni nelle abitazioni, minacce di morte e aggressioni fisiche e verbali.

La “guerra alla droga” e l’uso di armi pesanti nel corso delle operazioni di sicurezza hanno posto a rischio la vita degli stessi agenti di polizia, almeno due dei quali sono stati uccisi nei primi 10 giorni delle Olimpiadi.

Nella prima settimana di svolgimento dei Giochi (5-12 agosto), nella regione metropolitana di Rio hanno avuto luogo 59 scontri a fuoco (in media, quasi otto e mezzo al giorno), rispetto ai 32 della settimana precedente.

Nello stesso periodo, la violenza armata ha causato almeno 12 morti e 32 feriti, secondo Cross-Fire, una app lanciata a luglio da Amnesty International per segnalare episodi di violenza nelle favelas.

Le manifestazioni di protesta sono state durante represse dalle forze di polizia, sia all’interno che all’esterno degli impianti sportivi. Dal 5 al 12 agosto, proteste pacifiche sono state sciolte con violenza, anche mediante l’uso di gas lacrimogeni e granate stordenti. Diverse persone sono state arrestate mentre altre sono state allontanate dagli impianti sportivi per il mero fatto d’indossare magliette su cui erano scritti messaggi di protesta, in violazione del diritto alla libertà d’espressione.

A San Paolo, il 5 agosto, la polizia ha represso una manifestazione con estrema violenza arrestando 100 persone, tra cui almeno 15 minorenni.

Al termine dei Giochi olimpici ci ritroviamo con politiche di pubblica sicurezza ancora più militarizzate, basate su una repressione molto selettiva, sull’uso eccessivo della forza e sull’impiego di agenti di polizia nelle favelas come se fossero in azione da combattimento. Il risultato già si è visto: l’aumento del numero delle uccisioni e di altre violazioni dei diritti umani, soprattutto ai danni di giovani neri” – ha commentato Roque.

Ancora una volta, l’eredità di un grande evento sportivo svolto in Brasile è stata macchiata dalle uccisioni di polizia e dalle violazioni dei diritti umani ai danni di manifestanti pacifici. Il Comitato olimpico internazionale e altri organismi che si occupano di organizzazione di eventi sportivi non devono permettere che questi si svolgano a scapito dei diritti umani delle persone” – ha concluso Roque.

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/Brasile-almeno-otto-uccisioni-polizia-durante-olimpiadi

Bloccato con pistola taser: muore Dalian Atkinson, ex bomber dell’Aston Villa

Il tragico episodio a Telford, a ovest di Birmingham: gli agenti intervengono vicino casa del padre e in strada con la scarica che paralizza i movimenti immobilizzano il 48enne ex calciatore, che però va in arresto cardiaco. Aveva giocato anche con Ipswich Town, Sheffield, Real Sociedad, Fenerbahce, Metz e Manchester City

LONDRA – Lutto nel mondo del calcio britannico. L’ex attaccante Dalian Atkinson, 48 anni, è morto nella notte nello Shropshire, dopo essere stato colpito dalla scarica di una pistola taser utilizzata dalla polizia per immobilizzarlo. E’ accaduto a Telford, nelle Midlands Occidentali, a ovest di Birmingham, dove secondo quanto riporta la Bbc in seguito a una segnalazione la polizia del West Mercia è intervenuta alle due di notte nei pressi dell’abitazione del padre di Atkinson, l’85enne Ernest, dopo che l’ex calciatore in stato confusionale andava bussando alle case dei vicini lamentandosi di essere un “senzatetto”.

Il padre lo ha descritto come “molto agitato”, probabilmente sotto l’effetto di droghe o alcol. Gli agenti hanno bloccato l’ex calciatore in strada sparandogli con il Taser, la pistola elettrica che paralizza i movimenti facendo contrarre i muscoli. Qualcosa, però, deve essere andato storto, perché nonostante i soccorsi prestatigli dai sanitari l’uomo è morto per arresto cardiaco durante il tragitto in ambulanza verso l’ospedale. Una commissione indipendente indagherà ora sul caso, destinato a riaprire le polemiche sull’arma in uso alla polizia che dovrebbe essere meno letale delle pistole ma che ha già causato numerosi decessi. Secondo uno studio di Amnesty International, tra il 2001 e il 2012 negli Stati Uniti ci sono stati più di 500 decessi dovuti all’uso di Taser. Alcuni stati stanno prendendo in considerazione la possibilità di introdurre criteri normativi più restrittivi, in risposta alla crescente preoccupazione per la scarsa sicurezza degli strumenti.

ATTACCANTE MAI DIMENTICATO DAI TIFOSI DELL’ASTON VILLA – Atkinson in carriera aveva segnato 38 gol in 114 partite con l’Aston Villa ed è ricordato dai tifosi dei Villains per la rete del 1994 che valse la conquista la Coppa di Lega nella finale contro il Manchester Utd (3-1) e per aver firmato il ‘Match of the Day gol’nel campionato 1992-93 sul terreno del Wimbledon. Tra le sue squadre in sedici stagioni da professionista, con una convocazione nella Nazionale B inglese, anche Ipswich Town, dove aveva cominciato, Sheffield Wednesday, Real Sociedad, Fenerbahce, Metz e Manchester City, prima di chiudere l’esperienza da calciatore fuori dall’Europa con Al-Ittihad, Daejeon Citizen e Jeonbuk Hyunday Motors.
I MESSAGGI DI CORDOGLIO DI CLUB ED EX COMPAGNI  – “Riposa in pace Dalian Atkinson.Non sarai mai dimenticato!”, il tweet che gli ha dedticato proprio l’Aston Villa. Anche Paul McGrath, leggenda del club di Birmigham, ha commentato la scomparsa di Atkinson definendo il suo ex compagno di squadra come “grande parte della famiglia Aston Villa”. Dal canto suo l’Ipswich Town, dove l’ex calciatore aveva iniziato la carriera, sempre su twitter ha scrito che la sua morte è “una notizia terribilmente triste”.

Fonte:

Cella zero, 22 agenti indagati per i pestaggi nel carcere di Poggioreale

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A Gennaio 2014 Fanpage.it, in un servizio esclusivo, raccoglie la testimonianza di un ex detenuto che apre lo squarcio decisivo sull’orrore della “cella zero” del carcere di Poggioreale. Ma le denunce – scopriamo –  erano già 40, ed erano tra le mani della Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco. Pareti sporche di sangue, maltrattamenti, percosse, timpani perforati a suon schiaffi e pugni. “Erano le dieci e mezza di sera. All’improvviso, senza motivo sono stato portato giù nella cella zero: le guardie mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno picchiato, mi hanno umiliato”: così iniziava l’intervista realizzata dal nostro giornale, che raccontava l’esistenza di una “cella zero” e di indicibili violenze. Una Abu Ghraib napoletana.

Una lunga battaglia contro le violenze in carcere

Ma erano anni che si parlava di una cella degli orrori. Il primo a denunciarne l’esistenza, nel 2012, è stato Pietro Ioia, attivista per i diritti dei detenuti, presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani, che contro i maltrattamenti nel carcere napoletano ha ingaggiato una lunga battaglia. Sempre nel 2012, dopo la denuncia di Ioia, l’associazione “Il carcere Possibile”, guidata a quei tempi dall’avvocato Riccardo Polidoro, presentò un esposto in Procura a Napoli. Nel 2014, a seguito del servizio e della conseguente bufera mediatica, fu aperta un’altra inchiesta condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, che accorpò anche la precedente. Poi seguì una visita della Commissione Libertà Civili del Parlamento europeo e la direttrice, Teresa Abate, fu sollevata dall’incarico e trasferita in un’altra sede. Anche l’associazione Antigone Campania e i Radicali ebbero parole dure per quella modalità di gestione del carcere, improntata sulla violenza. L’esistenza della cella espressamente “adibita” ai pestaggi non sembra aver trovato ancora riscontri specifici nell’attività investigativa, ma ci sono 22 agenti indagati e un medico per lesioni e abuso di mezzi di correzione nei confronti dei detenuti.

L’inchiesta della Procura di Napoli

L’inchiesta della Procura di Napoli, condotta dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto e coordinata dal pm Alfonso D’Avino, è molto complessa ma stamattina sono arrivati i 23 avvisi di conclusione delle indagini: ora bisognerà capire se per gli indagati si deciderà il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Al di là della verità giudiziaria, che emergerà, c’è quella raccontata, vissuta, incisa sulla pelle degli ex detenuti. “Dopo le denunce, con il nuovo direttore non arrivano più notizie di pestaggi e violenze sui detenuti – racconta Pietro Ioia – E’ un risultato straordinario. Io per primo ho subito tante volte violenze all’interno di quel carcere. Anche per futili motivi, come nel 1995: mi pestarono a sangue perché avevo un mazzetto di carte in cella, con il quale passavo il tempo. Una volta, negli anni Ottanta, sono stato anche incappucciato e minacciato con un cappio”. Ma Ioia non era certo un’eccezione: “Negli anni ho visto centinaia di detenuti con i timpani spaccati e gli ematomi sul corpo”.  Tanto è stato fatto, dopo la bufera, ma tanto resta ancora da fare: “Per trent’anni c’era una squadretta, un gruppo fisso di persone – racconta – Da quello che so, le guardie indagate non hanno più contatti con i detenuti”. Se ci sarà un processo, annuncia Ioia, l’associazione degli ex detenuti napoletani si costituirà parte civile: “Oggi è un’ulteriore conferma che ho sempre detto la verità, nonostante i tanti attacchi ricevuti per questo”.

Il carcere di Poggioreale sta lentamente cambiando

Dopo lo scandalo, il direttore del carcere di Poggioreale, da due anni, è Antonio Fullone: dagli ambienti penitenziari trapela una relativa serenità rispetto a quanto sta accadendo, si era preparati all’eventualità di uno sviluppo delle indagini in questo senso e negli anni si è cercato di rasserenare il clima tra guardie penitenziarie e detenuti, seppur in un contesto complicatissimo – sovraffollamento, inclinazione alla violenza, condizioni a volte fatiscenti del carcere – e ora un primo risultato raggiunto sembra essere una complessiva diversità relazionale. Contestualmente, ci sono stati alcuni cambiamenti all’interno della casa circondariale che – ricordiamo –  tra il 2013 e il 2014 è stata nell’occhio del ciclone e sotto i riflettori dell’Europa, pietra dello scandalo per la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Si è avviata la ristrutturazione di alcuni padiglioni, avviate alcune azioni di manutenzione straordinaria, sono state raddoppiate le ore di passeggio, si stanno introducendo varie attività e si stanno sperimentando le celle aperte, almeno in una parte dell’istituto di pena. Ma tanto resta ancora da fare: basti pensare che Poggioreale è di nuovo sovraffollato, e quest’anno ha toccato e superato più volte la soglia dei 2mila detenuti. Sul versante della violenza, dagli ambienti penitenziari c’è chi pone l’accento sul lavoro psicologico e di accompagnamento che si sta facendo, un cambiamento culturale assolutamente necessario. ( Gaia Bozza da Fanpage )

Poggioreale/Antigone. “Bene si faccia chiarezza. Se le denunce fossero provate, ancora una volta mancherebbe il reato di tortura”

Si è chiusa oggi l’inchiesta sulle violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Poggioreale – e in particolare nella cosiddetta “cella zero” – tra il 2012 e il 2014. A denunciarle furono alcuni detenuti che, direttamente, avrebbero subito tali violenze per le quali oggi 23 persone (22 agenti di polizia penitenziaria e un medico) risultano indagate.

La cella zero sarebbe una stanza vuota, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti.

I reati ipotizzati a vario titolo dalla Procura di Napoli – che segue l’inchiesta – vanno dal sequestro di persona, all’abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni, violenza privata.

“Ogni tentativo di fare chiarezza è sempre importante, soprattutto nei casi di violenze che avvengono quando un cittadino è sottoposto all’affidamento dello Stato” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Quello che ci auguriamo è che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili”.

“In episodi come quelli denunciati nel carcere di Poggioreale, infatti, il rischio di prescrizione, proprio nei casi di colpevolezza, è sempre molto alto poiché spesso le denunce avvengono molto tempo dopo i fatti, anche per paura di eventuali ritorsioni finché si è sottoposti a custodia” prosegue Gonnella che sottolinea come, dai primi casi che emergerebbero da queste denunce, sarebbero già passati 4 anni.

“Purtroppo, se i fatti denunciati corrispondessero a realtà, dovremo constatare ancora una volta come in Italia manchi il reato di tortura poiché, soprattutto le violenze che sarebbero avvenute nella cella zero, questo sono”. “Reato di tortura – sottolinea ancora il presidente di Antigone – che eviterebbe anche il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità”.

“Per tale ragione – conclude Gonnella – chiediamo che non si perda ulteriormente tempo e a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile”.

Un ulteriore elemento riguarda la questione dell’isolamento.

“Benché la cella zero, se fosse riconosciute le accuse, rappresenterebbe un luogo che va al di là di ogni regolamento – sottolinea ancora Gonnella – l’isolamento è un particolare regime dove, più facilmente, possono avvenire violenze. Rappresenta inoltre una soluzione particolarmente afflittiva che spesso porta i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi”. “Per questa ragione – conclude Gonnella – abbiamo da poco presentato una proposta di legge, invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato di farla loro, per una riforma profonda di questo regime”.

La proposta di legge di riforma dell’isolamento e alcuni degli episodi avventui in questi reparti nel corso degli anni.

 

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Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/cella-zero-22-agenti-indagati-pestaggi-nel-carcere-poggioreale/

RIO 2016 TRA FUOCO DELLE ARMI E TORCIA OLIMPICA

Road to Rio Ep 14

Pubblicato il 06 ago 2016

Una giornata speciale di sicuro quella vissuta a Rio de Janeiro il giorno della cerimonia di apertura dei Giochi. La torcia che diventa fiamma, i controlli passati senza pass o biglietto, le difficoltà di chi vive nelle comunità attorno al Maracanà. Ma anche i fischi a Temer e una Rio ancora ritrosa al lasciarsi andare a questi Giochi.

Fonte:

 

[Ivan Grozny Compasso] Vigilia. Nella favela di Chapadão ieri una dozzina di morti. Per la sicurezza. Lungomare off limits, senza tetto sempre nel mirino e trasporti pubblici sotto pressione. Reportage fra le pieghe della città. Lontano dai riflettori dei Giochi, dalla fiera degli sponsor o dalla passerella delle autorità, si lotta per la vita quotidiana

«Buona notte, famiglia. Sono venuta a tagliarmi i capelli, vicino dove abito, qui nella favela do Chapadão. Non riesco ad andare a casa, è dalle sette che sono qui, ci…
ilmanifesto.info
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Oggi su Il Manifesto, un sacco di cose. Ma tante proprio.
Per fortuna, o forse no, Rio le sa tenere insieme.
https://www.youtube.com/watch…

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https://www.youtube.com/watch… la torcia arriva a Copacabana. Al “punto mio libera tutti”. Territorio sicuro, finalmente… Ed è subito carnevale. Super blindata, è stata una fatica portarla fino qui. Però ora se la godono e gli sponsor si sbizzarriscono. Ma alla fine la “rua”, la strada, è della gente.

La torcia è arrivata a Copacabana. Se nella periferia Nord la fiamma olimpica è passata di tutta fretta, per le strade di Copacabana tutta un’altra musica. Q…
youtube.com
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