Perché nelle carceri brasiliane c’è così tanta violenza

Il carcere Pedrinhas a São Luís, in Brasile, il 27 gennaio 2015. - Mario Tama, Getty Images
Il carcere Pedrinhas a São Luís, in Brasile, il 27 gennaio 2015. (Mario Tama, Getty Images)
  • 10 Gen 2017 17.04

L’ondata di violenza che c’è stata all’inizio dell’anno nelle carceri del Brasile ha puntato i riflettori su un sistema ormai al collasso. Quasi cento detenuti sono morti solo nella prima settimana di gennaio, uccisi mentre le guardie erano apparentemente incapaci di fermare lo spargimento di sangue. Come si è arrivati a questo?

  • Il primo problema è il sovraffollamento, spiega la Bbc. Un giro di vite nei confronti dei reati violenti e legati alla droga ha visto negli ultimi quindici anni la popolazione carceraria del Brasile aumentare. La prigione nello stato di Roraima, dove il 6 gennaio sono stati uccisi 33 detenuti, ospita 1.400 persone, il doppio della sua capacità. Il sovraffollamento rende difficile per le autorità carcerarie mantenere separate le fazioni rivali. E causa l’aumento della tensione all’interno delle celle, con i detenuti che si disputano le limitate risorse, come materassi e cibo.
  • Il secondo problema è la guerra tra bande rivali. Le uccisioni sono comuni tra le mura delle prigioni brasiliane – 372 detenuti sono morti in questo modo nel 2016, secondo la Folha de São Paulo – ma questo aumento è da collegarsi alla rottura di una tregua che vigeva da quasi vent’anni tra due delle più potenti bande del paese. Fino a poco tempo, il Primeiro comando da capital, di São Paulo, e Comando vermelho, di Rio de Janeiro, avevano un rapporto di collaborazione, presumibilmente per garantire il commercio di marijuana, cocaina e armi nelle città e oltre i confini del Brasile. Recentemente la pace è finita, anche se le ragioni sono poco chiare. E vista la repressione del governo nei confronti delle bande criminali, ci sono migliaia di persone appartenenti a entrambe le bande rinchiusi nelle carceri brasiliane.
  • Terzo problema è la mancanza di risorse. Molte carceri brasiliane sono sottofinanziate. In seguito alle ultime rivolte il governatore dello stato ha chiesto al governo federale attrezzature come metal detector, braccialetti elettronici e dispositivi per bloccare il segnale telefonico dentro le carceri. La sua richiesta mostra la mancanza di attrezzature di base anche in carceri molto affollate. Il governatore ha anche chiesto l’invio di forze federali. Male addestrate e mal pagate, le guardie carcerarie devono affrontare spesso detenuti che non solo sono più numerosi, ma inoltre sentono di avere poco da perdere visto che già devono affrontare condanne lunghe. Il governo brasiliano ha annunciato un piano per modernizzare il sistema, ma visto che il paese si trova nella peggiore recessione degli ultimi decenni e la spesa pubblica è bloccata per vent’anni, è difficile vedere come possa finanziarlo.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2017/01/10/brasile-carceri-violenza

Grecia: due attivisti baschi disobbediscono ai controlli di frontiera. Arrestati

Mikel e Bego sono due attivisti baschi del collettivo “acogida solidaria/harrero solidario”. Nella notte tra il 27 e il 28 dicembre sono stati arrestati nel porto di Igoumenitsa, in Grecia. Erano diretti a Brindisi e all’interno del loro camper trasportavano otto rifugiati intrappolati nel paese ellenico da troppo tempo e stanchi di attendere una “ricollocazione” in un altro paese europeo che potrebbe non arrivare mai.

Prima di partire avevano annunciato in un video che il loro gesto non aveva alcun interesse economico e che si sarebbero assunti tutti i rischi e le responsabilità del caso. L’azione si inserisce in una più vasta campagna di disobbedienza contro le frontiere e per la libertà di movimento, organizzata nei Paesi Baschi e sostenuta da diversi collettivi. «Dichiariamo pubblicamente di aver trasportato illegalmente persone rifugiate e annunciamo di assumere le conseguenza di questa iniziativa a partire dalla non collaborazione con questa barbarie comparabile ad altri grandi stermini della storia», dichiarano i due attivisti in un video diffuso su twitter. E continuano: «Obbediamo ai diritti umani e disobbediamo apertamente ai governi europei che hanno convertito le frontiere in luoghi di morte, tensione e disumanizzazione per migliaia di persone». «Mentre i governi continuano a legalizzare i saccheggi e a violare i diritti umani […] abbiamo il diritto di disobbedire trasportando persone rifugiate e facendo dei Paesi Baschi una terra d’accoglienza».

La abogada de Bego y Mikelon aun no ha sido citada para la declaración. Eso significa que quedan varias horas. Iré informando de lo que sepa

El colectivo ACOGIDA SOLIDARIA/HARRERA SOLIDARIOA me ha enviado un vídeo en el que Mikel y Bego reivindican la acción de desobediencia civil pic.twitter.com/aUK7ckuMnq

Il giornalista Hibai Abide Aza, che seguiva da vicino l’azione, ha raccontato su pikaramagazine che tra i rifugiati nascosti nel camper c’era una ragazza afghana in cinta di sei mesi, una donna transessuale, vittima di ogni tipo di vessazioni durante il viaggio iniziato un anno fa in Pakistan, e alcuni giovani siriani, iracheni, afghani e iraniani. Sono solo alcuni degli oltre 60.000 rifugiati che, secondo le cifre ufficiali fornite dal governo, sono rimasti intrappolati in Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica e vivono in condizioni terribili negli indegni campi profughi creati al di fuori delle città greche. In attesa di un trasferimento in un altro paese europeo che potrebbe non arrivare mai, data la lentezza e l’inefficacia del sistema di ricollocamento tra I paesi europei.

Secondo quanto riferiscono alcune fonti che si trovano sul posto, sei tra i rifugiati fermati sono stati rilasciati questa mattina. Altri due sono ancora nei locali della polizia greca perché non avevano documenti e sono stati costretti a presentare domanda d’asilo. I due attivisti, invece, sarebbero stati trasferiti in carcere. Nelle prossime ore saranno interrogati dal giudice, che probabilmente disporrà la custodia in carcere, visto che i due non sono greci ed esiste il rischio di fuga. Probabilmente, saranno accusati di traffico di esseri umani, un reato che comporta pene molto severe. Dopo l’arresto, Mikel e Bego hanno dichiarato: «Non abbiamo paura e siamo disposti ad assumerci le conseguenze di un atto che ci sembra assolutamente legittimo. Lo diremo anche al giudice».
Firma la petizione per chiedere la libertà dei due attivisti.

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/grecia-due-attivisti-baschi-disobbediscono-ai-controlli-di-frontiera-arrestati

 

 

 

28 dicembre 1980, inizia la rivolta nel carcere speciale di Trani

Dal blog di Salvatore Ricciardi:

 

Il 28 dicembre 1980, alle ore 15,20 inizia la rivolta nel carcere speciale di Trani.

vedi  quiquiqui,

gis-arivolte

Fonte:

https://contromaelstrom.com/2016/12/28/28-dicembre-1980-inizia-la-rivolta-nel-carcere-speciale-di-trani/

Rivolta nella prigione di Port Elizabeth

Dal blog di Salvatore Ricciardi:

 

Sudafrica, rivolta nella prigione di Port Elizabeth. 3 morti e 26 feriti.

Nel carcere St. Albans, appena fuori Port Elizabeth, teatro della rivolta, sono arrivati elicotteri, ambulanze e veicoli di emergenza. I dati diffusi finora dalle autorità parlano di 3 morti e 26 feriti, ma non sappiamo quanti detenuti tra questi.

Nella stessa prigione, nel settembre 1977, Stephen Biko, leader del movimento anti-apartheid – il Black Consciousness Movement (“movimento per la coscienza Nera”), un movimento sorto dalla frustrazione degli africani colti, che vedevano preclusa dall’apartheid ogni tipo di libertà. Il BCM si articolava in tre organizzazioni: un’associazione politica (Black Peoples’ Convention), una centrale sindacale (Black Allied Workers’ Union) e una lega studentesca (South African Students’ Organisation). biko

Il 18 agosto 1977, Biko era stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Port Elizabeth per un mese e sei giorni. Durante la detenzione era stato sottoposto a interrogatori e torture dolorose e umilianti. Aveva subito anche una grave lesione al cranio, colpito con una spranga di ferro più volte. L’11 settembre 1977 la polizia aveva deciso di trasferirlo al carcere di Pretoria, che aveva una struttura sanitaria. Con una frattura al cranio, Biko non resse. Il giorno seguente, il 12 settembre 1977, dopo aver viaggiato per 1100 km nel baule di una Land Rover, morì poco dopo l’arrivo per lesioni cerebrali, ma la polizia sostenne che la morte era stata causata da un prolungato sciopero della fame. La successiva autopsia stabilì che la morte era conseguenza delle numerose contusioni e delle lesioni massive alla testa. I giornalisti che indagarono sull’assassinio furono costretti a scappare dal Sud Africa a causa delle persecuzioni della polizia e nessuno dei due poliziotti colpevoli delle percosse fu mai processato dal governo bianco, né dal successivo governo “democratico”. Al suo funerale parteciparono decine di migliaia di persone.

Port Elizabeth è una delle principali città portuali del Sudafrica situata nella Provincia del Capo Orientale, sulla costa meridionale (Oceano Indiano), distante 800 km da Città del Capo a Ovest e 800 km da Durban a Est.  Durante la Seconda Guerra Boera (1899-1902), gli inglesi costruirono a Port Elizabeth un campo di concentramento per i prigionieri boeri.

 

 

Fonte:

https://contromaelstrom.com/2016/12/28/rivota-nella-prigione-di-port-elizabeth/

Per la morte di Antonio Fiordiso, picchiato in cella, otto medici indagati

Otto iscritti al registro degli indagati per la morte di Antonio Fiordiso, il detenuto morto in ospedale l’ 8 dicembre 2015. Sono finiti sotto inchiesta i medici che erano di guardia all’ospedale di Taranto quella notte. Risultano tutti indagati per avere, per ragioni in corso di accertamento, causato per negligenza, imperizia e imprudenza la morte di Antonio Fiordiso.

La sostituta procuratrice della Repubblica Maria Grazia Anastasia ha anche disposto “accertamenti tecnici irripetibili”, come aveva richiesto il gip Pompeo Carriere, accogliendo la richiesta di Oriana Fiordiso, zia di Antonio e sua unica parente. Si spera che verrà fatta luce per questo 31enne di San Cesario di Lecce, arrestato anni prima per rapina.

Dopo un ultimo colloquio nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce i suoi familiari lo hanno rivisto ormai in coma. Nessuno li aveva avvertiti. Lo stato in cui lo trovarono era disumano: irrigidimento degli arti e atrofie muscolari, in dialisi per intensa disidratazione, lividi evidenti sul corpo, commozioni cerebrale e intercostale, impossibilità a parlare. Il primario confermò che era arrivato in ospedale in stato comatoso, con polmonite così avanzata che era divenuta una setticemia ormai diffusa anche nel sangue; operato d’urgenza ai reni per la forte disidratazione. Poi nel giorno dell’Immacolata del 2015, il ragazzo spirò presso il reparto di rianimazione dell’ospedale “San Giuseppe Moscati” di Taranto. Senza che i suoi parenti abbiano potuto parlargli, e conoscere la verità. Alle interrogazioni dei deputati Elisa Mariano e Salvatore Capone ( Pd), il ministro della Giustizia aveva risposto ricostruendo gli ultimi mesi di vita. Così si apprese che Antonio era stato picchiato in carcere da alcuni detenuti di origine rumena. Una ricostruzione tutta ancora da verificare.

Damiano Aliprandi da il dubbio

Tratto da

http://www.osservatoriorepressione.info/la-morte-antonio-fiordiso-picchiato-cella-otto-medici-indagati/

Polizia violenta a Standing Rock, arrivano i marines nativi

North Dakota. Decine di feriti e arresti non fermano la protesta contro l’oleodotto e a difesa dell’acqua nelle terre dei Lakota. Esercito in campo per sgomberare i manifestanti, che però avranno al loro fianco una milizia di veterani di guerra disarmata, ma dotata di giubbotti antiproiettile e maschere antigas. Battaglia annunciata per il 4 dicembre

Blocco stradale sull’autostrada all’altezza di Mandan, Nord Dakota

Ormai dalla scorsa primavera le popolazioni Lakota, attualmente con più di 6.000 nativi americani arrivati da diverse aree del Paese, sono accampati a Standing Rock, in Nord Dakota, per difendere le loro terre ancestrali dal mega oleodotto di 300km di lunghezza, voluto da governo e multinazionali in violazione dei trattati firmati in difesa delle terre indiane, che metterà a repentaglio le falde acquifere e le loro stesse vite, assieme a quelle delle generazioni future.

In questo momento drammatico in cui il Ku Klux Klan festeggia l’avvento del nuovo presidente Donald Trump, le popolazioni indigene sono precipitate nel terrore di nuovi Wounded Knee, nuove repressioni, nuovi massacri, nuove deportazioni contro i pacifici protettori dell’acqua riunitisi a Standing Rock.

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Lauren Howland del gruppo Jicarilla Apache sfida la polizia a Standing Rock (foto Jenni Monet/PBS)

PROTESTE DECISE ma pacifiche, a cui il governo ha finora risposto in modo repressivo e violento, con l’utilizzo di cani da combattimento, cannoni ad acqua, proiettili di gomma che hanno causato decine di feriti gravi e l’arresto di innumerevoli attivisti.
Ora nell’area sono arrivati anche centinaia di Veterani Nativi, che hanno messo per anni la loro vita in gioco per l’America e che ora lo fanno per difendere le proteste a difesa di questa terra. Dopo aver assistito ai brutali metodi utilizzati dalla polizia nei confronti dei nativi americani di Standing Rock, un centinaio di veterani statunitensi, appartenenti al corpo dei marines, hanno deciso di unirsi alle proteste degli indiani per difenderli dagli attacchi ingiustificati della polizia. Essi affermano: «Siamo veterani delle forze armate degli Stati uniti e chiediamo ai nostri compagni veterani di mettere assieme una milizia disarmata allo Standing Rock Indian per il 4 dicembre, per difendere i protettori dell’acqua dalle aggressioni e dalle intimidazioni messe in atto dalla polizia».

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Gli ex soldati hanno affermato anche di essere disposti a beccarsi un proiettile pur di difendere la causa indiana. Indosseranno le loro vecchie uniformi militari, ma anche giubbotti antiproiettile e maschere anti-gas, sapendo che la polizia sparerà lacrimogeni contro di loro. L’ex marine Michael Wood, ha anche aggiunto: «Questo Paese sta reprimendo la nostra gente. Se vogliamo essere davvero quei veterani che il nostro Paese ammira, allora è nostro dovere difendere la Costituzione dai nostri nemici interni che non la rispettano».

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La Guardia nazionale a difesa del Dakota Access Pipeline (foto Jenni Monet/PBS)

PROPRIO IL 4 DICEMBRE sarà infatti il giorno in cui è previsto lo sgombero del grande accampamento e l’arresto di tutti coloro che si opporranno. L’esercito è già sul luogo, pronto a intervenire con gli stessi carri armati speciali utilizzati in Iraq. I protettori dell’acqua non sono disposti a fare un passo indietro, quindi si rischierà una vera carneficina.
Per supportare le popolazioni native, il 27 novembre c’è stata una mobilitazione a Standing Rock culminata in un concerto a cui hanno partecipato Jackson Browne, Bonnie Raitt, la band John Trudell Bad Dog, Quiltman, Mark Shark, Ricky Epstein, Jane Fonda, Heather Rae Sage e molti altri.

Dal carcere di Coleman, Florida, il prigioniero politico Leonard Peltier, da 41 anni dietro le sbarre, ha scritto una lettera di sostegno alla nuova resistenza indigena di Standing Rock.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/polizia-violenta-a-standing-rock-arrivano-i-marines-nativi/

 

Qui la lettera di Leonard Peltier:

http://ilmanifesto.info/peltier-dal-carcere-di-coleman-florida-sono-li-con-voi/

Campagna contro la dispersione dei prigionieri e prigioniere politiche basche #dispersiOFF

baschi

La politica di dispersione é una politica di vendetta, umiliazione e logoramento dei prigionieri politici baschi e dei suoi familiari. La politica di dispersione é una politica speciale e discriminatoria applicata per i governi spagnoli e francesi da quasi tre decadi ai prigionieri e alle prigioniere politiche basche contro i principi del codice penale spagnolo “compimento della condanna dove il recluso tenga le sue radici sociali.
Le carceri spagnole sono distribuite per tutto il territorio nazionale e questo permette che i detenuti possano scontare la propria condanna nella istituzione più vicina al suo posto di origine e evitare così lo sradicamento familiare e sociale”. La politica di dispersione fu disegnata con l’obbiettivo di sradicare i e le prigioniere dal loro intorno sociale, affettivo e familiare, un altro obbiettivo é negare il suo diritto a partecipare alla vita politica del suo paese. 354 prigioniere e prigionieri baschi sono dispersi in 76 carceri degli stati spagnolo e francese, in più un prigioniero é detenuto in un carcere del Portogallo e una prigioniera in Svizzera.
La dispersione ha conseguenze chiare per i familiari e amici dei prigionieri e prigioniere politiche basche:
1. Il prezzo medio di una visita a Algeciras é di 185 euro per persona, alla prigione francese di Bapaume ( 1100 km) e di 325 euro. A tutto questo bisogna sommare i 200 euro mensili che abbisogna come minimo ogni prigionier@ detenuti in carceri spagnole per le spese basiche ( telefono, igiene personale…).
2. La dispersione e separazione dei prigionieri nei differenti moduli dello stesso carcere, porta ad avere differenti giorni e ore per le visite. Tutto questo rende difficile organizzare i viaggi ( condividendo macchina per esempio) per ridurre costi, fisici e economici.
3. L’affaticamento fisico che viene dal dover guidare senza riposo dopo una settimana di lavoro, fare il viaggio al carcere, fare il viaggio di ritorno e incominciare una nuova settimana di lavoro.
4. Il peso fisico e psichico che esigono questi viaggi con neonati e bambini e quello che significano questi viaggi per i piú piccoli come per le persone in avanzata età o con problemi di salute come ridotta mobilità.
5. Parliamo di situazioni che si prolungano durante anni e durante decadi e che difficilmente possono essere sostenute dalle condizioni di vita e economiche di un normale lavoratore.
6. Durante gli ultimi 3 anni sono successi 22 incidenti duranti i viaggi alle carceri che hanno coinvolto 86 familiari.
7. La politica di dispersione ha causato negli anni 17 vittime mortali. I valori di solidarietà della società basca e della solidarietà internazionale sempre sono serviti per alleggerire questo peso. La disponibilità a visitare prigionieri, i contributi economiche, autisti volontari per i nostri viaggi e altri gesti di appoggio e solidarietà hanno evitato che la nostra situazione possa arrivare a essere ancora più drammatica.
No alla dispersione! ¡Prigionier@ basch@ a Euskal Herria!
Fonte:

UN POETA NELLE CARCERI DI ASSAD

 

Faraj Bayrakdar è stato torturato per quasi 14 anni in quanto scrittore dissidente. Oggi, pluripremiato e libero, sente che le sue sofferenze sono niente rispetto al dolore del popolo siriano

di Joshua Evangelista*

Dalla “festa di benvenuto”, la haflet al-istiqbal, inizia una lenta agonia che molto spesso porta alla morte. Il rapporto di Amnesty International racconta come si vive, e si muore, nelle carceri di Assad. Da decenni il regime siriano usa la tortura per stroncare gli oppositori, o presunti tali. Come è successo al poeta Faraj Bayrakdar, che ha passato quasi 14 anni dietro le sbarre, dal 1987 al 2000. «Tra un anno o due, dieci o venti la libertà si metterà la minigonna e mi accoglierà», scriveva in cella sul cartoncino delle sigarette, sperando di non essere visto dalle guardie. Oggi, rifugiato politico in Svezia, gira il mondo raccontando l’efferatezza del regime baathista, prima che la spettacolarizzazione della violenza plastica dei militanti dell’Isis renda definitivamente sopportabile le ingiustizie della dittatura all’opinione pubblica. «La memoria collettiva degli occidentali è piena di buchi e il regime è riuscito a trovare qualcuno peggiore per ripulirsi l’immagine. Così si dimenticano i passaggi che hanno portato a questa tragedia e si insiste con la retorica del male minore. È come se a un killer togli il pugnale insanguinato, gli dai una pacca sulla spalla e gli chiedi gentilmente di non farlo più».

Non ritiene inevitabile che l’attenzione sia concentrata sulla minaccia dell’Isis, soprattutto dopo gli ultimi attentati in Europa?

Nessuno può battere Isis, Jabhat al Nusra o le altre fazioni di matrice fondamentalista. Almeno finché non si rovescia Assad, che è l’altra faccia della medaglia. Mentre il mondo chiude gli occhi e sotto banco tratta con i terroristi, i media dimenticano che i massacri non vengono perpetuati solo dall’Isis.

Nel frattempo la guerra contro Isis sembra ben lontana dalla fine.

Potrebbero toglierli di mezzo subito, ma non conviene. Costa troppo. E chi paga? Arabia Saudita o Qatar? Prima che la guerra finisca si arriverà a un collasso totale. A quel punto il popolo tornerà alla vita di tutti i giorni, ma sarà una calma apparente. Non si dimenticherà cosa ha fatto il regime per mezzo secolo e come si è arrivati a questa spirale di fanatismo. Milioni di persone ogni notte incontrano nei loro incubi i propri morti e questo non è un problema che risolvi in venti anni. Gli incubi si tramandano di generazione in generazione.

Incubi che accompagnano i siriani anche nei disperati tentativi di raggiungere l’Europa.

L’Europa sta totalmente perdendo il controllo dei flussi migratori. Eppure tutti sapevano che rimuovendo il regime di Assad nel 2011 ciò non sarebbe accaduto. Ma evidentemente è più conveniente tenere milioni di disperati alle porte del continente.

Come siamo arrivati a questo?

Due settimane prima delle rivolte del 2011 ho scritto una lettera aperta all’Europa in cui criticavo Bruxelles per aver deciso di sostenere i “nostri” dittatori a discapito dei diritti umani. Erano le premesse per un’invasione di persone disperate, dissi.

Così è stato.

Non posso non ricordare i silenzi che hanno accompagnato i primi mesi della rivoluzione, quando centinaia di migliaia di persone laiche marciavano nelle strade chiedendo più diritti. Poi sono arrivate le bombe. E cosa hanno fatto gli occidentali? Invece di sostenere i giovani che sognavano una Siria libera, hanno destinato i propri soldi ai movimenti fondamentalisti: armi, cibo e medicine solo per loro.

Eppure molti di quei giovani hanno deciso di unirsi proprio ai quei movimenti.

È normale: sono i movimenti più ricchi. A Idlib conosco persone totalmente laiche che hanno deciso di combattere per l’Isis. Succede quando devi provvedere alla tua famiglia e gli altri non hanno nemmeno i soldi per darti un po’ di pane. E le potenze cosa fanno? Sostengono coloro che sono funzionali ai loro interessi, a occhi chiusi.

Non pensa che sia colpa anche di alleanze e scelte strategiche quanto meno discutibili da parte del fronte anti-assadiano?

Anche se i nostri rivoluzionari non fossero incappati in così tanti errori strategici, il risultato non sarebbe cambiato. Era stato già tutto deciso. Del resto anche il regime ha fatto tanti errori, eppure è lì, sempre forte.

Dalle sue parole traspare molto pessimismo.

Eppure non ho paura del futuro. Prima o poi i siriani ricostruiranno la Siria. Ma la soluzione inizia con la fine del regime. La storia insegna che siamo diversi da come veniamo dipinti dai media europei: non siamo mai stati paurosi delle minoranze. Faccio un esempio: da chi è stata gestita la transizione post francese? Da Fares al-Khoury, un cristiano, che è stato ministro, presidente e molto altro ancora. E per essere rappresentati nelle assemblee, i musulmani si rivolgevano a lui.

Se non ha paura del futuro, avrà immaginato come sarà ricostruzione. Quale sarà il ruolo della diaspora?

La diaspora tornerà in Siria, sosterrà la rinascita con soldi, training, con il know how appreso all’estero. Ma sarà chi è rimasto a costruire la nuova Siria. Ma, come per le crisi degli anni passati, dipenderà tutto dagli accordi che la nuova classe dirigente prenderanno con le potenze internazionali e dal “conto” economico e di persone che queste chiederanno. Noi, da fuori, faremo lobby, manderemo soldi: se necessario lavoreremo 14 ore al giorno e la metà del salario la destineremo alla ricostruzione.

A proposito di superpotenze impegnate in Siria, avrà sicuramente seguito il tentato golpe in Turchia. Le purghe che sono seguite hanno ricordato, a qualcuno, quelle che Hafez perpetrò nel 1982 nei confronti degli insorti della Fratellanza musulmana. 

Due cose sopra tutte le altre mi preoccupano della Turchia. La libertà d’espressione e la questione curda. Ma i paragoni non reggono: il regime turco non ha ancora perpetrato crimini di un livello equiparabile a quello siriano. Nel 1982 Assad bombardava Hama e faceva almeno 14000 morti. L’Erdogan del post golpe non ha ancora fatto nulla di simile, sebbene abbia arrestato migliaia di persone, ma è presto per farsi un’idea completa. Lo tengo d’occhio, può diventare una feroce dittatura.

Cosa ne pensa dell’accoglienza turca verso i migranti siriani?

A passarsela peggio sono i siriani in Libano. Dovremmo prima di tutto preoccuparci per le loro condizioni. I turchi sono stati accoglienti, anzi: il popolo ha dato più di quello che ha ricevuto. Sappiamo bene che un’Europa così attenta ai soldi e che non vuole spendere nell’accoglienza conviene mantenere i rifugiati in Turchia, questo è ovvio. Ma allora io lancio una provocazione: se è chiaro che nella società turca i siriani hanno maggiori possibilità di integrazione, i soldi europei per l’accoglienza ai rifugiati dovrebbero essere molti di più.

Nel frattempo però, la Turchia è scesa prepotentemente in campo contro i curdi del Rojava. Che idea si è fatto del confederalismo democratico curdo e, più in generale, del ruolo dei curdi nel conflitto?

Li stanno usando e quando la guerra sarà finita il mondo si dimenticherà di loro. Ha sempre fatto così. I curdi sono utopici, hanno grandi sogni. Eppure in tutto il corso della storia qualcuno li ha sfruttato. Li usano e poi li abbandonano. Io sono sempre stato, in Siria, un attivista per i diritti dei curdi. Lo ero quando Assad impediva di parlare la loro lingua, di preservare la loro cultura. Molti in Siria mi considerano un poeta curdo, addirittura. Lo dico, non stimo Saleh (co-presidente del PYD, ndr), non mi piace la sua ambiguità verso Assad. Ma penso che quando la guerra finirà la Siria dovrà fare i conti con la voglia d’indipendenza dei curdi. Andrà fatto un referendum per capire cosa vuole la popolazione delle regioni a prevalenza curda. Ma sono sincero, non credo che le super potenze permetteranno la creazione di uno stato del Kurdistan. Indipendenza o meno, io sarò sempre dalla loro parte e mi batterò affinché abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.

A Stoccolma lei è un punto di riferimento per i migranti che riescono a raggiungere la Svezia. Vede in loro lo stesso popolo che ha dovuto lasciare dodici anni fa?

Quasi tutti i siriano che arrivano qui hanno il mio numero e ricevo molte chiamate da chi è stato in prigione, hanno bisogno di parlare con qualcuno che ha vissuto lo stesso dramma. Non sono più gli stessi. Vedo nei loro occhi solo dolore e sofferenza, fatico a identificarli come siriani. Ma non vale solo per loro, dopo il 2011 tutti siamo cambiati in peggio. Anche la Svezia non è più la stessa rispetto a quando sono arrivato io.

E lei come è cambiato dopo 13 anni di segregazione e torture?

In carcere ero stato annullato e per questo motivo avevo dimenticato molte abitudini del vivere in comunità. Una volta uscito non sapevo più vestirmi, mi dimenticavo di salutare. Soprattutto: non sapevo più ridere. Non mi riesce bene nemmeno ora. Quando lo faccio mi sento graffiare la gola.

C’è un filo conduttore tra la sofferenza di allora e quella che prova ogni giorno vedendo il suo popolo sotto assedio?

No. È come se avessi sofferto per niente. Tutte le umiliazioni e le torture che ho subito sono nulla rispetto a quello che vive oggi il mio popolo. Mentre i miei aguzzini volevano vedermi agonizzante, sapevo che fuori da quelle mura c’era una famiglia che nonostante tutto sarebbe sopravvissuta. Oggi non è così. Tutti sanno che da un momento all’altro chiunque potrà ammazzarli.

Ha ancora senso fare poesia di fronte a una tragedia di queste dimensioni?

Alcuni miei colleghi riescono a produrre sulla Siria anche tre poesie al giorno. Io no. Negli ultimi cinque anni ho scritto pochi versi. E tra questi solo alcuni sulla Siria. In prigione avevo 24 ore al giorno per comporre. Ho pubblicato sette antologie, per intenderci. Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza.

E oggi come dà senso all’esistenza?

Dopo il 2011 la mia situazione è diventata ben più complicata. Perché la rivoluzione “impegna”. Passo le giornate sui social network per capire come sta il mio popolo. Inoltre ritengo che il mio ruolo di autore sia cambiato. In carcere scrivevo per me, cercavo la forma, una qualità di scrittura che appagasse la mia tribolazione. Oggi invece serve una dialettica semplice, devo raggiungere il popolo. Meglio fare video, postare foto sui social e rinunciare a un arabo ricercato. Ho scritto una canzone nel dialetto di Homs, su YouTube ha avuto tantissime visualizzazioni e al Jazeera ha fatto un documentario su di me che ha raggiunto milioni di persone. La gente è disinformata, il mio nuovo ruolo è creare consapevolezza. È un modo per non rendere vano il sacrificio dei 400 mila sognatori che nel 2011 erano scesi in piazza a Homs. O dei 600 mila di Hama. A questo punto della mia vita non ho più pretese personali. Mi basta sapere che sto facendo qualcosa per aiutare il mio popolo.


*Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata su “Il Dubbio” del 20 agosto 2016.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/09/siria-faraj-bayrakdar-poeta-carceri-assad/

VADEMECUM PER SOPRAVVIVERE ALLE PRIGIONI SIRIANE

Da:

http://frontierenews.it/2016/09/vademecum-sopravvivere-prigioni-siriane/

 

 

Dal 2011, anno in cui sono iniziate le sollevazioni popolari che hanno portato all’attuale rivoluzione siriana,  sono morte oltre 17mila persone nelle prigioni governative, molte delle quali dopo aver subito torture di ogni tipo (dalle scariche elettriche agli stupri). Un documento di Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 65 sopravvissuti, in cui vengono raccontate le agghiaccianti e inumane condizioni in cui vivono i detenuti nelle strutture detentive dei servizi di sicurezza siriani e nella prigione militare di Saydnaya, nei sobborghi di Damasco.


La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Molti detenuti hanno sviluppato gravi problemi di salute mentale a causa del sovraffollamento e della mancanza di luce solare.

‘It breaks the human’: Torture, disease and death in Syria’s prisons – Amnesty International, agosto 2016


Le testimonianze raccolte, oltre a mostrare il sadismo istituzionalizzato che prende di mira chiunque sfidi l’autorità costituita in Siria (oppositori, attivisti per i diritti umani, giornalisti, etc.), hanno tracciato un percorso mentale comune a cui i detenuti sopravvissuti sono dovuti ricorrere per superare l’orrore delle torture e della prigionia.

8 modi per sopravvivere ai lager siriani

1. Non rivelare le proprie condizioni mediche

“Nella ‘festa di benvenuto’, venne chiesto a ognuno di noi se fossimo in qualche modo malati o meno. Pensavo che avrei dovuto dire loro della mia insufficienza renale, così mi avrebbero trattato bene. Chiesero prima al mio amico, che rispose: ‘Sì, ho problemi respiratori. Ho l’asma’. La guardia disse ‘Va bene, il tuo è un caso particolare’. Iniziarono a picchiarlo, fino a lasciarlo senza vita, lì, di fronte a me. Quando arrivò il mio turno dissi che ero in perfetta salute, che stavo bene”.

La "festa di benvenuto". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “festa di benvenuto”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
2. Rimanere neutrali

“Le guardie mi costrinsero a guardare i loro colleghi picchiare i detenuti, per un ora. Usarono diversi oggetti, tubi, pali, persino una sbarra in ferro con dei chiodi all’estremità. Le prime tre volte piansi, ma quando lo feci le guardie iniziarono a picchiare anche me. Per il resto dell’ora dovetti rimanere completamente neutrale. Ripetevo a me stesso che non era reale, che era solo un film dell’orrore e che dopo quindici minuti sarebbe tutto finito”.

Il "tappeto volante". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
“Bisat al-Rish”, il “tappeto volante”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun

LA TRAGEDIA SIRIANA IN NUMERI

Oltre 17mila                        65mila                        Oltre 11 milioni

detenuti morti                                detenuti scomparsi                               sfollati e profughi

3. Stare al caldo

“D’inverno faceva molto freddo. Per non disperdere il calore dovemmo unire le lenzuola e avvolgerci in una sorta di bozzolo. Avevamo a nostra disposizione soltanto i vestiti che indossavamo durante l’arresto. Chi veniva arrestato d’estate soffriva tantissimo durante l’inverno”.

Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
4. Diventare una famiglia

“Gli altri prigionieri diventano molto più che fratelli. Si ottiene una vicinanza che nella vita normale non si può mai raggiungere. Persone con cui si era in contrasto, persone prima che si odiavano, in carcere diventano la propria famiglia. Atei e sunniti devoti diventano migliori amici. Abbiamo condiviso ogni cosa, anche i vestiti, e ci siamo sostenuti a vicenda quando uno piangeva o l’altro usciva fuori di testa”.

La "ruota". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “ruota”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
5. Dimenticare

“L’unico modo per fermare il tempo in prigione è pensare alla propria famiglia e ai propri amici. Ma poi si impara a lasciar perdere anche loro. Ho iniziato a dimenticare. Ho perso ogni memoria dei volti dei miei amici dell’università. Poi ho dimenticato ogni volto incontrato negli ultimi anni. Sono andato a ritroso, fino a quando riuscii a ricordare soltanto il viso di mia madre, quando ero piccolo”.

6. Mangiare qualsiasi cosa

“All’inizio ci diedero una scatola di arance e una di cetrioli. Iniziammo a mangiare le arance, gettando a terra le bucce, e gli altri prigionieri corsero ad addentarle. Per loro le bucce d’arancia erano così gustose. Una sorta di premio! Anche noi saremmo diventati come loro, fu uno shock tremendo. Iniziammo a mangiare persino i gusci d’uovo, per assumere il calcio. Mettevamo insieme riso, zuppo, bucce d’arancia e gusci d’uovo, il tutto avvolto in un pezzo di pane. In quel modo avevamo l’impressione di consumare un pasto vero. Era disgustoso mettere insieme tutte quelle cose, ma in qualche modo fu d’aiuto”.


Il governo italiano deve usare la propria influenza per assicurare che osservatori indipendenti siano autorizzati ad avviare indagini sulle condizioni di detenzione in Siria.

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7. Farsi torturare a turno

“La guardia ci chiedeva continuamente di mandare cinque persone da torturare. Ci organizzammo in modo da risparmiare i più giovani e i più anziani. Facemmo un gruppo di circa 20 persone, tra le più forti. Tre di noi andavano quasi sempre. Io andavo, perché avevo bisogno di urlare. Ero terrorizzato, perché ero diventato insensibili e non provavo più dolore, non avevo più alcuna emozione. Può sembrare strano, ma mi facevo avanti per essere picchiato in modo da poter sentire nuovamente qualcosa”.

Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
8. Barattare il cibo

“Iniziò tutto con un tizio che se ne stava seduto, in cella, e non faceva che piangere di continuo. Mi disse che aveva person ogni speranza di lasciare quel posto. ‘Non sono arrabbiato, sto solo morendo di fame. Penso soltanto al cibo’. Provai a pensare a come aiutarlo, ma eravamo in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Se gli avessi dato il mio cibo, sarei potuto morire; se lui ne avesse dato a me, sarebbe potuto morire lui.

Alla fine gli diedi il mio pezzo di pane e metà della mia porzione di riso. È lì che iniziò l’idea del baratto. Gli dissi che il prezzo per la mia mezza pagnotta era una pagnotta intera, ma che mi avrebbe potuto pagare un po’ alla volta, nell’arco di quattro giorni. Eravamo tutti senza cibo, nella miseria più totale, ma questo stratagemma ci aiutò a sopravvivere. Potemmo infatti condividere il cibo con chi soffriva di più e mantenere attiva la nostra mente. Stavamo sempre a pianificare qualcosa, a reagire, a restare umani. Prima i nostri cervelli poterono soltanto pensare ad una cosa: mangiare, mangiare, mangiare, mangiare. Ma nel tempo riuscimmo a unire le nostre menti per cooperare, per agire insieme”.

Gli stupri, un'arma quotidiana per annullare l'identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Gli stupri, un’arma quotidiana per annullare l’identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun

 

Manifestazione nazionale per la liberazione di Nekane Txapartegi

Giovedì 08 Settembre 2016 16:37

nekane

Sabato 24 SETTEMBRE a BERNA si terrà una grande manifestazione nazionale per la liberazione di Nekane Txapartegi, giornalista basca e militante della sinistra indipendentista, la quale è stata arrestata dalle autorità svizzere e incarcerata a Zurigo l’8 aprile 2016, a seguito di una domanda di estradizione depositata dallo Stato spagnolo.

Nel 1999, Nekane è stata arrestata e incarcerata una prima volta dalla Guardia Civil, corpo paramilitare della polizia spagnola, incaricato delle “operazioni antiterroriste”. Durante i primi giorni di detenzione, lei e un altro prigioniero sono state rinchiusi in isolamento (incomunicacion), pratica nella quale le detenute e i detenuti accusati di “terrorismo” scompaiono in un buco nero per giorni, senza poter aver contatti con l’esterno, neppure un avvocato, subendo un utilizzo quasi sistematico della tortura durante gli interrogatori. In quell’occasione Nekane è stata violentemente torturata dai militari spagnoli è ha subito uno stupro da parte dei suoi torturatori. Ciò che ha dovuto patire in carcere è stato denunciato poche settimane più tardi.
Dopo una rapida archiviazione della denuncia da parte delle autorità spagnole, gli avvocati di Nekane sono riusciti a fare riaprire la procedura qualche anno più tardi, prima che il caso fosse definitivamente insabbiato. Nonostante numerosi certificati medici che dimostrano che Nekane sia uscita dall’incomunicacion con numerosi ematomi su tutto il corpo e nonostante testimonianze di compagni di cella indicando che una volta giunta in carcere Nekane fosse in stato di shock e non riusciva né a camminare, né a muovere le mani, i magistrati spagnoli hanno rifiutato di identificare i suoi aguzzini. Solo uno di loro è stato finalmente sentito, per video conferenza e in forma anonima, senza però rispondere alle domande della difesa. Così come in decine di altri casi, che hanno portato alla condanna della Spagna da parte di organi internazionali, la denuncia è stata archiviata dalle autorità spagnole e i torturatori di Nekane sono rimasti impuniti.

Dopo nove mesi di detenzione preventiva, Nekane è stata rilasciata su cauzione e nel 2007 è fuggita dallo Stato spagnolo per evitare una nuova incarcerazione basata unicamente sulle testimonianze ottenuta sotto tortura. Infatti, durante il maxiprocesso contro numerose organizzazioni della sinistra indipendentista basca, denominato “Sumario 18/98”, è stata condannata a una pena di sei anni e nove mesi con l’accusa di appartenenza in prima istanza, e di collaborazione in appello, con un’ ”organizzazione terrorista” (ETA). Nel corso di questo processo Nekane ha nuovamente denunciato quanto ha dovuto subire in carcere nel 1999 (video) e, come massima ignominia, ha dovuto pure confrontarsi con uno dei suoi torturatori, intervenuto in tribunale in qualità di “esperto”. Le colpe principali che le sono state imputate sono quelle di aver partecipato a una riunione con degli attivisti indipendentisti baschi a Parigi e di aver consegnato due passaporti a dei membri di ETA.

Il Collettivo Scintilla organizzerà un trasporto collettivo dal Ticino per essere presenti in massa a questa manifestazione.
Chi volesse partecipare può scrivere un messaggio privato a questa pagina oppure a [email protected]Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

EVENTO FB: https://www.facebook.com/events/1845934795625795/

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/17565-manifestazione-nazionale-per-la-liberazione-di-nekane-txapartegi