11 aprile 1979: Tre compagni autonomi muoiono a Thiene

Venerdì 11 Aprile 2014 07:17

Verso le 17 dell’11 aprile 1979, a Thiene, in provincia di Vicenza, esplode un ordigno in un appartamento in via Vittorio Veneto 48.

11 aprile

Muoiono dilaniati dall’esplosione tre militanti dei Collettivi Politici Veneti, Maria Antonietta Berna (22 anni), Angelo Del Santo (24 anni) e Alberto Graziani (25 anni). L’esplosione è provocata dallo scoppio accidentale della pentola a pressione piena di polvere di mina, con cui stanno preparando un ordigno. In quei giorni ci furono decine di azioni e incendi in risposta all’arresto di centinaia di compagni del movimento comunista veneto e non solo avvenuto il 7 aprile dello stesso anno.

L’intestatario dell’appartamento, Lorenzo Bortoli, anch’egli militante dei CPV, viene arrestato insieme ad altri tredici militanti nell’inchiesta apertasi in seguito all’esplosione.

Lorenzo Bortoli morirà suicida in carcere il 19 giugno 1979.

Il 12 aprile 1979 i tre giovani vengono ricordati in un volantino intitolato “Ci sono morti che pesano come piume e vite che pesano come montagne”. I tre militanti , dice il comunicato, “sono morti esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo Stato, contro questa società fondata ed organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.

Il  13 aprile è il giorno dei funerali di Maria Antonietta Berna, sepolta a Thiene, e di Angelo Del Santo che sarà seppellito in una frazione vicina, a Chiuppano; qui la polizia ha militarizzato l’intera area, impendendo l’accesso al cimitero. Parecchie centinaia di giovani riescono comunque ad avvicinarsi alla chiesa utilizzando piccole strade che passano attraverso i campi, per dare l’ultimo saluto al militante morto.

Il 14 aprile 1979 vengono celebrati a Sarcedo i funerali di Alberto Graziani. Parecchie centinaia di persone, dopo aver superato i posti di blocco posti dalle forze dell’ordine intorno alla città, lo salutano in silenzio a pugno chiuso.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/1039-11-aprile-1979-maria-antonietta-berna-angelo-del-santo-e-alberto-graziani

10 pensieri su “11 aprile 1979: Tre compagni autonomi muoiono a Thiene

  1. IL “CHE” E’ VIVO!

    Intervista con
    Harry Antonio Villegas Tamayo (“POMBO”)

    Gianni Sartori

    Premessa. Non ho alcuna intenzione di stare ad aspettare il 50° anniversario per ricordare la figura del “CHE”. Prima di tutto perché “non si sa mai”…e poi perché sinceramente mi ricorderebbe troppo l’età, ormai quasi venerabile, del sottoscritto.
    Tra l’altro (coincidenza sincronica ?) l’8 ottobre 1967, giorno della cattura del Che*, rappresenta anche il mio “battesimo del fuoco”, diciamo così. Quel giorno infatti, quindicenne, partecipai (forse l’intenzione iniziale era soltanto di assistere, per curiosità) alla mia prima manifestazione con cariche, durissime, della Celere 2 di Padova. L’immagine di alcune ragazze scaraventate e terra e picchiate con i manganelli (non ricordo più se sul cavalcavia di San Pio X o addirittura già allo stadio Menti, a un paio di chilometri quindi dalla base statunitense) è rimasta nella memoria, indelebile. Era soltanto l’inizio…ma prometteva bene.
    Di Ernesto Guevara avevo già letto un libriccino pubblicato da qualche gruppo m-l (“Creare due, tre, molti Vietnam…copertina rossa, costava, ricordo, 50 lire)** e quindi non mi era del tutto sconosciuto. Ma sicuramente non potevo immaginare che mentre correvamo per le vie periferiche di Vicenza gridando contro l’imperialismo statunitense, a migliaia di chilometri di distanza, in Bolivia, quello stesso imperialismo stava portava a segno uno dei suoi colpi più azzeccati: mettere definitivamente a tacere una voce autorevole che parlava a nome dei dannati della terra (dannati nel senso di esclusi, chiaro).
    Avevo incontrato Harry Antonio Villegas Tamayo (nome di battaglia “Pombo”) negli anni novanta durante un giro di conferenze organizzate, mi pare, dall’editore Roberto Massari. Il nome di Pombo, uno dei pochi sopravvissuti alla disfatta boliviana, è citato spesso nel “Diario del Che in Bolivia”, in particolare quando venne ferito in combattimento il 26 giugno 1967.
    Nato nel 1940 a Yara (Sierra Maestra) da una famiglia di contadini poveri, conobbe il Che ed entrò nella guerriglia cubana a soli 14 anni. Da allora non smise mai di lottare. Seguì Guevara in Congo al fianco di Mulele (già ministro di Lumumba, assassinato su richiesta del colonialismo) e perfino di un giovanissimo Laurent Desiré Kabila (di cui il Che un po’ diffidava…), in anni più recenti a capo del paese paese africano (dopo la sconfitta del dittatore Mobutu) e in seguito morto in un poco chiaro incidente.
    Pombo partecipò al tentativo boliviano e, dopo la morte del Che, andò a combattere in Angola contro il colonialismo portoghese. Poi in Namibia contro l’esercito sudafricano. Una lotta questa che, in quanto afrocubano, sentiva particolarmente sua dato che Pretoria aveva introdotto anche in Namibia l’apartheid.

    Domanda: Cosa pensi del fatto che a distanza di tanti anni (l’intervista risale agli anni novanta nda) la memoria del Che sia ancora viva “nella mente e nel cuore” di tante persone, non solo in America Latina?

    Pombo: Per noi latinoamericani il persistere del ricordo del Che a tanti anni dalla sua scomparsa non è motivo di sorpresa, dato che le ragioni per cui Guevara lottò sono ancora uguali nella sostanza. In America Latina, malgrado si vada pagando il debito estero, la miseria non diminuisce ma aumenta. Le nuove strategie adottate dai governi consistono nel trasferire nelle casse delle multinazionali il patrimonio, le risorse dei popoli latino-americani.

    Domanda: A tuo avviso ci sono state precise responsabilità da parte di alcune componenti della sinistra latino-americana nella morte e sconfitta del Che (mi riferisco in particolare al ruolo del partito comunista boliviano di Mario Monje)?

    Pombo: Naturalmente non si può accusare di responsabilità la sinistra in generale. Personalmente non ho elementi precisi per spiegare le ragioni per cui Mario Monje, segretario del partito comunista boliviano, non fu coerente con gli impegni presi. La sua scelta di non partecipare alla guerriglia ha avuto conseguenze disastrose. Secondo gli accordi avrebbero dovuto integrarsi nella guerriglia più di trentamila uomini (militanti del Partito Comunista Boliviano nda) e questo avrebbe creato le condizioni per poter veramente fare delle Ande la nuova Sierra Maestra, come pensava il Che. Poi le cose, come ben sai, sono andate diversamente.

    Domanda: Come sei riuscito a salvarti dalla tragedia dell’8 ottobre ’67?

    Pombo: Solo in cinque del gruppo di Guevara riuscimmo a sganciarci e, se pur feriti, sfuggire ai rangers (al momento dell’intervista solo tre erano ancora in vita nda). Io ero rimasto con la mitragliatrice nella parte alta del canalone per tenere occupati i militari mentre gli altri potevano allontanarsi. Quando cercai di riunirmi al gruppo erano già stati uccisi o catturati. Prima di riuscire ad arrivare in Cile ci toccò sostenere almeno una cinquantina di scontri con l’esercito boliviano. Infine ci consegnammo ai soldati cileni, ad un posto di frontiera. Avrebbero potuto fucilarci sul posto o anche consegnarci ai boliviani, che quasi certamente ci avrebbero fucilato come fecero con gli altri nostri compagni catturati. Per nostra fortuna in quel momento c’erano attriti tra Cile e Bolivia e il tenente che comandava il posto di frontiera decise di consegnare quei cinque disperati alle autorità cilene. Ci portarono a Santiago e, successivamente, con un aereo a Thaiti, poi a Parigi e quindi a Cuba…

    Domanda: Quello che francamente stupisce è pensare che, dopo tutte queste traversie, sei tornato a combattere in Africa…

    Pombo: Personalmente sono felice di aver contribuito alla lotta di liberazione anticoloniale del popolo dell’Angola; è per me motivo d’orgoglio che oggi l’Angola sia indipendente, con frontiere riconosciute a livello internazionale. Lo stesso vale per la Namibia che ha potuto liberarsi dal giogo del Sudafrica e dell’apartheid.

    Gianni Sartori

    * L’8 ottobre sarebbe poi diventato il “Giorno del Guerrigliero eroico” pensando, erroneamente, che quel giorno il Che fosse stato ucciso in combattimento (o per le ferite riportate). Solo dopo qualche tempo si apprese con certezza che, catturato vivo l’8, era stato assassinato il giorno seguente, il 9 ottobre.

    **Doveva invece passare ancora qualche mese prima che mettessi le mani su “La guerra per bande”, una ristampa dell’ottobre 1967 della Mondadori (Oscar settimanali 132 bis, lire 350) di una introvabile edizione del 1961 (Edizioni del Gallo). Da segnalare che la traduzione era di Adele Faccio. Quanto al “Diario del Che in Bolivia”, quello con la prefazione di Fidel Castro, arrivò dopo (prima edizione: luglio 1968, prima edizione nell’Universale Economica: febbraio 1969) grazie al compagno editore Giangiacomo Feltrinelli.

    ***Nell’Esercito cubano, Pombo raggiunse il grado di generale di Brigata e venne decorato come “Héroe de la revolucion”. Il suo libro di memorie (“Pombo, un hombre dela guerrilla del Che”) venne pubblicato nel 1996.

  2. “…DOPO LE SEI SOLO IL VENTO E IL SILENZIO CIRCOLAVANO PER LE STRADE…”

    UN RICORDO DELL’AMICA FEBE CAVAZZUTTI ROSSI
    (Gianni Sartori)

    Nella notte del 2 febbraio 2016 se ne è andata Febe Cavazzutti Rossi. Pastora valdese, ha vissuto gran parte della sua vita a Padova. Una presenza costante nella chiesa metodista di questa città, come organista e predicatrice, e una testimonianza immensa di fede, serenità e forza d’animo.
    Febe era nata nel 1931 a Vicenza (dove in seguito tornerà come insegnante di inglese) e aveva trascorso parte degli anni giovanili a Firenze. In questa città suo padre, il pastore metodista Gaspare Cavazzutti (già collaboratore di Henry James Piggot) si distinse per aver salvato molti cittadini di religione ebraica negli anni delle persecuzioni nazi-fasciste.
    Di quel periodo buio Febe ricordava con particolare amarezza la tragica fine di due ragazze sue amiche, nipoti di un cugino di Einstein, destinate a essere trucidate, insieme alla zia, per mano dei soldati tedeschi. Un tragico evento (raccontato nel film “Il cielo cade”) che determinò la morte anche dello zio, suicidatosi per disperazione.
    In anni più recenti la lezione paterna si tradusse in un attivo sostegno alle lotta dei Neri del Sudafrica sottoposti al tallone di un nuovo nazismo, quello dell’apartheid. Nonostante (a causa di un incidente stradale per una gomma scoppiata in autostrada tra Vicenza e Padova), dovesse muoversi con una carrozzella, Febe era partita per il Sudafrica partecipando a molte iniziative, al punto che il regime la espulse dal Paese.
    Chiunque abbia partecipato alle campagne degli anni Ottanta contro il regime razzista di Pretoria la ricorda sicuramente. La rivedo all’Arena di Verona in occasione dell’incontro del 30 maggio 1987 “Sudafrica e noi: strappare le radici dell’ingiustizia”. Di quel giorno ricordo anche tanti altri amici presenti in Arena per ribadire un secco NO a Botha, alle fabbriche di armi (molte italiane) che rifornivano il regime di Pretoria (inevitabile pensare a quanto avviene oggi con la Turchia che anche con le armi di Finmeccanica sta massacrando i curdi), alle banche (ancora quelle italiane) che lo finanziavano.
    Alcuni di loro purtroppo nel frattempo ci hanno lasciato, come Benny Nato (all’epoca rappresentante dell’African National Congress in Italia), Beyers Naudé (Segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese e, in quanto boero, chiamato “il grande traditore” dai suoi connazionali bianchi), Davide Maria Turoldo…
    Tra quelli ancora sulla breccia, Alessandro Zanotelli (ex direttore di Nigrizia), il vicentino Mario Costalunga (entrambi tra i fondatori dei Costruttori di Pace), il reverendo T. F. Farisani (Vescovo vicario delle Chiese Evangeliche Luterane del Sudafrica e vittima della tortura), il comboniano Efrem Tresoldi che in seguito si trasferì proprio in Sudafrica…

    Talvolta le inviavo qualche mio articolo che “riveduto e corretto” (e ridimensionato) dalla sua acuta intelligenza, veniva ospitato da “Riforma”, il settimanale in lingua italiana delle Chiese evangeliche, battiste e valdesi. Gli ultimi due, un ricordo di Theresa Machabane Ramashamole, morta nel novembre 2015 (l’unica donna dei Sei di Sharpeville, un gruppo di militanti neri condannati a morte per impiccagione e salvati all’ultimo minuto, di cui mi ero occupato negli anni Ottanta e che in anni più recenti avevo anche conosciuto) e un articolo sulla Resistenza dei curdi a Kobane. Tra l’altro devo dire che ci eravamo ritrovati in sintonia nel considerare la lotta dei curdi come analoga a quella dei movimenti antiapartheid del passato. In particolare si mostrava molto interessata e solidale con le donne curde e con il loro protagonismo.

    Nel 2004 l’avevo intervistata prendendo spunto da un suo articolo su “Riforma” (“Dieci anni di democrazia in Sudafrica”) dove, con la consueta chiarezza, analizzava il voto del 14 aprile 2004.

    Febe era convinta che nel 1994 il Sudafrica avesse realizzato “ l’evento più straordinario della sua lunga e sofferta storia”: le elezioni a suffragio universale “aprendo a quei suoi abitanti che fino ad allora non erano che lo scarto umano privo di diritti”. Nel suo articolo sottolineava come tutto si fosse svolto ordinatamente con un’affluenza del 95% su un totale di 20 milioni e 674.926 elettori. Tre giorni dopo Pansy Tlakula (Chief Electoral Officer) poteva già dare i risultati: “Con umiltà sto davanti per dichiarare con orgoglio che abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissi. Abbiamo avuto una campagna elettorale forte, in cui i partiti non hanno sfoggiato i meriti della vittoria sull’apartheid, ma hanno affrontato i problemi del nostro paese. La nostra gente ha esercitato la pazienza e un profondo rispetto per questo atto di libertà”.
    In questa elezioni l’ANC, il partito di Nelson Mandela, aveva guadagnato il 69% dei voti, con grande distacco dal secondo partito il Democratic Alliance (DA, 13%) e febe ricordava che il presidente del DA, Joe Serename, aveva lavorato lungamente con il South African Council of Churches negli anni bui del razzismo istituzionalizzato, pagando anche un prezzo altissimo a livello personale: l’assassinio di un fratello e di altri familiari da parte delle squadre della morte segregazioniste. Disastrosi invece erano stati i risultati del National Party (“che -spiegava Febe – ha praticato l’apartheid con la frusta in una mano e la Bibbia nell’altra”) ridotto soltanto all’1,7%.

    UNA DONNA CONTRO L’APARTHEID

    Riporto qui la mia intervista di allora (2004), per onorare questa persona che per tutta la vita si è impegnata al fianco degli oppressi. Un’occasione per “ripassare” la Storia recente (e non dimenticare cos’era l’apartheid) e soprattutto un modo per ricordare Febe , sapendo che l’ingiustizia, lo sfruttamento e l’oppressione non scompaiano magicamente con la fine di un regime, ma si riproducono sotto altre spoglie. Per cui, va detto, occorre sempre vigilare. Così come Febe insegnava a chi ha avuto l’onore di conoscerla.

    D. Dell’Arena ’87 ricordo in particolare l’intervento del reverendo Farisani (anche perché lo concluse a pugno chiuso, niente male per un prete). Si muoveva ancora con difficoltà a causa delle torture subite. Farisani, uno Zulu, disse di aver fatto parte dell’Inkatha Freedom Party (Ifp), ma di essersene allontanato quando si era reso conto che il leader, Bhutelezi (noto anche in Italia in quanto invitato a Rimini da Comunione e Liberazione), faceva il gioco dei razzisti di Pretoria alimentando la violenza tra i Neri. E’ accaduto qualcosa del genere anche durante l’ultima campoagna elettorale (del 2004 nda)?
    Febe: In effetti è stata questa l’unica nota stonata e paurosa. Il Kwa Zulu Natal è la roccaforte di Inkatha Freedom Party di Buthelezi che per alcuni anni ha osteggiato il processo di liberazione, uccidendo e devastando, in una guerriglia fratricida e con la confessa connivenza del governo sudafricano di allora. La saggezza di Nelson Mandela, che aveva dato riconoscimento politico all’Ipf mettendo Buthelezi a capo del ministero degli Interni, aveva poi prodotto la pacificazione. Si comprende tuttavia come in queste elezioni del 2004 l’Ifp abbia rivisto nell’Anc un nemico e abbia fatto nuovamente ricorso a violenze e intimidazioni, soprattutto a Pietermaritzburg. I locali della nostra Chiesa metodista si trovano al centro della città e per tre giorni il pastore, Sol Jacob*, ha dovuto chiedere ogni attività per evitare il peggio.
    Va anche ricordato che nel Natal, contemporaneamente alle elezioni nazionali, si sono svolte quelle regionali. Per la prima volta l’Anc ha superato l’Ifp col 46, 93% contro il 36,82%. Per dare a Buthelezi la maggioranza non è servito nemmeno l’apporto di Da (Democratic Alliance), forse grazie ai 50mila bianchi di Pietemaritzburg che hanno votato per l’Anc, spaventati dalla volontà dell’Ifp di trasferire la capitale a Ulundi, nel cuore della terra Zulu.

    D. Lei, mi diceva, considera importante che la maggior parte dei presidenti di seggio in queste elezioni siano state donne. E per quanto riguarda i ministeri?
    Febe: I ministri del nuovo governo sono stati nominati e hanno prestato giuramento il 28 aprile 2004. Tra di loro c’è una buona presenza femminile; oggi le donne ministro sono 10 su 21 in dicasteri chiave come Esteri, Interni, Giustizia, Istruzione, Salute, Agricoltura, Risorse idriche, Risorse minerarie (oro e diamanti), Pubblica amministrazione, Opere pubbliche.

    D. A distanza di qualche anno sembra quasi impossibile che un regime come quello dell’apartheid sudafricano abbia potuto durare così a lungo in pieno ventesimo secolo. Capita talvolta di sentirsi chiedere: “Ma i Bianchi del Sudafrica cosa pensavano? Come vedevano i Neri? Come giudicavano le scelte, la legislazione del loro governo?”.

    Febe: I Bianchi sostanzialmente sembravano non interessarsene, non sapevano e non vedevano niente. Forse perché in fondo avevano paura, paura per il semplice fatto di avere i Neri vicino a loro. Era una situazione difficile anche solo da immaginare, il contatto non c’era. Quando si girava per Città del Capo o Johannesburg o Durban, appariva evidente che la massa dei lavoratori era nera (i commessi dei negozi per esempio, ma anche nelle banche); sembrava stessero bene; sembravano “liberi”…Ma nessun Bianco ha mai chiesto ad un proprio dipendente: Dove abiti?”.
    Per i Bianchi quelle leggi erano giuste; loro si sentivano intelligenti, loro preparavano un futuro dove anche i Neri sarebbero stati in grado di autogovernarsi. Vedi il grande inganno delle “homelands” dove nessun Bianco sarebbe mai entrato. Le leggi erano considerate giuste per i Bianchi e per i Neri. A volte le regole erano veramente assurde. Basti pensare che la “mamy” che accudiva i bambini nelle ville dei Bianchi, doveva per legge restare sulla soglia della stanza quando il bambino dormiva. Non doveva mai dormire o mangiare in casa, quindi doveva avere una stanza fuori. Sempre per legge in casa non doveva portare nessuno, nemmeno i figli. Il contratto doveva essere di un anno più tre settimane (non pagate) di vacanze. Quindi queste donne a servizio non vedevano i loro figli per un anno e intanto nei loro luoghi di origine le nonne badavano anche a venti o trenta bambini.

    D. Ma, mi chiedo, possibile che a una madre bianca non venisse mai in mente che anche quella donna a servizio era una madre, che anche lei aveva dei sentimenti?

    Febe: Penso che all’origine ci fosse una sorta di apura atavica. Un’altra legge molto significativa per capire quel peiodo è quella che imponeva a tutti i Bianchi di avere il porto d’armi e di esercitarsi con sagome di forma umana. Naturalmente anche questo generava altra paura.

    D. Tornando alla sua descrizione della massa di lavoratori neri presenti nelle città durante il giorno…Cosa succedeva ad una certa ora?

    Febe: Alla sera, tra le cinque e le sei, questa massa di gente doveva sfollare, essere fuori. Dopo le sei solo il vento e il silenzio circolavano per le strade…

    D. E i Bianchi…?
    Febe: I Bianchi restavano chiusi dentro per la paura anche se ormai i Neri se ne erano già andati. SI credeva, o si voleva far credere, che questo modo di vivere fosse una cosa buona, utile per tutti.
    D. Quindi il Nero in un certo senso era un invisibile…?

    Febe: In pratica non lo vedevano. Eppure le township (Alexandra, Soweto…) facevano parte della municipalità. Le township dove abitavano i lavoratori neri erano in generale ad una trentina di chilometri dalle città e quasi senza collegamenti, ma alle otto dovevano essere presenti sul posto di lavoro. Un dipendente dopo tre giorni di ritardo veniva licenziato e dopo altri tre giorni senza lavoro doveva andarsene anche dalla città.

    D. Lei ha visto di persona come vivevano i Neri in questa sorta di ghetti. Ce ne può parlare?
    Febe: Ricordo in particolare un insediamento presso Città del Capo, a circa trenta chilometri dalla città, dove un gran numero di persone viveva in tende dell’esercito dell’ultima guerra mondiale. Eppure nei Neri del Sudafrica, anche quando vivevano in queste misere condizioni, ho sempre trovato una enorme dignità e una grandissima pulizia. Durante quella visita ci eravamo fermati davanti a una tendina dove erano nate due bambine. Quando la mamma è uscita ho visto che le bambine erano con la cuffietta inamidata: E fuori, bada bene, c’era il fango, la melma…Chiesi dove avesse mai trovato l’acqua necessaria e mi rispose che a circa dieci chilometri c’era un cimitero dei Bianchi dove l’acqua pulita non mancava mai. Naturalmente i Bianchi che visitavano il cimitero non si accorgevano di niente, forse nemmeno sospettavano della presenza di quell’insediamento.
    A Crossroad (uno dei luoghi maggiormente interessati dagli scontri quasi quotidiani tra i Neri delle baraccopoli e la polizia sudafricana negli anni Ottanta) sono entrata la tempo della rivolta. Conservo due foto di chiese in lamiera e cartone, una cattolica e una battista e ricordo un pastore che aveva come minimo una comunità di centomila persone da seguire. In queste aree i Bianchi non avrebbero potuto entrare neanche volendo perché la polizia non lo avrebbe permesso. Oggi scoprono realtà per loro sconosciute di miseria e degrado, ma la povertà di oggi è il frutto degli anni dell’apartheid. Nel 1985, poco prima che mi dessero il bando (la proibizione di rientrare in Sudafrica per almeno cinque anni), andai da un mio amico che più tardi entrò a far parte del Pac (Pan African Congress) e gli chiesi: “Ci saranno centomila Bianchi dalla vostra parte?”. “No -mi rispose – nemmeno cinquantamila, forse cinquemila”.

    D. Eppure l’apartheid, che sembrava destinato a durare in eterno dato lo strapotere economico e militare dei Bianchi, alla fine è caduto. Mi diceva che tra i Neri era chiara la consapevolezza della sua fine prossima e che questa consapevolezza derivava in parte dalla fede…

    Febe: All’epoca ci si poneva spesso questa domanda: ma quanto durerà? Sembrava impossibile uscirne, soprattutto conoscendo la forza di questo sistema, ma tutti a quel tempo mi dicevano che sarebbero occorsi cinque anni. E cinque anni sono stati. Ricordo anche che nelle chiese si pregava e si era sicuri che il signore rispondeva, il Signore che tira giù dal trono i potenti. L’inno che ora è diventato inno nazionale del Sudafrica (“Dio benedica l’Africa”) noi lo cantavamo in chiesa. E Dio ci ha ascoltato.
    Non considero una semplice coincidenza il fatto che Mandela sia metodista. Naturalmente si guarda bene dal pubblicizzarlo (per garantire la separazione tra Stato e Chiesa), ma quella è comunque la sua radice.
    D. Ritiene che la componente religiosa fosse presente anche nel 1960, al momento della scelta di Mandela di prendere le armi contro il regime (dopo la strage di Sharpeville, quando la polizia massacrò una folla inerme di Neri che protestavano pacificamente)?
    Febe: In quel momento Mandela si dovette separare da Luthuli (un predicatore metodista) che predicava la non violenza assoluta, ma lo fece di malincuore. Anche perché, va detto, l’ala armata (Umkhonto we Sizwe: ferro di lancia della nazione) si rese responsabile di azioni discutibili. In genere comunque erano fuori dalla Rsa, nello Zambia e in Namibia. Chi tentò effettivamente di portare la lotta armata dentro al Sudafrica fu il Pac, ma durò poco. Vorrei anche dire che in fondo quello di “prendere le armi” fu un ragionamento “da Bianchi”.

    D. Aveva anche accennato al fatto che molti dei problemi attuali del Sudafrica (criminalità, violenza contro le donne…) sarebbero il frutto degli anni dell’apartheid…
    Febe: Gli anni dell’apartheid sono stati anni terribili, soprattutto per i giovani. Si calcola che furono circa 85mila i bambini incarcerati e torturati. Venivano portati in tribunale come “sovversivi”. Ricordo due gemelline di tredici anni, arrestate anche loro insieme al padre perché durante una perquisizione avevano trovato in casa “Arcipelago Gulag”. Altri bambini vennero arrestati perché casualmente avevano i quaderni con gli stessi colori dell’Anc (verde, oro e nero)…E quando non li arrestavano li “ripassavano” con la frusta. Venivano sospettati per ragioni assurde, per esempio se a scuola dimostravano un eccessivo interesse per la Storia o se cantavano a squarciagola. Ugualmente se alle partite facevano il tifo per gli anglosassoni invece che per i Boeri. Una volta il figlio di Desmond Tutu venne arrestato mentre assisteva ad un processo soltanto perché gli era scappato da ridere. Io lo dicevo sempre: questa è una generazione distrutta. I genitori stessi erano disperati perchè vedevano che i loro figli degeneravano. Naturalmente c’era anche la violenza che proveniva da alcuni Neri, come Buthelezi e le sue bande ben organizzate.**
    D. Cosa può dirci sui processi che hanno portato i carnefici a confrontarsi con le vittime, a guardarsi negli occhi, ad autodenunciarsi e a venire in qualche modo assolti (talvolta perdonati)?
    Febe: In questi processi i due presidenti erano Desmond Tutu e Khoza Mgojo, pastore metodista (la Truth and Reconcilation Commission era suddivisa in tre Commissioni specifiche, e loro erano i presidenti di una di queste). Hanno avuto poco aiuto, ma hanno fatto un lavoro enorme. Tutu in particolare è un grandissimo organizzatore e in questo gli è stata di grande aiuto la moglie. La gente si iscriveva per parlare; per primi venivano le vittime e da questo nasceva il collegamento con i responsabili (i torturatori, le squadre della morte, i “vigilantes”…) che venivano convocati.
    Ovviamente erano incontri laceranti, ma in qualche modo in grado di ricomporre rapporti umani.

    D. E’ probabile che i mandanti di eccidi e torture non si siano neanche presentati…
    Febe: Anche De Klerk, non parliamo poi di Botha (il primo parzialmente, il secondo totalmente) si sono rifiutati di dare testimonianza. Botha è stato particolarmente sprezzante nel rifiutarsi di comparire. Ma è importante sottolineare che non ci sono state vendette, faide, perché la cultura dei Neri sudafricani, degli anziani soprattutto, era questa; per me è stato l’ultimo atto di una testimonianza di grande civiltà, di una cultura tradizionale che rischia di scomparire. In qualche modo ha smentito coloro che consideravano la questione del Sudafrica prettamente politica, legata in qualche modo al rischio del “comunismo” (anche se il Partito comunista in Sudafrica era soprattutto un partito di Bianchi, comunque una corrente di pensiero politico minoritaria); si trattava di una menzogna pretestuosa destinata a giustificare e perpetuare l’apartheid. Io penso che i principi religiosi siano stati fondamentali, che la resistenza derivasse dalla profonda spiritualità degli africani, qualunque fosse la forma religiosa di appartenenza compresa la tradizione animista.

    D. Ha avuto modo di conoscere personalmente persone depositarie di queste tradizioni che, presumo, saranno state in gran parte sradicate dall’opera di “evangelizzazione” degli europei?
    Febe: Io non so cosa fosse esattamente la religione dei Neri prima della seconda metà dell’800, ma una volta, a duemila metri di altezza, siamo arrivati in un villaggio di circa duemila anime avvolto nella nebbia. Erano tutti animisti. C’erano anche quattro suore che avevano aperto una scuola. Ricordo una suora molto giovane, irlandese, che parlava sia Zulu che Afrikaneer. Un’altra era esperta in agricoltura, una medico e un’altra, ingegnere, costruiva i pozzi per l’acqua. Era una zona dedita all’allevamento del bestiame: alla mano d’opera nera era permesso solo di bere dalle stesse pozze del bestiame con conseguenze sanitarie immaginabili.
    Io, che sono sempre un po’ sospettosa, ho cominciato a far domande: mi risposero che tra quella gente avevano imparato molto, anche in materia di fede.
    Quando nasceva un bambino era normale chiamarlo con nomi il cui significato era “Grazie a Dio”, “Benedetto dal Signore”…
    Nella loro scuola c’erano circa 600 allieve. Chiesi: “Voi insegnate a leggere, a scrivere…Catechizzate anche?”. Mi risposero che avevano smesso di farlo. Quando raccontavano una storia della Bibbia venivano ascoltate molto volentieri, anche perché alcune vecchie regole (per es. nel Levitico) erano identiche a quelle dell’antica religione animista praticata dagli abitanti del villaggio.
    Io temo che anche il cristianesimo “esportato” con la nostra mentalità, abbia fatto dei danni in Africa. Penso per esempio al problema della contraccezione che veniva praticato in modo naturale, con l’uso delle erbe…

    D. La divisione tra Bianchi e Neri si riproduceva anche all’interno delle diverse Chiese?
    Febe: le due comunità, bianca e nera, non si incontravano.; nelle chiese dei Bianchi i Neri non c’erano. Quando Desmond Tutu divenne vescovo a Johannesburg in una Chiesa anglicana bianca, in chiesa non andava più nessuno. Lo ricordo bene perché andai a trovarlo ed era solo, disperso, in mezzo a tutti quei banchi ottocenteschi.
    Va anche detto che forse nelle chiese protestanti, dove vige una maggiore libertà, le cose erano un po’ più facili. Tutte le decisioni vengono prese dalla base, non dall’alto e quindi nel Sinodo ci si incontrava; a tale proposito c’erano dei permessi speciali (già nei primi anni ’80 il presidente di turno della Chiesa Metodista era un africano nero).
    Una volta Beyers Naudè mi disse. “La cosa che mi rattrista di più è che in questo modo i Bianchi perdono la fraternità dei Neri”. Ho compreso realmente cosa intendesse dire dopo aver partecipato ad un incontro in una chiesa frequantata solo da neri. In Sudafrica si canta sempre, alla cerimonia si arriva mezz’ora prima perché si canta e ppoi si canta anche alla fine. Ci si mette in fila e si esce ordinatamente sempre cantando. Quella volta mi avevano messo in mezzo e tutti, cantando, sono venuti a darmi la mano, in fila. Ad un certo punto venne avanti piano una vecchietta che zoppicava un po’ e intanto frugava. Mi ha preso le mani mettendoci un “rand” (circa mille lire) dicendo: “Questa è l’unica cosa che possiedo e la voglio dare a te che sei venuta fin qui a trovarci…”. Poi naturalmente l’ho dato al pastore.

    D. Qualche volta sento dire che forse il prezzo pagato per abbattere l’apartheid è stato troppo alto e i risultati inferiori alle legittime aspettative. Cosa ne pensa?

    Febe: Dico che, nonostante tutto, non c’è confronto con l’epoca dell’apartheid. Certo si pensava che le cose cambiassero più in fretta, ma credo comunque che ne valesse la pena. Pensiamo soltanto al problema delle famiglie divise, lacerate. Spesso gli uomini, per lavorare, dovevano viver ein condizioni indegne negli “ostelli”, lontano dalle famiglie, con contratti di due anni (e quattro settimane di ferie). Io ho potuto vederli solo dopo la fine dell’apartheid. Esistevano due livelli di controllo, la polizia esterna e quella interna. In alcuni casi uscivano solo attraverso dei tunnel per recarsi al lavoro, per esempio in miniera. Dormivano in sedici per stanza; i letti erano a castello, ma non erano sufficienti; il refettorio aveva la centro una lunga tavola in cemento, le sedie fissate al suolo. Questi lavoratori vivevano in condizioni orribili. L’unica cosa che negli “ostelli” circolava in quantità e a buon mercato era una pessima qualità di birra che distruggeva i reni. Dieci-dodici anni di questa vita e ne uscivano abbruttiti. Quando tornavano a casa avevano ormai dimenticato le loro tradizioni, o meglio: no, non le avevano dimenticate, ma non ne erano più i portatori.
    Le donne nel frattempo li avevano sopravanzati ed erano loro ormai al centro della vita stessa; era come se loro non servissero più a niente. Le conseguenze oggi sono stupri e violenze sulle donne, come conseguenza di quegli anni.
    Nelle township, arrivati a quindici anni i figli dovevano andarsene nella homeland alla quale erano assegnati a seconda della lingua imparata dalla madre. Era lo smembramento di un popolo. Naturalmente in qualche caso oggi si assiste anche alla perdita di posti di lavoro, come in molte miniere dove non c’era mai stata innovazione tecnologica, dato che la mano d’opera a basso costo era in grande quantità; oppure in alcune vaste estensioni di terra vicino alla Namibia. Qui, sulle grandi proprietà delle immense fattorie, la mano d’opera viveva senza diritti, ma avendo comunque la possibilità di viverci; le donne ei bambini che lavoravano e anche la mano d’opera esterna, venivano pagati in modo irrisorio; oggi questo non è più possibile e i proprietari bianchi hanno cacciato dai loro terreni la mano d’opera che non sono disposti a pagare secondo le nuove norme.
    Certo, risalire la china è duro, ma ora almeno possono risalire. Basta guardare cos’è successo alle ultime elezioni (aprile 2004 nda). Una partecipazione del 90%; in soli tre giorni tutti i risultati erano disponibili. Non per niente la persona responsabile dell’organizzazione delle elezioni era una donna, Pansy Tlakula.
    Gianni Sartori

    *nota: il rev. Sol Jacob, pastore emerito della Chiesa metodista e docente di Etica al Federal theological seminary, è stato presidente dell’associazione delle chiese metodiste. Ha partecipato alla lotta di liberazione dall’apartheid, è stato incarcerato e posto in isolamento. Sfidando il regime, nel 1977, nella regione del kwaZulu ha fondato una scuola materna interrazziale e interreligiosa che attualmente ospita circa 150 bambini. Nel 2008 ha avviato un progetto di lotta all’Hiv-Aids che si prende cura in particolare degli orfani. Dirige una catena di assistenza alla povertà estrema, con distribuzione di cibo, corsi di formazione e cura dei bambini di strada. Ha operato in campo ecumenico nel South African Council of Churches e presso l’Onu per la Commissione rifugiati e migranti.
    ** nota. Soprannominato Quisling, Buthelezi (lo ricordo per giovani e smemorati) veniva invitato a Rimini da Comunione e Liberazione e fu anche un riferimento per l’area “tercerista” (neofascista) nostrana. Chissà, forse gli ricordava gli Ascari…

  3. Uso lo spazio dei commenti per una breve precisazione. Come mi ha fatto notare Franco Pianalto (vecchio militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista; oltre che amico di Bertacco) nell’articolo su Guido avevo dimenticato il ruolo fondamentale svolto nel lavoro di controinformazione sul manicomio di Vicenza di un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio Caneva, ma non parente). Provenivano direttamente da lui gran parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi e per il suo impegno subì angherie e vere e proprie persecuzioni che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, in collaborazione con un altro sindacalista e socialista, un Sartori, aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani” in quanto i due medici che dirigevano il lager, pardon il manicomio, non trovavano un accordo sui cucchiai. Mentre per uno dovevano essere di legno, per l’altro di stagno. Non è una barzelletta; perfino il Giornale di Vicenza dovette occuparsene con un articolo carico di, per quanto moderata, indignazione. Questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato “68”! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) rendiamo quindi il dovuto onore.
    GS

  4. IN MEMORIA DI GUIDO BERTACCO

    (Gianni Sartori – 2015)

    Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015). Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento AnarchicoVicentino) prendesse l’iniziativa? Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli….E vorrei qui ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.
    Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di stato per militanza ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere; altri ancora sono semplicemente invecchiati…
    Guido (assieme a Claudio Muraro e Rino Refosco, se non ricordo male) aveva partecipato all’esperienza milanese della Casa dello Studente e del Lavoratore. Un breve riepilogo: nell’aprile del 1969 gli studenti occupavano l’Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Quasi contemporaneamente veniva occupato un vecchio albergo a Piazza Fontana. Qui venne applicata una rigorosa autogestione e l’ex albergo ora denominato “Casa dello Studente e del Lavoratore” subirà presto sia gli attacchi dei fascisti (con il lancio di alcune molotov) che una indegna campagna di stampa criminalizzante. Lo sgombero per mano della polizia scatterà all’alba, come da manuale, per concludersi con numerosi arresti. In un libro fotografico di Uliano Lucas c’è l’immagine del processo ad alcuni anarchici in cui si riconoscono un paio dei sopracitati vicentini; in qualità di pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso, per il momento non ancora imputati. Secondo una leggenda locale Guido sarebbe partito da Vicenza ancora m-l per ritornarvi anarchico. A Vicenza comunque i tre fondarono immediatamente il MAV e aprirono in Contrà Porti una sede, destinata ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo gli eventi del 12 dicembre. I visitatori venivano accolti da uno striscione un pochettino situazionista “Date a Cesare quel che è di Cesare: 23 pugnalate!”. Del resto era questo il clima dell’epoca.

    Di tutto l’impegno di una quindicina di compagni (più o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro in corso d’opera) tra la fine degli anni sessanta e i settanta resta poco. Forse i reperti più consistenti (entrambi gelosamente conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa con A cerchiata nera (non proprio ortodossa, ma ha sventolato ai funerali del Borela, ardito del popolo di Schio) e un pacco di volantini di cui credo non esistano altre copie. Sono quelli distribuiti nel corso di un paio d’anni (1971-1972), regolarmente, almeno uno ogni 15 giorni, davanti al locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi) in epoca pre-Basaglia; quasi una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non “La maggioranza deviante”, almeno”Morire di classe”. Denunciavamo le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: il compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana, destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla Resistenza.
    Il lavoro del MAV era stato apprezzato dai compagni del Germinal di Carrara
    (da non confondere con l’omonimo gruppo anarchico -e giornale- di Trieste con cui comunque si era in contatto) dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di Umanità Nova e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nelle Brigate Internazionali con Camillo Berneri; toccò a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni totali. Partimmo in quattro nel novembre del 1972. Oltre a me e Guido (l’unico con la patente e l’auto, gli altri tre eravamo tutti motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello e Mario Seganfredo (detto Mario cavejo per evidenti motivi) che quattro anni dopo perì in un incidente stradale. Dopo aver deciso di cogliere l’occasione per visitare anche altri gruppi lungo la strada, ci stipammo nell’auto di Guido. Prima tappa Reggio Emilia (o era Parma?) dove, nella biblioteca del locale gruppo anarchico, ci accolse un incredibile compagno ottantenne. Aveva fatto tutto: l’ardito del popolo, la Spagna, la Resistenza, l’USI…
    Conservo il ricordo di un intenso abbraccio tra lui e Guido, quasi un passaggio di testimone. Alla notte, dopo aver fatto la conta, Guido e Mario dormirono in macchina (dove c’era posto per due), io e Stefano all’addiaccio nel sacco a pelo. In seguito ci demmo il cambio, credo.
    Il giorno dopo, sosta in un bar sulla sommità di un passo appenninico dove percepii una sensazione da “confine del mondo”. Ricordo delle rocce rossastre, color ruggine (erano forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzareti?) e Mario suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che completava l’arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere, nella mitica sede del Germinal con Failla e Marzocchi, combattenti inesausti.
    Alla parete la risoluzione di Kronstadt (quella del 1921) e un’immagine di Rosa Luxemburg.
    Dopo una discussione, amichevole ma tesa, su CHE Guevara (che io comunque difendevo a spada tratta, con spirito ecumenico), Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta. A Genova pernottammo da un amico di Guido, un musicista. Dopo Milano Mario scese nel cuore della notte proseguendo per Bologna, dove aveva una morosa, in autostop. La nostra scorribanda si concluse a Peschiera. Giungemmo in tempo per partecipare alla manifestazione davanti al carcere militare che in quel periodo ospitava soprattutto obiettori totali, in maggioranza testimoni di geova e anarchici (tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.). Ci fu anche una carica dei carabinieri. Da Carrara portammo a Vicenza un pacco di manifesti (poi denunciati e sequestrati) per Franco Serantini, il compagno assassinato a Pisa qualche mese prima (maggio 1972). Scoprii al ritorno che lo stato si era premunito di avvisare la mia famiglia del fatto che mi trovavo a Carrara in un covo di sovversivi (il Germinal) e non, come avevo elegantemente detto, a Padova per ragioni di studio (all’epoca alternavo periodi di facchinaggio con la militanza e improbabili percorsi universitari). Gentile da parte sua, lo stato intendo.
    Che altro dire di Guido? Forse di quella volta che lo incontrai in corso Palladio con un paio di bastoni diretto al liceo dove il giorno prima i fascisti avevano sprangato alcuni compagni (in particolare, il futuro storico Emilio Franzina e Alberto Gallo, figlio del noto avvocato, figura di spicco della Resistenza vicentina). Mi invitò a partecipare alla sua “spedizione punitiva” e sinceramente non me la sentii di lasciarlo andare da solo “incontro al nemico”, ma in cuor mio sperai ardentemente che quel giorno i fasci si fossero presi un giorno di ferie (anche perché qualche giorno prima era toccato anche a me di partecipare ad uno scontro dove me la ero cavata con qualche legnata, in parte restituita). Ma se penso a Guido lo rivedo in piedi, in tuta da imbianchino, barba e capelli lunghi, aspettare la figlioletta all’uscita dalla scuola elementare di via Riello. Immancabilmente, ogni giorno. Proletario, ribelle e rivoluzionario, senza mai perdere la tenerezza.
    Ci mancherà.

    Gianni Sartori

  5. TRA REVISIONISMO SPICCIOLO E PERDITA DELLA MEMORIA
    (Gianni Sartori)
    Sempre più spesso ci tocca dover leggere interpretazioni e ricostruzioni artefatte, mistificanti (quantomeno superficiali, in qualche caso semplicemente false) sugli anni 60-70-80…
    Vabbè, abbiamo perso e la Storia la riscrivono i vincitori, ma almeno siate plausibili.
    O forse mistificare, stravolgere, infamare…serve ancora per esorcizzare la “grande paura” delle classi dominanti nei confronti di un possibile ritorno delle rivolte popolari? Il guaio è che a furia di insistere su alcune falsità queste diventano moneta corrente, luoghi comuni e le ritrovi anche dove non te lo aspetteresti. Qualche esempio alla rinfusa (ma volendo l’elenco sarebbe lunghissimo). Parlando su La Repubblica dei funerali di Pino Rauti Alessandra Longo (in genere osservatrice intelligente e preparata) definiva il fondatore di Ordine Nuovo un esponente del “fascismo di sinistra, anticapitalista e antimperialista”. Delirante. In che cosa sarebbe stato “antimperialista” questo ammiratore dell’OAS? Antimperialisti i neofascisti che si arruolarono nell’esercito sudafricano per combattere la resistenza indipendentista della SWAPO in Namibia? O quelli che in Libano collaboravano con la Falange maronita?
    “Antimperialista” anche Concutelli che in Angola divenne il vice del collaborazionista Jonas Savimbi, uomo della CIA, dopo aver fornito manovalanza alle squadre della morte antibasche in Spagna (con Rognoni, Delle Chiaie e Guerin Serac, come ha ricordato il giudice Salvini nella sentenza ordinanza della strage di piazza Fontana)? E poi, perché avvallare, sempre su La Repubblica, la favola di un Ordine Nuovo “anticapitalista”? Forse per il coinvolgimento nelle bombe del 12 dicembre 1969 nelle banche? Ma per favore! Incomprensibile poi che venga definito “il Gramsci di destra” (!?!). Forse per aver denominato la sua organizzazione “Ordine Nuovo” come il giornale del comunista sardo-torinese vittima del fascismo? Ma Gramsci pensava ad una nuova forma di organizzazione sociale che doveva sorgere dai consigli operai (“soviettista”) mentre per Rauti era la versione italica dell’Ordre Nouveau francese che si ispirava all’Ordine Nero delle SS (nel senso di confraternita, gruppo chiuso dell’aristocrazia guerriera dominante, come i cavalieri teutonici). Gli unici tentativi (comunque taroccati) di “gramscismo di destra”, che io sappia, sono quelli del francese De Benoist e di quel Tarchi che fu redattore della “Voce della Fogna” e tra gli ideatori dei campi Hobbit. Si parva licet, vorrei citare anche un’intervista (apparsa sul settimanale diocesano vicentino) ad Achille Serra da cui si ricava che l’inizio degli “anni di piombo” (termine abusato preso in prestito dalla Germania e inizialmente utilizzato per definire il biennio 1977-1978) risalirebbe addirittura al novembre del 1969 e alla morte dell’agente Annaruma “morto in uno scontro tra la polizia e gli anarchici”. A parte che Annaruma, molto probabilmente, è rimasto vittima di uno scontro tra gipponi impegnati nei famosi “caroselli” (come documentava un video trasmesso dalla televisione francese, ma censurato dalla Rai, un metodo che costò la vita negli anni sessanta all’Ardizzone e nel 1975 a Giannino Zibecchi, per citarne un paio) resta il fatto che in quel momento davanti al Lirico di Milano si trovavano gli operai metalmeccanici dei tre sindacati confederali e un gruppetto di maoisti (tanto per la precisione). Certo, far iniziare gli “anni di piombo” venti giorni prima della strage di Stato a Piazza Fontana (e almeno sei o sette anni prima di quelli realmente e storicamente definibili come tali) permette di annacquare il tutto, stendere un velo sulla strategia della tensione e sul ruolo di manovalanza svolto dai fascisti, alzare una cortina fumogena indistinta sulla “violenza” e nascondere le responsabilità di apparati più o meno occulti in quelli che caso mai si dovrebbero chiamare “anni del tritolo di stato” (vedi, oltre al 12 dicembre, le stragi di Brescia e dell’Italicus nel 1974). Fermo restando che all’epoca il piombo statale aveva già fatto le sue vittime tra i manifestanti (Avola e Battipaglia, fine 1968-inizi 1969) nel solco di una tradizione ben consolidata. Ricordo che all’epoca ho personalmente distribuito i volantini che denunciavano l’uccisione di oltre un centinaio di manifestanti dal dopoguerra alla fine degli anni sessanta. Se non ricordo male, perfino i sindacati chiedevano il disarmo della polizia! Altro esempio di blando “revisionismo” (stavolta ritengo del tutto inconsapevole) dove non me lo sarei mai aspettato, su “A, Rivista anarchica”. Parlando della recente autobiografia del fondatore di Avanguardia Nazionale (dove questo collaboratore storico dei regimi fascisti di mezzo mondo si sforza di paludarsi con un’immagine da “rivoluzionario tercerista”, quasi un montonero) l’autore della recensione lamenta che Stefano Delle Chiaie non abbia ben chiarito quali fossero le sue attività nei periodi trascorsi in Spagna e in Bolivia. Beata ingenuità! Mai sentito parlare della consistente presenza di neofascisti italiani nelle squadre della morte contro i rifugiati baschi? E della mitraglietta Ingram già in dotazione alla Guardia Civil (”sottratta” a Delle Chiaie, nella versione di Concutelli) e poi utilizzata per assassinare il giudice Occorsio? O delle foto che ritraggono il “caccola” con altri neofascisti italiani al raduno di Monte Jurra (Jurramendi in euskara) dove vennero assassinati alcuni esponenti della componente socialdemocratica dei Carlisti? Quanto alla Bolivia, è noto che Delle Chiaie fornì le sue competenze al regime golpista e torturatore.
    Nel libro (con il titolo “L’aquila e il condor” preso in prestito da un testo iniziatico di sciamanesimo; forse era più indicato “L’avvoltoio e la iena” con tutto il rispetto per i due simpatici necrofagi) viene pubblicato un esempio da manuale di “intossicazione e propaganda”. Un volantino per il Primo maggio dove si strumentalizzano perfino i Martiri di Chicago (anarchici, condannati a morte del tutto innocenti) per dare un’immagine “sociale” e antimperialista della giunta militare.
    Forse, oltre al classico “La strage di Stato” (per quanto da aggiornare in base alle nuove informazioni che il compianto Edgardo Pellegrini all’epoca non poteva certo scovare) andrebbero riletti almeno “La destra radicale” (a cura di Franco Ferraresi, Feltrinelli ed.) e il libro di Stuart Christie “Stefano Delle Chiaie, portrait of a black terrorist”, black papers n.1, Anarchy magazine/refract publitions, London 1984. Non c’è tutto, ma quanto basta per farsi un’opinione. Una boccata di aria fresca dopo le ambigue rivalutazioni del neofascismo operate dai vari epigoni di Giampaolo Pansa (Luca Telese, Nicola Rao…forse più il primo che il secondo).
    Gianni Sartori

  6. APPELLO
    Invio questo “frammento di memoria” per sottolineare la mia estraneità all’illustre politologo GIOVANNI Sartori con cui recentemente sono stato confuso (a sinistra) e quindi criticato per alcune sue dichiarazioni in materia di immigrazione. Come traspare da questo mio articolo, per quanto datato, la mia concezione del mondo (con tutto il rispetto per lo spessore culturale del mio QUASI omonimo) è un poco diversa. E naturalmente ho ancora meno a che fare, ca va sans dire, con un altro Gianni Sartori (questo sì, purtroppo, omonimo) che imperversa su vari siti (del Giornale , sul sito di Grillo per es.) lanciando offese e minacce (“merde”, “tre metri di corda…” etc) nei confronti di sinti, rom, immigrati e “comunisti”. Ribadisco che non siamo neanche lontanamente parenti (in tutti i sensi). Tra l’altro mia nonna era sinta (e mio nonno cimbro) per cui…
    ciao e grazie per l’ospitalità
    Gianni Sartori

    CORREVA L’ANNO 1970… (Eride e i suoi fratelli)
    (Gianni Sartori)
    Era una nebbiosa serata di novembre. L’anno il 1970. Dopo la riunione, avevo accompagnato Tiziano Zanella verso casa. Progetti, speranze, dubbi che si affacciavano alla mente di due diciottenni già schierati politicamente e poco disposti a pazientare. A dire il vero, anche se sarebbe più in sintonia, la riunione non era per organizzare manifestazioni o picchetti, ma una spedizione alla grotta denominata “Buso della Rana”, all’epoca ancora la più lunga d’Italia (tra quelle conosciute, ovviamente). Presumo quindi fosse venerdì, serata canonica per gli incontri del Club Speleologico Proteo. Lo stradone dello stadio affogava nella densa nebbia che fuoriusciva dal fiume Bacchiglione. A mala pena si distingueva un alone lattiginoso attorno ai lampioni. I tigli siberiani sull’argine, ombre nere che si perdevano verso l’alto. Impossibile distinguere il ponte della ferrovia e, sull’altra riva, il piccolo monumento ai “Dieci martiri”. Tra i giovani resistenti fucilati dai fascisti sulla striscia di terra che separa il Bacchiglione dal Retrone, anche due rom.
    Improvviso un rumore di passi nelle tenebre, forse una voce. Un’immagine che ricorderò per sempre. Cinque figure allineate, di corsa, che si tenevano per mano occupando quasi l’intera carreggiata. Nessuno restava indietro. Sull’argine, per un attimo, due sagome evanescenti subito dissolte. Le persone in realtà erano sei. Una madre con i suoi figli. Il più piccolo, avvolto in uno scialle, appeso al collo.
    La donna, una “singana” nel linguaggio politicamente scorretto di quando non si sapeva di sinti e di rom, raccontò di essersi accampata nello spiazzo lungo la ferrovia, vicino al vecchio Foro boario, uno dei luoghi dove periodicamente si fermavano carovane in transito.
    Ci spiegò che due individui (le ombre intraviste sull’argine) avevano tentato di entrare con chiare intenzioni. Preoccupata soprattutto per la figlia quattordicenne, era immediatamente fuggita portandosi appresso tutta la famiglia. Raccontò di essere stata recentemente abbandonata dal marito che se ne era andato con la loro roulotte e di vivere in una tenda, dono di un medico benefattore. Fino a qualche giorno prima il campo aveva ospitato alcune carovane. Ma poi erano partite per Milano e loro erano rimasti soli, in attesa che qualcuno li aiutasse a trasferirsi dall’altra parte della città. A Sant’Agostino, dove agli inizi degli anni settanta stazionavano sempre piccoli gruppi di nomadi.
    La donna, nonostante la situazione, dimostrava un forte carattere e non voleva assolutamente ritornarsene nella tenda. I loschi individui avrebbero potuto ritornare. Che fare? Alla fine, dopo aver ampiamente dibattuto, pensammo di risolvere la situazione ospitando provvisoriamente la famiglia in una qualche sede di quelle che frequentavamo abitualmente . Una telefonata per strappare al sonno un dirigente politico, discussione animata (per gli ideologi operaisti ortodossi gli “zingari” erano lumpenproletariat di cui diffidare) e alla fine consegna delle chiavi. Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare presenti a Vicenza erano allora una mezza dozzina. Per quella notte trovammo ospitalità a “Potere operaio”, nella vecchia sede di S.Caterina, la prima. Mettemmo a disposizione la sala delle riunioni (dove troneggiavano due manifesti di Marx e Lenin:“ma quello chi è, tuo nonno?”) dove dormirono avvolti nelle coperte che, prudentemente, si erano portate via prima di scappare, mentre noi restammo a far la guardia tra il corridoio e il ciclostile. Un paio di notti freddissime, nonostante l’eskimo. Nei giorni successivi ci occupammo del trasloco, effettuato con uno di quei carretti a pedali che circolavano ancora in città. Per più di un anno frequentai il campo dove si erano stabiliti contribuendo con collette e doni in viveri. Determinante, sia per umanità che per doti organizzative, il ruolo del futuro dott. Dino Sgarabotto che successivamente avrebbe confermato la sua tempra umanitaria in Kenya con il CUAM.
    La madre dei bambini raccontava di essere sfuggita, in tenera età, allo sterminio della sua famiglia. Un giorno dei funzionari erano venuti a cercarli in una località “vicino a Trieste” (poteva trattarsi anche dell’Istria) per portarli a “fare gli esami del sangue” e nessuno di loro fece più ritorno. In quel momento lei era in giro, a giocare, e una sua cugina (che evidentemente aveva mangiato la foglia) si offrì di restare ad aspettarla per poi recarsi in”ambulatorio”. Appena la bimba fu tornata, la cugina l’afferrò e cominciò a correre, a scappare lontano.
    Davo per scontato che la famiglia fosse stata distrutta per mano dei nazifascisti, ma poi qualcuno (forse un “revisionista”?) suggerì che avrebbero potuto trovarsi anche tra le vittime delle foibe. Molti di loro infatti erano classificati come “profughi giuliani”. Lo scoprii quando, in occasione delle elezioni, venivano nel campo per comprarsi qualche voto gli esponenti di un partito ben noto. Ma non certo per il suo antirazzismo. Missini senza scrupoli che al danno aggiungevano anche le beffe. La conferma che era stata opera dei nazifascisti (in una data imprecisata, ma comunque dopo l’8 settembre 1943) la ebbi quando mi recai, su loro richiesta, al Comune di Trieste (in autostop) per ritirare alcuni documenti. Dalle carte si intuiva che la prima tappa del viaggio verso la desolazione e la morte era stata a San Sabba, la “risiera”.
    Nessuno dei cinque figli frequentava la scuola anche se tre di loro ne avevano l’età. Sette, otto e quattordici anni. Cominciai quindi a dare lezioni, all’aperto, anche d’inverno. Talvolta con il terreno ricoperto di neve. Avevamo trovato una stanza, messa a disposizione da una signora di buon cuore, ma loro preferivano così. La cosa avveniva in maniera del tutto “spontaneista” (oltre che, sicuramente, velleitaria) dato che diffidavo delle varie associazioni impegnate all’epoca a “riadattare i nomadi” (come da statuto). Qualche problema anche con alcuni compagni che si occupavano esclusivamente di “classe operaia” dura e pura. Anche se poi, diversamente da chi scrive, a lavorare in fabbrica nessuno di loro c’è mai andato. In compenso qualcuno di loro avrebbe visto volentieri gli zingari alla catena, anche se solo di montaggio*. Da parte mia (dato che la Rivoluzione sembrava ormai dietro l’angolo) ritenevo fosse giusto “non lasciare indietro nessuno”. Talvolta succede, da giovani, di volare alto. Malattia infantile da cui si può comunque guarire.
    Studente-lavoratore, trascorrevo parecchie notti da “Domenichelli” a scaricare e “stivare” camion. Di solito mi recavo al campo nel pomeriggio, prima di iniziare il turno. Altre volte di mattina, quando staccavo. Ovviamente non tutti i giorni, sicuramente molto meno di quanto sarebbe stato necessario. Ma con l’aiuto di alcune amiche del “Fogazzaro” (ricordo in particolare due compagne, Rosanna Rossi e Chiara Stella) qualcosina riuscimmo a insegnare. Anche perché i bambini erano svegli, soprattutto Eride, la più grande. Ne avemmo conferma un paio d’anni dopo che se ne erano andati, a Milano. Sul “Corriere della sera” venne pubblicata una sua lettera bellissima (forse un po’ strappalacrime, ma a fin di bene) che suscitò un’ondata di solidarietà nei confronti della sfortunata famigliola.
    Per il sottoscritto c’era stato qualche piccolo precedente rivelatore. Una mezza denuncia, due anni prima (nel “68”) per aver tolto (“divelto”) alcune tabelle di “Sosta vietata ai nomadi”. In seguito, partiti i miei amici per Milano, non ricordo di averne frequentati altri per parecchi anni, almeno in Italia. Invece all’estero non mancarono occasioni di confronto e talvolta anche di “scontro”, come quando in Bosnia venni inseguito per essermi avvicinato a un accampamento con macchina fotografica. Ricordo, in Guipuzkoa, un militante del movimento antinucleare Eguzki che rivendicava di essere “un basco di origini gitane” e i Tinkers accampati tra il Bogside e il Craigsvon Bridge, a Derry, in Irlanda del Nord (in realtà i Tinkers avrebbero scelto il nomadismo in epoca relativamente recente, per imitazione).
    Nel 1987 proposi ad un settimanale locale di “area progressista” (Nuova Vicenza) alcuni articoli sui campi nomadi del vicentino, via Cricoli in particolare. Visitai, venni invitato a pranzo, partecipai a qualche battesimo, matrimonio e funerale e scattai molte fotografie su richiesta. In una di queste, tempo dopo, riconobbi Paolo Floriani, un ragazzino destinato a morire tragicamente a causa di un inseguimento impietoso da parte della polizia. La sua corsa finì a Debba nel fiume Bacchiglione, in novembre, dopo aver salvato la vita dell’amico Davide che stava per annegare. **
    Come potei documentare, mentre i due sinti fuggivano in motorino per i campi (il giorno dopo restavano ancora i segni delle ruote sull’erba di un vigneto e ne conservo le foto), la polizia aveva sparato, probabilmente in aria. Dal punto dove si era buttato in acqua a quello in cui era annegato c’era una distanza di circa cento metri. Braccato da una riva all’altra, aveva attraversato il fiume quattro volte prima di affogare. Partecipai ai funerali di Paolo e il mio articolo, in cui lo definivo “vittima di razzismo istituzionalizzato, di Stato”, non venne mai pubblicato dal solito settimanale “progressista” (per non aver rogne con le autorità, mi spiegarono). Diventò un volantino di denuncia, firmato dalla sez. di Vicenza della “Lega per i diritti e le liberazione dei popoli” e per quel testo rischiai una querela.*** Ma questa è un’altra storia.
    Gianni Sartori

    * solidarietà, invece, dai compagni del M.A.V. (Movimento anarchico vicentino, ricordo Claudio Muraro, Rino Refosco, i fratelli Anna ed Enrico Za, Laura Fornezza, Stefano Crestanello, Guido Bertacco, Alberto Pento, Gianni Cadorin… che nello stesso periodo difendevano la dignità di altri “marginali”, i reclusi dell’ospedale psichiatrico. Con il sostegno del compianto Sergio Caneva, medico e partigiano.

    ** Per saperne di più vedi: “Nomadi e scomodi” su A, rivista anarchica n. 187, dicembre 1991 e anche “la morte di tarzan” sempre su A, Rivista anarchica n. 206, febbraio 1994

    *** L’autore di un discutibile articolo sulla morte di Paolo, un ex di Lotta Continua, pubblicato dal Giornale di Vicenza non aveva gradito di essere stato “messo in discussione” nel volantino.

  7. “…NON VOGLIAMO DISCUTERE DI FRONTE AL NEMICO LA LORO MORTE…”
    A 35 ANNI DALLA MORTE DI ANTONIETTA, LORENZO, ANGELO, ALBERTO
    (Gianni Sartori)*

    Negli anni settanta del secolo scorso il protagonismo politico e sociale delle classi subalterne conobbe una forte radicalizzazione.
    Anche nel Veneto, considerato una sorta di “Vandea” bianca e bigotta, ma che era stato periodicamente percorso da stagioni di lotte significative: dal “furto campestre di massa” a La Boje, dalle “Leghe bianche” (che in genere operavano come quelle “rosse”) alla Resistenza (v. i durissimi rastrellamenti del 1944: Malga Zonta, Asiago, il Grappa, il Cansiglio…).
    Senza dimenticare la rivolta operaia di Valdagno del 19 aprile 1968. E non mancarono, dalla Bassa padovana all’Alto Vicentino, componenti libertarie. All’inaugurazione di una delle prime sedi sindacali a Schio partecipò Pietro Gori (l’autore di Addio Lugano bella). Una tradizione testimoniata da personaggi come il compagno anarchico “Borela”, un Ardito del Popolo che accolse i fascisti in marcia verso Schio a pistolettate. Per non parlare di uno dei fondatori del Pcd’I, Pietro Tresso (“Blasco”, comunista dissidente, ucciso in Francia da agenti della Ghepeù stalinista) e di Ferruccio Manea (il “Tar”), eroico comandante partigiano ricordato da Meneghello in “Piccoli maestri”. Tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta a Vicenza era presente un gruppo anarchico, il MAV, molto attivo nella denuncia delle istituzioni totali. Altri gruppi a Schio, Valdagno e Marano vicentino (Circolo operaio anarchico).
    Di questa tradizione si alimentarono le lotte di autodifesa proletaria contro i devastanti progetti capitalisti degli anni settanta. Progetti che trasformarono gran parte della terra veneta in un’alienante territorio urbanizzato, il modello nordest della “fabbrica diffusa”. Contro la drastica ristrutturazione produttiva (licenziamenti, lavoro nero e precario, intensificazione dello sfruttamento, inquinamento ambientale…) sorsero alcune inedite forme di autorganizzazione come i Gruppi Sociali, i Coordinamenti Operai, l’Opposizione Operaia. I metodi non furono sempre “eleganti”, ma sappiamo che “non è un pranzo di gala”.
    La nuova Resistenza fu particolarmente attiva lungo la fascia pedemontana dell’Alto Vicentino in località come Schio, Piovene, Thiene, Lugo, Chiuppano, Calvene, Bassano…
    Il 7 Aprile 1979 è passato alla Storia come la data dell’arresto di alcuni esponenti dell’area dell’Autonomia Operaia organizzata (Negri, Vesce, Ferrari Bravo…). Nel vicentino la mobilitazione è immediata. Per l’11 aprile è prevista una manifestazione nazionale a Padova e la sera precedente a Schio si organizza un’affollata assemblea del movimento. Da segnalare che in seguito i partecipanti rischieranno di essere incriminati perché l’assemblea pubblica verrà classificata come “riunione del servizio d’ordine” in cui sarebbero stati pianificati futuri attentati. L’11 aprile la manifestazione nazionale si svolse al Palasport dell’Arcella (Padova) con la partecipazione di circa seimila persone. Ma contemporaneamente a Thiene esplodeva una bomba rudimentale uccidendo i tre giovani che la stavano confezionando. Si trattava di Antonietta Berna, Angelo Dal Santo e Alberto Graziani, tre noti e attivi militanti dell’Alto Vicentino.
    Resasi indipendente dalla famiglia, Antonietta viveva di lavoro nero svolto a domicilio. Angelo Dal Santo, operaio, nel 1978 era entrato nel consiglio di fabbrica della RIMAR. Grazie al suo impegno i lavoratori di questa fabbrica metalmeccanica di Lugo avevano ottenuto migliori condizioni normative e salariali. Aveva poi organizzato picchetti e ronde contro gli straordinari. Partecipò all’occupazione di case sfitte e della “Spinnaker”. Ai suoi funerali, oltre a centinaia di compagni, erano presenti tutte le operaie di tale fabbrica.
    Angelo Graziani, studente universitario, aveva preso parte a tutte le iniziative del movimento: lotte per la casa e contro gli straordinari, organizzazione di precari e disoccupati…
    In un comunicato del 1° maggio 1979 i tre militanti vennero ricordati dal “Comitato per la liberazione dei compagni in carcere”:
    “Come movimento comunista, al di là delle attuali differenze interne, rivendichiamo la figura politica di questi compagni. Maria Antonietta Berna, Angelo Dal Santo, Alberto Graziani sono stati parte integrante nella loro militanza di tutte le lotte dei proletari della zona. Sono morti esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo Stato, contro questa società fondata e organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nessuna disputa di linea politica e le differenziazioni di impostazione e di analisi e di pratica dentro il movimento possono offuscare e negare l’appartenenza di questi compagni all’intero movimento rivoluzionario, a tutti i comunisti. Di fronte all’iniziativa del nemico di classe, alle iniziative repressive, al terrore fisico e psicologico, al terrorismo propagandistico, allo stravolgimento e strumentalizzazione dei fatti, l’intero movimento di classe deve rivendicare a sé questi compagni caduti, per non dimenticare, per ricordare. Non vogliamo discutere di fronte al nemico la loro morte, essa vive oggettivamente e soggettivamente dentro il movimento di classe in Italia, alla sua altezza e nelle sue difficoltà, nel suo sviluppo fatto con la vita e con la morte di migliaia di compagni lungo una strada che porti fuori dalla barbarie capitalistica e dalla miseria del socialismo reale, per il comunismo. A questa strada difficile questi tre compagni hanno dato comunque il loro contributo, la loro vita. Per questo, oggi più che mai, sono con tutti noi”.
    La sera stessa arrivano i primi arresti. Vengono incarcerati Chiara, moglie di Angelo; Lucia, compagna di Alberto; Lorenzo, compagno di Antonietta. Nel giro di poche ore anche Corrado e Tiziana che abitavano con Chiara e Angelo. Un altro ordine di cattura viene spiccato contro Donato, al momento irreperibile. Nel frattempo vengono eseguite decine di perquisizioni e si effettuano numerosi fermi. Un gran numero di posti di blocco trasforma i dintorni di Thiene in un quartiere cattolico di Belfast. Tutti coloro che in qualche modo avevano a che fare con il Gruppo Sociale di Thiene rischiano ora l’incriminazione per banda armata. A tutti gli arrestati vengono contestati: l’appartenenza ad una associazione sovversiva costituita in banda armata; il concorso nella fabbricazione dell’ordigno esplosivo e nella detenzione di armi; il concorso in tutti gli episodi avvenuti nel Veneto negli anni precedenti. Fino al concorso morale nella morte dei tre giovani di Thiene. In un documento presentato da un imputato alla Corte d’Assise (“Quegli anni, quei giorni, autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979”) viene riportato che “la sera dell’11 aprile Chiara, Lucia e Lorenzo vengono condotti all’obitorio dell’ospedale di Thiene e lì costretti al riconoscimento dei corpi straziati e devastati”. E aggiunge “…il riconoscimento venne effettuato con criteri infami usandolo come deterrente per tutti i compagni”.
    Lorenzo Bortoli subisce l’isolamento totale per quasi un mese. Dopo l’isolamento viene messo in cella con un altro imputato che starebbe già collaborando con i giudici, all’insaputa di tutti. Ricorda un suo amico che “gli si è voluto spezzare violentemente ogni possibilità di socializzazione, di vivibilità, di solidarietà all’interno del carcere, costruendogli addosso e attorno una realtà che solo attraverso la decisione di darsi la morte poteva negare”. Il primo tentativo di suicidio è dell’11 maggio con una ingestione di Roipnol. La direzione del carcere cercherà, invano, di farlo passare come un episodio di uso di sostanze stupefacenti. Numerose mozioni del Comitato Familiari
    che esprimono preoccupazione per la vita di Lorenzo, saranno sottoscritte da consigli di fabbrica e di quartiere. Anche sindacati e partiti intervengono affinché si ponga fine alla detenzione del giovane garantendogli la possibilità di ricostruirsi un equilibrio psico-fisico. Ma tra il primo e il secondo tentativo di suicidio (22 maggio) i magistrati spiccano un nuovo mandato di cattura accusandolo di aver preso parte ad alcune rapine. In realtà in quei giorni Lorenzo si trovava al lavoro. Il 29 maggio l’avvocato Carnelutti, suo difensore, presenta un’istanza con cui chiede la libertà per Lorenzo Bortoli e per Chiara Dal Santo che tra l’altro aspetta un figlio. La richiesta è motivata da “gravi e preoccupanti motivi di salute”. E ancora, quasi una premonizione: “Un possibile irreparabile danno all’integrità psico-fisica dei due giovani peserebbe sul processo”.
    Ma il 31 maggio l’istanza viene respinta e le accuse ribadite, anche l’omicidio colposo nei confronti di Antonietta Berna. Il 18 giugno Lorenzo Bortoli viene trasferito con destinazione Trento. Sosta nel carcere di Verona e viene sistemato in una cella da solo. L’avvocato Carnelluti deposita a Vicenza un’istanza (che fa arrivare direttamente al G.I.) in cui segnala “il delicato stato di salute di Lorenzo Bortoli (fra l’altro reduce da due autentici tentativi di suicidio e da provocazioni di un coimputato assai sospetto) e mi preoccupo per l’atmosfera squallida di un carcere che non è certamente tra i migliori. Perché questa scelta? Da chi viene?”. Raccomanda inoltre di “valutare attentamente l’intenzione del mio difeso di restare solo in cella dal momento che le esperienze negative del passato legittimano il sospetto che ogni compagno di cella possa essere un provocatore”. Ma ormai il destino di Lorenzo sta per compiersi. Si toglie la vita impiccandosi nella notte tra il 19 e il 20 giugno. Il suo ultimo desiderio, quello di poter essere sepolto con Antonietta si realizzerà solo in parte: le due tombe sono distinte ma comunque vicinissime.
    Gianni Sartori

    *nda Per una serie di vicende personali chi scrive non ha partecipato di persona alle lotte della seconda metà degli anni settanta di cui si parla nell’articolo. Credevo anzi di aver concluso la mia militanza, iniziata davanti alla Ederle nell’ottobre 1967, con le manifestazioni del settembre 1975 al consolato spagnolo di Venezia per protestare contro la fucilazione di due etarras e di tre militanti del FRAP. A farmi ricredere, nel 1981, la morte per sciopero della fame di Bobby Sands e di altri nove repubblicani dell’IRA e dell’INLA (contemporaneamente a quella di un prigioniero politico basco dei GRAPO).
    Quindi soltanto negli anni ottanta ho conosciuto alcuni di quei compagni dell’Alto Vicentino che avevano subito la repressione del 7 aprile. La mia prima impressione fu che in questa area pedemontana la “breve estate dell’Autonomia” avesse avuto caratteristiche simili a quelle dell’Irlanda del Nord e di Euskal Herria, sviluppando un’idea di “società molto orizzontale” (così Eva Forest mi spiegava la lotta dei baschi).

    Bibliografia minima:

    1)“Quegli anni, quei giorni – autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979”

    (E’ un testo ricco di informazioni di carattere storico, indispensabili per comprendere il contesto dei tragici avvenimenti del 1979. Realizzato da un imputato vicentino del processo “7 Aprile-Veneto”, fotocopiato in proprio, pro manuscripto, forse reperibile in qualche Centro di documentazione ndr)

    2)“E’ primavera. Intervista a Antonio Negri” di Claudio Calia, BeccoGiallo edizioni, 2008
    (a fumetti)

    3) “Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie” (2 volumi) a cura di S. Bianchi e L. Caminiti, DeriveApprodi, 2007

    4) ed eventualmente per conoscere anche l’altra campana: “Terrore Rosso – dall’autonomia al partito armato” Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori, editori Laterza, 2010.

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